24/30 gennaio, Ravenna e Firenze / Repubblica luminosa

1 Febbraio 2022

lunedì

 

Quando arrivano i ragazzi, all’inizio, al villaggio nessuno li nota. Hanno tra gli otto e i tredici anni e girano sempre in gruppo. Non si sa bene dove vivano, da dove vengano, se abbiano dei genitori, dove scompaiano la notte. Forse si danno letteralmente alla macchia, ai limiti dell’abitato, perché il villaggio sorge accanto a un bosco. I ragazzi hanno una loro lingua, diversa, magica e inventata, che pare emanare direttamente dalle cose, dalla realtà. All’inizio semplicemente vagano, per le strade, le piazze e i giardini. Poi iniziano le rapine. Furtarelli, scippi, anche cose da nulla. Rubano perché sono dei diseredati, sono esclusi cioè da qualunque eredità, non avendo famiglie o comunità, tranne se stessi. Un giorno assaltano un supermercato e lo distruggono: devastano a uno a uno gli scaffali con una sorta di euforica, contagiosa allegria. E qui comincia la carneficina: in poco più di dieci minuti è il putiferio, tre feriti d’arma bianca e due morti, poi il silenzio. Dei ragazzi non resta più nessuna traccia.

 

Da quando Luigi e io abbiamo letto Repubblica luminosa, il romanzo di Andrés Barba uscito qualche anno fa per La nave di Teseo nella traduzione di Pino Cacucci, desideriamo farci qualcosa. In questi giorni di pianificazione triennale ho cominciato a rileggerne delle parti, per immaginare che cosa, come e, in caso, quando. «Per il 23 la vedo difficile», dice Marco, che sta scrivendo con me il progetto per il Ministero, «ma nel 24 c’è anche la produzione per i ragazzi e poi Le mille e una notte…»  

Mi prende una specie di vertigine. Siamo alle solite, penso. Il desiderio è come un grosso coltello e noi siamo il suo manico.

 

 

martedì

 

Sono passata a salutare mio padre. L’ho trovato davanti alla TV a seguire le dirette delle elezioni presidenziali. «Novità?» gli chiedo. «Tutto vecchio». È una tipica risposta calabrese: vuol dire che nulla è cambiato e, dunque, in un certo senso si può stare tranquilli. Nessuna nuova, buona nuova, direbbero i latini. Ma insomma, sarà davvero così? I romagnoli sono più scanzonati. Al bar, questa mattina, un signore sfogliava il giornale e commentava sconsolato: «gnenca oz un si bat ciod». Nemmeno oggi si batte chiodo.

Mentre chiacchieriamo e beviamo il caffè, mio padre passa da un canale all’altro: prima eravamo su Mentana, adesso Rai News24, poi Quarta Repubblica. «In pratica è una grande serie a reti unificate», dico. «La sceneggiatura, però, lascia un po’ a desiderare…» Mio padre ride. Quando lo saluto è ancora là davanti, ad aspettare.

 

mercoledì

 

«Dovremmo trovare un villaggio ai margini di un bosco, in ogni caso», ha detto Luigi. «Capire come fare coi bambini…» 

Cosa ci impressiona così tanto in questa storia? La crudeltà, la furia, la ferocia dei ragazzi? 

L’incapacità, l’impossibilità degli adulti di comprenderli, accoglierli, di amarli?

Esistono davvero quei bambini, sono mai esistiti? Oppure è il villaggio che li ha solo incubati, immaginati e poi per sempre distrutti? 

A un certo punto della storia anche i figli legittimi, i bambini delle famiglie, iniziano a sparire, attratti dalla tribù dei misteriosi coetanei: uno a uno abbandonano il villaggio. Non resteranno più ragazzi. Gli adulti si dispereranno e inizieranno a cercarli, ma sarà troppo tardi. Rimarranno orfani dei loro figli.

 

 

giovedì

 

Oggi è il Giorno della Memoria. Quattro anni fa debuttava Se questo è Levi

Ripenso alla prima prova che ho potuto vedere, a casa di Luigi e Andrea, a Bologna. 

Sono seduta da sola, nella stanza. Andrea entra, viene alla scrivania, dietro di lui c’è la libreria, davanti il computer. Riceve una chiamata Skype. È un’intervista, gli fanno delle domande e lui risponde. 

