Palermo, Milano / Antonello da Messina
Sono gli occhi di Antonello, meglio ancora lo sguardo o forse più esattamente l’espressione, a ipnotizzare l’osservatore, cui sembra di essere osservato, a volte scrutato, altre adocchiato oppure disdegnato o anche interrogato. La sensazione si avverte anche visitando la mostra su Antonello da Messina che dopo il 10 febbraio da Palazzo Abatellis a Palermo si trasferirà fino al 2 giugno a Palazzo Reale a Milano. Sono occhi ovali molto grandi, che rimpiccioliscono solo in presenza di un accenno di sorriso, una smorfia di dolore come nelle Crocifissioni e un contegno altero per l’abbassarsi delle palpebre. Occhi che diventano davvero lo specchio dell’anima rivelando il segreto di un artista psicanalitico che dotò il genere del ritratto di uno strumento definitivo per penetrare la coscienza umana: l’espressione degli occhi appunto. Per di più Antonello fu tra i primi a valersi di una tecnica che diciamo oggi cinematografica, l’inquadratura in soggettiva, dove la persona ripresa o ritratta guarda il suo interlocutore come se gli stesse parlando. Lo sguardo diventa allora signum individuationis, il momento di contatto tra chi è raffigurato e chi se lo figura, con in mezzo il raffiguratore: a produrre insieme un triangolare campo di tensioni fonte di una sindrome ipnotica che è quanto l’artista messinese sapeva bene di poter indurre.
Ma c’è di più. I suoi celebri ritratti, mai concepiti come protocollari e ufficiali perché di stampo estemporaneo e come realizzati nello spazio di un attimo (tali per via del profilo che offrono i soggetti dipinti e che è certamente irregolare in una posa celebrativa) e perché privi di ogni scenario alle spalle, colgono un momentaneo stato d’animo e si prestano dunque ad essere visti come un remoto antecedente della fotografia realistica: le figure sono prese dalla strada o rappresentano notabili, ecclesiastici e santi entro uno schema di anticonvenzionalità – il San Benedetto fosco e risentito, per esempio – che nulla nasconde dei difetti fisici, né una vecchia cicatrice da lama che solchi il volto o sfregi un labbro né uno zigomo troppo pronunciato o una luce che crei soverchie ombre.
Nel gioco sostenuto di sguardi si scopre che Antonello compie due operazioni combinate: da un lato circonfonde, come nel Ritratto di ignoto marinaio, il sorriso in uno sguardo ammiccante e complice mentre da un altro è lo sguardo a definire il sorriso, com’è nel contiguo Ritratto d’uomo, dove il linguaggio della bocca rimarrebbe indeterminato tra compostezza e serenità senza la decisiva espressività degli occhi atteggiati a uno sguardo placido e rassicurante. Il sorriso nel maestro del Rinascimento è dunque una funzione dello sguardo o agisce per dargli una funzione, tanto più se l’uno e l’altro sono profilati nella più identitaria ritrattistica fiamminga, quella di tre quarti, che rende il viso più facilmente leggibile per arrivare ai penetrali del cuore.
Nello stesso gioco di sguardi Antonello è altresì molto attento a non indirizzare gli occhi delle sue figure in punti diversi quando si tratti di insiemi come nel caso della Madonna e del Bambino dove gli occhi dell’una e dell’altro appaiono sempre rivolti verso la stessa parte. Per stare alle opere in mostra, così è nel cosiddetto Polittico di San Gregorio custodito a Messina e nella Madonna con il Bambino benedicente, tavola anch’essa a Messina, mentre in Madonna col Bambino e due angeli reggicorona, olio che si trova agli Uffizi, Maria guarda da un lato e il piccolo guarda lei, quasi per capire dove stia puntando gli occhi. Più che un’eccezione, si tratta di una variazione, che ritroviamo anche nella cosiddetta “Madonna Benson” conservata a Washington e nella “Madonna Salting” di Londra, una variazione che ricorre quando Gesù non è sorretto dalla Madre ma abbracciato a lei oppure le due figure sono rivolte una all’altra in un ombelicolare vis à vis.
Entro questa prospettiva la mostra palermitana si raccomanda alla varietà di spunti e suggestioni che le opere suggeriscono e, benché circoscritta a una quindicina soltanto di dipinti, può dirsi pienamente rappresentativa della ricerca antonelliana, anche per la presenza di alcuni grandi capolavori che segnano nell’attività di Antonellus Messaneus uno stile nuovo e un cambio di direzione. Vale il tempo di vederli da vicino, cominciando dall’Annunciazione di Siracusa. La grande tavola sente fortemente del gusto fiammingo – il fondo nero, la luce che inonda l’ambiente provenendo circolarmente da tutte le sorgenti, la tecnica ad olio che stregò Antonello – tuttavia accoglie per la prima volta uno sguardo italiano, dove la balaustra sostituisce il parapetto e la trabeazione distende la classica arcata che, nell’estetica delle Fiandre, fa da cornice al soggetto dipinto. L’Annunciazione è del 1474. Di un anno prima è un altro capolavoro, il Polittico di San Gregorio custodito a Messina, altrettanto ammalorato e innovativo: qui l’influenza italiana è evidente nell’abbandono, sia pure a metà, del fondo nero, nella concezione unitaria delle tavole ma soprattutto nel magistero sicuramente derivato da Piero della Francesca della prospettiva. Accendendo ancora di più le luci, Antonello dà rilievo alla profondità e, dopo l’esperienza che farà a Venezia, dove ammirerà l’arte di Bellini, i suoi dipinti saranno un’inondazione di luci a cielo aperto e non più una soffusa illuminazione al chiuso. Il suo gusto artistico diventerà esclusivamente italiano, ma morirà praticamente con il pennello in mano quando starà completando la “Madonna Benson”, così inconsueta eppure tenera per il Bambino che infila la mano nel seno della Madre.
