Diario scolastico 1 / Lunedì sarai a scuola?

8 Febbraio 2022

Domenica 30

 

Nei rituali scolastici l’assegnazione del voto ha un’origine molto antica e riveste ancora oggi grande importanza. È praticata ricorrendo al sistema numerico, anche se i numeri negativi sono caduti ormai in disuso e risultano più che altro una sopravvivenza di tipo folcloristico. 

Il professore, mosso dalla netta predilezione per idee chiare e distinte, si affida al metodo sommativo basato su verifiche e interrogazioni. Sarebbe possibile anche una valutazione formativa, ma non sempre è ritenuta affidabile, e in attesa che i pedagogisti ministeriali facciano piena luce sulla nebulosa dell’apprendimento per competenze, risulta scarsamente applicata.

A conferma del rituale, recentemente è stata introdotta una valutazione per il periodo di scuola-lavoro, ribattezzato dal ministero PCTO, acronimo che indica il Percorso per le Competenze Trasversali e l’Orientamento, altro agglomerato di concetti tutt’altro che trasparenti, forse riconducibile alle migliori intenzioni ministeriali, che però, come noto, sono soggette all’eterogenesi dei fini e perlopiù servono a lastricare le vie dell’inferno.

 

L’attribuzione dei voti rimane comunque una funzione portante del sistema scolastico e lo stesso professore la considera un diritto-dovere irrinunciabile, anche se alcuni ne auspicano il superamento. Ma affinché i voti scomparissero dall’orizzonte scolastico occorrerebbe una mutazione antropologica, che coinvolgesse contemporaneamente alunni, professori e genitori. I primi dovrebbero sviluppare un amore disinteressato per la conoscenza. I secondi dovrebbero ricorrere a tale amore quale unica fonte di autorità. Quanto ai genitori, considerando il loro attaccamento al voto, dovrebbero essere estromessi dalla scuola. 

Nel frattempo, in attesa di un allineamento talmente improbabile di condizioni, si perpetua l’antico rituale e verso la fine di gennaio, in prossimità degli scrutini, al professore non resta che una manciata di ore per raggiungere gli alunni più refrattari, individui sfuggenti ad ogni tipo di valutazione, pronti a tutto pur di sgusciare via come anguille, e molto sospettosi, capaci di evitare l’esca di una sufficienza raggiungibile in extremis.

 

 

Ma da qualche tempo il professore può anche effettuare interrogazioni in Didattica a Distanza, la quale consente di superare i confini dello spazio e avvicinare i più riottosi all’interno delle loro case, in cucina, ad esempio, dove si credono al riparo, perfino nelle camere da letto. E ad ogni ora della giornata, anche di notte, si racconta. 

Tra le novità di questi ultimi mesi va poi aggiunta la DID, Didattica Integrata Digitale, che permette di rivolgersi agli alunni presenti in aula e nel contempo a quelli assenti per quarantena e tuttavia presenti sull’apposita piattaforma digitale. 

 

Il professore, nonostante i dubbi nutriti nei confronti della tecnica, ha fatto passi da gigante in poco tempo. Usa Meet, Zoom e Webinar, carica pdf su Classroom, comunica attraverso WhatsApp, consiglia video su YouTube, e qualcuno è già pronto a fare il salto su Instagram. C’è perfino chi ha studiato i risvolti didatticamente utilizzabili di Tik Tok. 

Tutti motivi che mi fanno desiderare ardentemente la pensione, ma il governo, se con una mano ha dato la DID e la DAD, con l’altra ha tolto Quota 100. 

 

Lunedì 31

 

Oggi dovrò interrogarne parecchi anch’io, non so nemmeno quanti, ma adesso sono le sei e un quarto e non ci voglio pensare. Mi alzo a quest’ora per la pastiglia di Eutirox, devo prenderla mezz’ora prima di colazione, perché faccia effetto. Poi vado sotto la doccia, mi vesto e scendo in cucina. Prima bastava un po’ di caffè ma ormai ci vuole una tazza di caffellatte, che riempio di pane raffermo finché il cucchiaio non rimane piantato dritto, ma anche così non basta, e quando ho cinque ore, a metà mattina, devo mangiare di nuovo. 

Mangio molto ma senza ingrassare. Può darsi che sia dovuto alla sindrome di Hashimoto. Qui in pianura siamo in tanti ad aver sviluppato una disfunzione della tiroide. Qualcuno dice che potrebbe dipendere da Chernobyl, dall’esplosione del 1986 e dalle nubi radioattive arrivate dall’Ucraina. Non so, non ho mai approfondito il problema. 