«Primo Levi, com’è fatto il suo tavolo di lavoro? È una scrivania con due facce: c’è una faccia arcaica, classica, con una macchina per scrivere, i cassetti e la cancelleria varia, verso Nord, e verso Sud c’è una videoscrivente, che è il mio idolo attuale, a cui mi sono prosternato, dal quale mi sono lasciato corrompere e col quale attualmente scrivo, ci devo fare i conti, una volta entrati è difficile uscirne. Mi accade abbastanza sovente durante la giornata di cambiare posto, di fare una giravolta intorno alla scrivania, a seconda se opero dal lato Nord o dal lato Sud. E la penna? Serve ancora, naturalmente, non solo per firmare. Anzi, è venuta ad eliminarsi la macchina per scrivere, automaticamente, invece la penna sussiste»… Poi alza gli occhi e guarda davanti a sé, là dove mi trovo io: il suo sguardo è pacato, profondo. Riconosco la voce, il ritmo, i gesti, il portamento: il turbamento è fortissimo, mi sembra quasi che l’aria si sposti. Chi è la persona che mi guarda, che parla di fronte a me? Un attimo prima ero a casa di Luigi e Andrea, ma adesso… dove mi trovo esattamente? Dove è finita la stanza? Cosa mi sta capitando?

 

Andrea Argentieri, ph Enrico Fedrigoli.

 

Il fatto resta sempre misterioso, anche se l’ho sperimentato molte volte. Per un momento mi è sembrato di essere di fronte a Levi, di udire la sua voce, le sue parole, proprio come se fosse qui. Conosco molto bene il meccanismo: Andrea non sa nessun testo a memoria e dunque non può nemmeno recitare, semplicemente sente la voce di Levi negli auricolari che indossa e ne è, alla lettera, attraversato, come se fosse un amplificatore umano, o un’antenna vigile. Capta e ritrasmette le onde di un fantasma, riceve l’impronta di un tono, della grana dei suoni, delle parole. Si chiama eterodirezione. Ma in fondo, potrei dire, si chiama semplicemente teatro

 

venerdì

 

Elenco di cose che succedono all’attore mentre lavora come Andrea nel nostro Levi:

– ogni necessità, pensiero o istinto vitale si riduce. Non ha fame, sete, non gli scappa la pipì. Se prima aveva mal di testa, o mal di pancia, adesso gli è passato; 

– ogni suo spazio, all’improvviso, è occupato dalla voce che lo attraversa;

– ama con maggior vigore, compatisce di più, esiste senza alcuna moderazione. Sente con tutti i pori, ma raramente si emoziona; 

– la temperatura si abbassa, rallentano i battiti del cuore, non è più fuori, ma dentro qualcosa;

– a volte ha la sensazione di essere sul punto di entrare in un sogno, ma senza entrarci davvero. Poi la sensazione svanisce e, attraverso una piccola fessura della sua coscienza, filtra una chiarezza nuova, una specie di vibrazione, indipendente dal pensiero e dalla volontà.

– a poco a poco le sue membra si immergono in una specie fanghiglia tiepida che libera nuovi gesti, imprevedibili, che prima non sapeva di possedere;

– di colpo, senza alcuna transizione, l’attore diventa la voce che sente;

– quando tutto sarà finito non ricorderà molto bene i passaggi, i dettagli di quello che è accaduto. E comunque non saprà raccontarli.

 

sabato

 

«Ma come, non l’hai ancora saputo? È Mattarella, l’hanno appena eletto», dice Rodolfo appena entro in casa. «E lui… ha già accettato? È bastato un viaggio di tre ore, da Ravenna a Firenze, a sbloccare una settimana inceppata?» «Una settimana… un poco Infinite Jest», scherza Rodolfo «però all’incontrario!» «In che senso all’incontrario?» «Là sono tutti drogati a guardare un film che va sempre avanti; qua siamo tutti costretti a guardare un film che ritorna indietro».