Si vede dunque come nel giro di un anno l’artista passi da una scuola all’altra, rivelando una smania che riesce a contenere solo assecondando tutti gli stili. Del 1475 (o di un anno dopo) è l’Annunciata di Palermo, sublime ed enigmatico capolavoro che segna l’adesione al canone fiammingo più riconoscibile, con la figura in posa asimmetrica, il parapetto costituito dal leggio, il fondo nerissimo. L’Annunciata è così bella da risvegliare ogni tanto i dubbi se sia opera di Antonello, giacché non è firmata dall’autore e perché il volto è di una perfezione formale, di una grazia armonica, insieme all’elegante movimento delle mani (le mani più belle dell’arte, è stato detto), che si fatica a confrontarlo con quelli comuni di madonne e santi propri del repertorio antonelliano, fatto anche di Cristi grotteschi e facce sgraziate. L’elemento di maggiore contrasto è proprio lo sguardo: che non è rivolto all’osservatore reale, cioè il visitatore, né all’interlocutore implicito, l’angelo annunciatore, ma ad un indistinto e tenebroso angolo nero dove sembra riposto come un pensiero molesto, una preoccupazione, che pure è mascherato dall’espressione seria e solenne del viso ma che è tuttavia adombrato nel gesto della mano sospesa in aria, gesto che nell’iconografia medievale intende indicare la volontà di accettazione sottesa a un ordine di silenzio e che fa da contrappunto all’altra mano che è ferma a tenere il velo in un atteggiamento di inconscia protezione.
La Madonna ha appena ricevuto l’annuncio dell’arcangelo Gabriele e risponde con un gesto col quale vuole farlo tacere ma che è nello stesso tempo di obbedienza, sennonché tradisce un senso di inquietudine o forse di responsabilità per quanto è chiamata a fare. Perché Antonello arriva a tanto se pochi mesi prima ha dipinto un’altra Annunciata, nota come La Vergine Annunziata, oggi esposta a Monaco, non presente purtroppo nella mostra palermitana e di ben altro significato? In questa precedente Annunciata Antonello dà conto di un atteggiamento diverso della Madonna, la quale non esprime preoccupazione ma stupore, scomponendo i tratti del viso e soprattutto della bocca in un’espressione molto terrena: fissata dall’artista nel momento in cui legge un libro ed è colta di sorpresa da una luce abbagliante che sembra provenire dalla figura dell’angelo comparso alla sua destra, luce però assente nell’Annunciata di Palermo (che fissa dunque l’istante immediatamente successivo alla folgorante apparizione), come anche nell’Annunciazione di Siracusa, dipinto che illustra l’attimo in cui l’arcangelo alza la mano parlante alla latina (le prime tre dita tese e le altre piegate) nel segno di chiedere il permesso di parlare, mentre la Madonna atteggia un lievissimo sorriso, appena un abbozzo, come presaga del messaggio che sta per ricevere e manifestamente lieta, al contrario di come apparirà invece a Palermo.
I tre dipinti, realizzati nel giro di due anni – nell’ordine l’Annunciazione siracusana, l’Annunciata monacense e l’Annunciata palermitana – formano come una mini-serie perché raccontano una vicenda in vertiginoso divenire: una mini-serie però alquanto inquietante dal momento che il sorriso di gioia trattenuta della Madonna diventa sgomenta sorpresa per apparire infine quasi sacrificio e obbedienza alla volontà divina. I tre capolavori sono legati da alcuni elementi che accrescono il mistero cui Antonello ha voluto concedersi. La Madonna siracusana si mostra a capo scoperto, aureolata e avvolta in un manto azzurro. Tiene le braccia a decusse sul petto in segno di disposizione all’ascolto e di sottomissione, gesto che ritroviamo nella Madonna di Monaco, dove però al posto del manto e dell’aureola appare un velo blu notte che nella Madonna palermitana diventa celeste e trasparente. In tutt’e tre le raffigurazioni Maria, senz’altro somigliante a un unico modello, è intenta a leggere, atto dal quale viene improvvisamente distolta. Ma mentre nella Madonna monacense lo sguardo può essere rivolto all’arcangelo perché guarda verso la fonte della luce, in quella palermitana il gesto della mano, che non può che essere indirizzato all’arcangelo, va in una direzione diversa da quella cui sono puntati gli occhi, che guardano verso il basso.
Un elemento costante è comunque il velo o il manto nelle tre tonalità di azzurro. Ed è forse questo il mistero più grande. Azzurro e oro sono i colori che l’arte medievale impiega per distinguere la natura divina da quella umana. In via ordinaria Cristo e la Madonna sono raffigurati il primo vestito di azzurro sopra panni oro e la seconda al contrario, a indicarne la sua condizione di donna mortale che solo dopo si incielerà. Antonello viola questa regola e veste la Madonna del colore della divinizzazione lasciando che sotto il velo e il manto si veda il broccato che al suo tempo ha sostituito l’oro bizantino. Ciò fa in una fase della vita di Maria nella quale la futura madre di Gesù è solo una comune ragazza cui compare inaspettato un arcangelo che le affida una missione celeste.
La committenza potrebbe avere in tutt’e tre i casi da ridire, ma tace e approva anche sull’Annunciazione siracusana, dove non solo il broccato sottostante il manto puramente azzurro è più evidente e l’aureola sembra giustificata dalla presenza all’altezza della testa, appena visibili, di due colombi che simboleggiano lo Spirito santo e che assistono Maria da vicino, ma figurano anche altri due elementi che potrebbero sembrare – e nel Quattrocento avrebbero ben avuto motivo di esserlo – al limite di suggestioni esoteriche: i capelli rossi tipici della Maddalena, figura dalla Chiesa condannata all’ignominia, e le braccia incrociate a formare la croce di Sant’Andrea che nel Rinascimento hanno un significato alternativo, indicando doppiezza d’animo quando soprattutto le dita, come nella Madonna monacense, sono vistosamente articolate da fare supporre direzioni contrastanti. Tuttavia occorre precisare: il rosso cinabro è da Antonello utilizzato a profusione in ogni sua figura sacra a capo scoperto sicché appare azzardato immaginare implicazioni malevole e le braccia incrociate suggeriscono innanzitutto un’idea di attesa rispettosa. Ma la verità è anche un’altra: quando si ha che fare con Antonello da Messina, uno che sonda tenacemente gli animi, occorre munirsi di ogni forma di giudizio e di pregiudizio.
Già nelle tavole di quindici anni prima, in quella per esempio del 1460, intitolata Visita dei tre angeli ad Abramo, che è conservata a Reggio Calabria ed è presente alla mostra, il tema dell’annunciazione è svolto nell’assenza dell’annunciato, il patriarca che ben tre arcangeli si incaricano di informare della prossima venuta di un figlio, dunque nel clima di un mistero che non si spiega in alcun modo se non pensando a una mutilazione del dipinto. Quel che vediamo è un’opera smaccatamente fiamminga, innanzitutto per la cura acribitica dei dettagli e la preferenza dei colori oscurati, che va posta al fianco della coeva San Girolamo penitente, anch’essa a Reggio Calabria e ora a Palermo, appartenenti entrambe ad una stagione nella quale l’artista messinese non ha dubbi sul senso dell’arte, sebbene il tavolo di pietra a sinistra del primo dipinto si presti a una concezione prospettiva che guarda già a Piero.
Antonello è in questo carattere antifrastico: l’angelo che nella Pietà si aggrappa piangente e goffo alle spalle di un Cristo deposto che deve pure sostenerlo, le croci oblunghe e stilizzate della Crocifissione di Anversa, gli Ecce Homo con aria perplessa più che dolente, la passatista decorazione dorata a racemi nelle tavole palermitane dei Padri della Chiesa, i paramenti da regina e principe della “Madonna Salting”, la Vergine nei panni di una clarissa o di una devota nobildonna di Como. Pur considerato un rigoroso e ligio osservante della simbologia cristiana e un fedele notomizzatore della realtà, Antonello si ricavò uno spazio di azione autonomo nel quale si promise di contravvenire alle regole date. Se non fosse morto improvvisamente a 49 anni avrebbe probabilmente irrorato di più la sua vena di sgorbio e dato ulteriori prove di irritualità, che sono invece rimaste poche e allo stato criptico. Forse ci avrebbe fatto scoprire i segreti dei suoi sguardi laterali o magari spiegato il mistero delle annunciazioni e le relative puntate della mini-serie. La storia ha voluto che rimanesse inespresso, come incompiuto. E allora la mostra in corso si offre come un buon sussidiario per cominciare a capire anche quanto non si vede.
MOSTRA ANTONELLO DA MESSINA è aperta fino al 10 febbraio presso la Galleria regionale di Palazzo Abatellis, Palermo. Catalogo a cura di Giovanni Carlo Federico Villa.
Dal 21 febbraio al 2 giugno, si trasferisce a Milano, Palazzo Reale, con i taccuini di Giovan Battista Cavalcaselle, critico che ricostruì il catalogo dell’artista siciliano.