 

Mentre faccio colazione ascolto Radio3 Mondo e oggi c’è Roberto Zichitella. Parla dei bambini soldato caduti in battaglia nello Yemen. Quasi duemila. Anch’io parlo spesso di guerra, lo prevede il mio insegnamento, ne parlo e ne faccio parlare quando interrogo, ma è sempre un parlarne un po’ a vuoto, mi sembra. 

Comunque non mi piace più interrogare. E forse non mi è nemmeno mai piaciuto. Perfino il termine m’infastidisce, rimanda a pratiche per le quali non sono tagliato. Evoca indagini, processi, accertamenti da cui ormai vorrei essere esentato. Ci vorrebbe un assistente al quale delegare la valutazione. In questo caso penserei con meno rancore a chi ha abolito Quota 100. 

Invece dialogare mi piace molto, divagare qua e là seguendo il filo dei discorsi senza un ordine prefissato. Lo so bene che in un’aula scolastica è pericoloso, ma vorrei fare come Platon Karataev che in Guerra e pace, quando parlava, sembrava che non sapesse nemmeno come avrebbe concluso il discorso iniziato. Ogni tanto mi prendo il lusso di parlare a questo modo.

 

Un giorno avevo letto alcuni passi di Schopenhauer per dare un’idea di quale fosse la considerazione in cui teneva l’idealismo di Hegel, che giudicava “una creatura filosofica ministeriale”, “un ciarlatano piatto, privo di spirito, nauseante, disgustoso, ignorante…”: un’insufficienza gravissima, in termini di valutazione sommativa, di quelle che ormai si prendono solo in greco o in matematica. 

Avevo fatto anche cenno ad alcuni tratti della biografia, compreso il probabile suicidio del padre di Schopenhauer, e qualcosa si era acceso nell’aula. Avrei dovuto proseguire chiarendo cosa fosse la quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, ma il fiuto mi diceva di deviare. Allora ho chiesto se preferivano sapere qualcosa di più sulla vita di Schopenhauer o proseguire col programma. La vita, hanno detto in coro.

Lo svolgimento dei programmi è un altro tipico assillo da professore, dovuto all’inesorabile confronto coi colleghi. In aula docenti, c’è sempre qualcuno che cerca di sondare dove siano arrivati gli altri. I più giovani lo chiedono ai più vecchi. Dove sei arrivato in storia? E in filosofia? Lo chiedono per tranquillizzarsi e quando lo chiedono a me si tranquillizzano subito. Io sono sempre il più indietro di tutti. 

 

 

Per di più, adesso, ho passato due settimane a interrogare, e fatico molto a rimanere nei confini dei dieci minuti disponibili, mi bastano sì e no per avviare il discorso. 

Dal ministero dicono di aver stanziato ingenti risorse a favore della scuola per fronteggiare l’emergenza Covid. Su questi investimenti avrei dei dubbi. Quello che vedo a scuola sono gli scatoloni di mascherine chirurgiche accumulate nello sgabuzzino delle fotocopie. Mascherine della peggiore specie, che non indossa nessuno, quelle con le fettucce elastiche da passare sotto la nuca, scomode da indossare e scomode da togliere. Le mascherine a mutanda, dicono gli studenti, che non avranno chiara la differenza fra metonimia e sineddoche, ma hanno pur sempre la freschezza immaginativa della creazione linguistica. 

L’unica riforma da introdurre, se volessero risollevare qualcosa della scuola, sarebbe eliminare le classi pollaio. È semplice come l’uovo di Colombo, ma di sicuro non farò in tempo a vederla attuata prima della pensione, dovessero anche posticiparla a un’età da ricovero.

 

Martedì 1 febbraio

 

Oggi ho fatto commentare un brano sul tema del suicidio. Il suicida non è contrario alla vita, tutt’altro, la vuole eccome, ma è malcontento delle condizioni che gli sono toccate in sorte. Il suicidio non nega la volontà, è anzi il fenomeno di una sua energica affermazione. Lo dice Schopenhauer. Forse ho parlato di questo anche perché prima di arrivare a scuola ho incontrato un’amica che non vedevo da molto tempo e mi ha detto che sei mesi fa si è ucciso suo nipote di ventidue anni. 

Ecco un’altra cosa che sarebbe auspicabile, a scuola, riaccostare vita e pensiero, lasciare che affiorassero le domande, anche quelle più perturbanti, che non hanno una risposta facile, imparata sui libri. E ascoltare. Le scuole ne avrebbero bisogno per frenare la curva dell’inflazione nevrotica, tutt’altro che secondaria rispetto alla curva epidemica. 

 

Qualche tempo fa, durante uno dei brevi periodi di presenza scolastica, tra una DAD e l’altra, mi avevano avvicinato due studentesse. Durante la lezione avevo parlato del rapporto fra emozioni e sentimenti leggendo una pagina di Antonio Damasio, neurobiologo appassionato di filosofia, e di Spinoza in particolare. Damasio ritiene che le emozioni siano, sul versante corporeo, ciò che i sentimenti sono su quello mentale: le une e le altre, manifestazioni di un organismo umano integrato. Da qui era iniziata una discussione sulle passioni tristi, e terminata l’ora, queste due studentesse erano venute a dirmi di essere in cura perché avevano gravi attacchi di ansia, a volte di panico. 

Oggi, all’uscita da scuola, mi sentivo debole, erano le undici e trenta e dalle sette non mettevo niente sotto i denti. Adesso vado al forno, ho pensato, ma poi ci ho ripensato. 

 

 

Entro al Bar Tiffany, sulla strada del parcheggio dove metto l’auto, ordino un cappuccino e un pezzo di erbazzone, torta salata a base di spinaci che si fa qui a Reggio Emilia, poi chiedo alla barista se devo esibire il Green Pass e lei risponde che sono già passati i controlli. Allora mi guardo in giro cercando la Gazzetta di Reggio, ma ce l’ha in mano un vecchio seduto a un tavolino. Un vecchio? Poco più in là dei miei anni. 

Comunque ripiego sulla Gazzetta dello sport, poi passo al Resto del Carlino, e in una pagina interna trovo una notizia di cui ieri mi aveva parlato mia moglie. 

Si tratta di due bambini pakistani bruciati in un rogo avvenuto a Fabbrico, a causa di una perdita di gas. C’è una fotografia con una bambina dagli occhi grandi e tristi. Il padre lavora alla Landini, una fabbrica di trattori, e la madre era fuori casa. Forse una scintilla. Sembra che il bambino si sia rifugiato sotto il letto e che la bambina abbia cercato inutilmente una via di fuga lungo il corridoio

 

Mercoledì 2

 

Questa notte ha continuato a soffiare il vento che da giorni spira da nord-ovest. È l’effetto di un anticiclone che ha diviso l’Europa in due: da una parte il Nord, su cui insistono correnti d’aria fredda provenienti dall’Artico, e dall’altra Spagna, Francia e Italia, dove la temperatura è nettamente superiore alla media stagionale. 

In compenso il vento ha spazzato ogni residuo di umidità e il cielo è terso come succede raramente in pianura, lo stesso azzurro che compare nelle tele di Angelo Davoli, un pittore reggiano che dipingeva torri, silos e altre costruzioni tipiche del paesaggio industriale presente in ogni area della periferia cittadina. 

 

Opera di Angelo Davoli

 

Avevo parlato dell’azzurro anche domenica pomeriggio, con mia moglie. Stava correggendo i compiti dei suoi alunni di seconda elementare. Aveva dato degli esercizi di logica in forma di domanda e loro dovevano scegliere tra vero e falso, oppure tra certo e possibile. Il cielo è sempre azzurro! Vero o falso? Vero, aveva barrato un bambino. Ma oggi c’è la nebbia, gli aveva detto mia moglie. 

 

Eppure la risposta mi era piaciuta moltissimo. Un bambino ha ragione a considerare il cielo azzurro per definizione. Avrà tutto il tempo per crescere e scoprire che può essere anche grigio. Vede il cielo attraverso il colore delle emozioni e quando è azzurro può uscire nel cortile della scuola o passare un pomeriggio al parco. 

La domanda successiva riguardava il futuro. Lunedì prossimo sarai a scuola. Certo o possibile? Certo, avevano barrato molti bambini. Dipende dal fatto che sono contenti di venire a scuola, ha detto mia moglie, hanno sempre voglia di fare matematica.

Ma allora perché quando arrivano alle superiori, svanisce la contentezza? Mano a mano che un individuo procede nel percorso scolastico, man mano che aumenta la conoscenza s’incrementa la tristezza. È la maledizione dell’Ecclesiaste? Qui auget scientiam auget et dolorem?

La vita è un incessante passaggio, un flusso di stati che incrementano o riducono la potenza di agire, dice Spinoza, e le passioni tristi hanno l’effetto di inibirla. 

 

 

Ne parlavo anche col meccanico da biciclette dove portavo quella di mio figlio, che la rompeva sempre. A lui, al meccanico, piaceva parlare di filosofia, e di Spinoza in particolare. Passavamo da un tema all’altro mentre lui cambiava la camera d’aria, e ogni tanto tornava su Spinoza. Gli piaceva che si fosse guadagnato da vivere levigando le lenti e ripeteva spesso quella sua frase sul potere, che ha sempre bisogno di diffondere la tristezza, il potere, paura e tristezza. Ma la tristezza non rende mai intelligenti, diceva il meccanico, anzi essere tristi significa essere fottuti.

A proposito di tristezza, oggi i mei studenti di quinta non hanno fatto nessun commento sulla decisione ministeriale di introdurre due scritti all’esame. Forse li ho prevenuti parlando del liceo che aveva frequentato Kierkegaard. Una scuola durissima, il cui rettore era celebre per aver detto: “ogni ragazzo che passa per Klareboderne – la via dove c’era la scuola – deve tremare”. Anche il programma che Kierkegaard aveva portato all’esame di maturità faceva tremare: solo di latino, 11.000 versi e 1.250 pagine di prosa.

 

Giovedì 3

 

Oggi, mentre alle sette e trentacinque del mattino ero fermo al semaforo di Piazzale Fiume, ho sentito una voce allegra alle mie spalle. Buongiorno Prof! Era una mia studentessa di quinta che rientrava a scuola dopo dieci giorni di quarantena. Sembrava contenta di essere in giro, perfino di rientrare in aula. In quel momento l’avrei abbracciata perché proprio lei, la settimana scorsa, mi aveva risollevato dopo un’intera mattinata trascorsa a interrogare in DID. 

Avevo alternato quelli presenti in aula e quelli presenti sullo schermo del computer, e verso l’una, mentre stavo interrogando gli ultimi due in quarantena, lei era ancora connessa. Ascoltava, e a un certo punto mi sono accorto che aveva dei ferri in mano. Cosa stai facendo, Ester? Allora lei ha sollevato le mani avvicinandole alla telecamera e io ho visto che stava lavorando a maglia. 

 

Mentre aspettavamo il verde del semaforo le ho chiesto a che punto era arrivata col suo maglione e le ho rifatto i complimenti. Sì, ma ho sbagliato una manica, ha detto, devo rifarla. Poi ha raccontato che il gusto di sferruzzare le è venuto da bambina, quando frequentava la scuola steineriana. 

Camminando verso il nostro liceo abbiamo parlato anche di altre cose imparate dall’insegnamento steineriano, compreso il fatto di non dare troppa importanza ai voti. Ha detto di seguire un principio semplice: se sono buoni tanto meglio, altrimenti lo capisce da sola che non è preparata. Quando poi i voti le sembrano ingiusti ci passa sopra. Come farebbe uno stoico, ho pensato.    

 

Venerdì 4 

 

In Piazzale Fiume c’era un’edicola dove mi fermavo spesso. Ultimamente mi fermavo a comprare Limes, e se non compravo niente lanciavo comunque un’occhiata alle locandine. 

I titoli a caratteri cubitali possono diventare dei capolavori. Dieci giorni fa ero a Padova e il Corriere del Veneto aveva incorniciato un titolo che ho perfino fotografato: Mangia tramezzino, muore soffocato.

Anche le scritte sui muri mi attirano. Ci sono delle dichiarazioni d’amore molto belle. A volte compaiono espressioni di rabbia, altre volte annunci enigmatici. 

Sulla parete esterna del Cimitero monumentale di Reggio Emilia, dal lato di Via Cecati, prima dell’ingresso del Cimitero degli svizzeri, c’è una scritta che rileggo ogni volta: Vendo tomba causa doppio regalo. Mi piacerebbe conoscere l’autore.

Ma ormai le edicole muoiono come mosche. Chiudono e sulla serranda abbassata compaiono le locandine della messa in vendita, oppure annunci che sembrano veri e propri necrologi. Edicola chiusa per cessata attività, c’è scritto adesso su quella di Piazzale Fiume.

 

 

Sabato 5 

 

Oggi di nuovo foschia e temperatura tornata nei ranghi, contro i 19° gradi che c’erano due giorni fa a mezzogiorno.

Ho ancora in mente quello che mi ha raccontato una giovane collega. Prima di arrivare nel nostro liceo ha insegnato tre anni in carcere. Erano presenti anche i detenuti della sezione OPG, l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario, e lei entrava in aula scortata da una guardia armata.

La direttrice del carcere le aveva detto di non rivolgere domande ai detenuti sulla natura dei reati commessi. Molto meglio che non fosse condizionata, anche perché alcuni avevano compiuto delitti particolarmente efferati. 

Ecco una di quelle affermazioni che sembrano fatte apposta per generare l’effetto contrario. Un po’ come accade nella fiaba di Barbablù. Un po’ come dire a qualcuno: devi essere spontaneo! 

Lei doveva insegnare psicologia, non nozioni o concetti ma qualcosa di pratico, cioè parlare coi detenuti per aiutarli a prendere coscienza delle emozioni. Potrebbe sembrare scontato, ha detto questa mia giovane collega, ma non lo è. Molti di loro erano abituati a subire le emozioni come forze esterne, che irrompevano con la potenza del terremoto, e ne pativano gli effetti in modo incontrollato. Durante queste conversazioni, i detenuti finivano spesso per rievocare scenari familiari spaventosi. 

Ma alla fine ci si lega, ha detto lei, si entra nel perimetro del carcere, e mano a mano che si sentono chiudere le serrature alle spalle ci si dimentica dei propri problemi.

 

All’epoca era anche incinta ma non ha mai avvertito niente di irrispettoso, nessun atteggiamento minimamente offensivo. Poi il desiderio di sapere qualcosa di più sul conto dei detenuti aveva avuto il sopravvento e lei era venuta a sapere di delitti raccapriccianti. Uno dei carcerati era dentro per aver sterminato la famiglia, un altro era stato condannato perché girava da un bar all’altro e dava delle badilate in faccia alle donne che non avevano i capelli biondi.

In seguito, questa giovane collega ha insegnato anche in scuole professionali, luoghi dove rivestire i panni del professore, di per sé, non ha nessuna importanza, dove il rispetto si guadagna sul campo, giorno per giorno, e solo mostrando di avere molta passione. Anche lì c’erano dei ragazzi che si portavano dietro un enorme carico di emozioni negative. In compenso erano capaci di slanci e di gesti d’affetto commoventi.   

 

Domenica 6

 

Ricordo anch’io gli slanci commoventi di cui ero oggetto quando insegnavo al professionale, ma qualche volta anche nel nostro austero liceo capita qualcosa di sorprendente. 

Un giorno avevo fatto cenno all’errore, all’utilità che l’errore riveste nella scienza, ad esempio, anzi, in ogni apprendimento, e avevo raccontato di quando facevo i miei primi esercizi di prosa, raccontini che poi davo da leggere a un amico. Zoppicavano da tutte le parti e lui mi faceva notare gli errori ma con molto garbo, con delicatezza. 

E faceva così anche Gianni Celati, si prendeva la pazienza di farmi vedere cosa s’inceppava nel ritmo, nella lingua, che risentiva troppo della scrittura scolastica. A scuola t’insegnano a dominare la parola, diceva, ma non è così, nessuno è padrone di niente e la scrittura deve andare per conto suo, come sospinta dal vento. Gianni era capace di demolire tutto quello che scrivevo, ma sempre con la sua tipica gentilezza d’animo, e incoraggiandomi a continuare. 

 

Per farla breve, il giorno in cui avevo parlato dell’errore in classe, alla fine dell’ora mi aveva avvicinato una studentessa. Aveva aspettato che l’aula si svuotasse poi era venuta alla cattedra per dirmi che lei scriveva delle poesie e le avrebbe fatto piacere mandarmene qualcuna. Una ragazza piuttosto schiva. Ero sorpreso. 

E sono rimasto stupito anche quando le ho ricevute. Brevi, dense, taglienti, piene di assonanze e consonanze. 

Perché se entro/Finirò dentro un grosso e nero antro. Finiva così la prima. 

E la chiusa della seconda non era da meno: Al riparo dagli urti/ Di mille sterpi.

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