Come in un lampo mi attraversano la testa le immagini del Rave Foster Wallace, la maratona di dodici e più ore attraverso Infinite Jest che abbiamo realizzato qualche anno fa all’ex-Paolo Pini, a Milano, per uno dei festival, e dei luoghi, che amo di più al mondo. Eravamo una trentina di attori e qualche centinaio di spettatori, incapaci di staccarci dalla storia, e da noi stessi, da quel posto incredibile fatto di cunicoli, di campi da tennis, di prati stellati, fiori, lucciole, Madonnine che ti danno le spalle, sentieri, collinette, incontri, travestimenti, inseguimenti…

 

 

Verso le tre di mattina, ormai esausti, dopo che Gately, alla luce di una limpida luna scava a terra la sua buca, e noi vediamo Marco Cavalcoli, l’attore che gli ha dato corpo e voce finora, staccarsi da lui come un’ombra e allontanarsi per sempre, come inghiottito dall’oscurità, vorremmo solo ancora trattenerlo, almeno per un attimo. Non andare, torna indietro! Sono ormai passate quindici ore e siamo tutti sfiniti, ma ugualmente vorremmo ancora stare lì, forse per sempre… Ma no, non si può fare, tutte le cose devono finire.

«Ma quando è successo», chiedo a Rodolfo «che abbiamo perso il contatto col film che dici tu, quello che ritorna sempre indietro? La vita che conta sembra una storia staccata, parallela, che continua a correre per conto suo. Oppure dovremmo davvero pensare, un sabato sera qualunque, che si può trovare sollievo semplicemente cambiando canale?»  

 

domenica

 

Stamattina ci dirigiamo verso Bellosguardo. Tra via dei Malcontenti e via delle Casine ci appare un tabernacolo che non avevo mai notato. È un tabernacolo a mensa, di quelli usati come altari per celebrare le messe all'aperto, «ma questo», dice Rodolfo, «aveva il compito di rasserenare, con la sua immagine dipinta il passaggio dei condannati, i Malcontenti che danno il nome della strada. Vedi quanto è bella?» L’immagine è la Madonna, col Bambino e i santi. «È bellissima» dico, «ma ha qualcosa di strano, non ti fa girare la testa?» Devono essere gli occhi: uno di quelli della Vergine è allineato a quello del bambino, subito sotto. A un primo sguardo mi sembra di vedere un solo volto, con una quantità vertiginosa di occhi. Ripenso a un passo del libro che ieri leggevo sul treno. Questa è la scena: dei bambini in visita allo zoo. Le tigri nella gabbia si gettano sulla carne che il custode ha appena lanciato. Sono tre bestie fameliche e i loro corpi si fondono in uno, fino a formare una sorta di creatura a tre teste che divora il pasto. I bambini sono sconvolti. «Ci avevano detto che le tigri erano belle, ma ci hanno mentito». «Cosa hai detto?» chiede Rodolfo. «Dico che è stata proprio una strana settimana: tra le tigri, i fantasmi, tutti questi siparietti estenuanti, gli studenti caricati nelle piazze… se non fosse la vita vera, direi che assomiglia a un sogno…» «A un incubo, vorrai dire!»

 

Francesca Mazza e Marco Cavalcoli.


Intanto arriviamo a Bellosguardo. Da qui la vista è più ristretta che in altri punti di Firenze, ma forse è la mia preferita: si vede Palazzo Pitti, tutta la facciata, e poi Santo Spirito, Santa Croce, e Palazzo Vecchio, con tutto l’orologio, perfino San Miniato al Monte e Fiesole, dall’altra parte.

«È strano», dico «lo sai che non mi ricordo bene come finisce il romanzo di Barba? Mi aveva colpita così tanto, come faccio a non ricordarmi la fine?»

Della fine, in realtà, ricordo solo questo. C’è una grande cattedrale di luce: è il covo dei bambini scomparsi. Si erano nascosti nelle fogne, e le avevano tappezzate di vetri colorati, che mandavano riflessi e bagliori tutto attorno. Gli adulti hanno trovato la stanza, ma ormai è vuota. Adesso, attoniti per il loro fallimento, sono in piedi, silenziosi. Si figurano i bambini là dentro, sbigottiti dalla bellezza e dal caos, dall’oscurità e dalla meraviglia. E poi, cosa succede dopo? «E poi basta, che altro vuoi che succeda? Finisce circa così», mi stoppa Rodolfo. Voglio ugualmente andare a controllare. Sarà questa, per davvero, la fine?

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO