Un Raskol’nikov americano
Venendo in Italia a presentare il suo ammirato romanzo, lo statunitense Michael Bible del North Carolina, giovane bibliotecario, sceneggiatore cinematografico e critico letterario militante, ha detto a Torino che il titolo dato da Adelphi al suo “The ancient hours” (Le antiche ore) è molto più bello. Tolta la piaggeria, L’ultima cosa bella sulla faccia della terra in realtà depone per un fine ominoso che manca nel titolo originale ma che pervade il libro, venato com’è di un irredimibile cupio dissolvi e profilato in un sentimento tragico della vita dominato da una derelizione progressiva e “costante” verso la rovina.
Ed è proprio “La Costante” (eccolo il titolo più indicato o un suo elemento) il Leitmotiv di una vicenda corale che, entro un destino di morte e il tema decisamente novecentesco, tutto vittoriniano, del “dolore del mondo”, appare preda dell’empusa della “eterna paura”. La Costante” è “una cosa a metà – scrive l’autore – tra uno struggimento continuo e un terrore improvviso, come un pomeriggio di pioggia con il sole che splende”. Un duende quindi che sottende il mal di vivere di spirito decadentista, motivo certamente non nuovo alla letteratura europea e riusato da Bible in una nuova chiave esistenzialista di pasta americana nella quale il disadattamento alla vita e l’incapacità di conoscere sé stessi diventano una condizione permanente, appunto una costante, infine un fattore universale, al pari di uno dei modelli cosmologici di astrofisica.
Siamo insomma di fronte a una prova che se è nuova in America, dove ha avuto vasta eco, è però vecchia in Europa che infatti non ha dato grande riscontro al libro nel quale ha trovato un senso di dejà lu ormai da tempo metabolizzato. Bible ha semmai radicato il patema generazionale nel nerbo di una gioventù bruciata che ricalca figure sperse e maledette ricorrenti in autori quali Salinger, Pynchon, Fante, perseguendo dunque la prospettiva di mitologemi propri d’oltreoceano che si rifanno a modelli originari emersoniani nei quali la debenedettiana epica dell’esistenza fa premio su quella della realtà.
Cercando un titolo diverso del pur evocativo “Le antiche ore”, la casa editrice milanese che ha tradotto per la prima volta Bible in Italia si è fatta incantare dalla scena del giovane detenuto, Jggy, che in attesa di essere giustiziato vagheggia il desiderio di vedere cadere l’ultima fioritura dall’albero di corniolo visibile dalla finestra della sua cella: immagine efficace di una deposizione che come tale spiega perché il libro abbia tanto entusiasmato Alessandro Baricco, che molto ha riflettuto sul tema della deposizione e dal quale sono venuti in Italia gli elogi più vivi a Bible: non solo per lo stile sincopato, secco e affidato a fulminanti enunciati, per la prevalenza del suggerito sul pronunciato, per l’evanescenza e l’indeterminazione, per la mancanza condivisa di virgolette nel parlato, ma anche per la disarticolazione del tempo della scrittura rispetto a quello della narrazione, nonché per la vocazione a rendere diacronica la sequenza degli eventi, spalmati su un lungo periodo nel quale è il tempo a governare i personaggi nonché le loro azioni.
La critica italiana ha ricordato Faulkner e Flannery O’Connor per inquadrare Bible, rialbeggiando il profondo Sud americano, la provincia anonima del Midwest, e dando così alla Costante il significato di una dimensione non solo temporale ma anche spaziale, sconfinata e oltremisura, perciò fuori dalla portata dell’intervento umano, per cui i personaggi ancora in formazione si ritrovano alla mercé di elementi naturali di tipo eschileo, entro un clima hawthorniano, succubi di una volontà divina e immanente che è presente nel romanzo nei ricorsivi e impliciti rimandi alle sacre scritture, sostenuti in senso escatologico e millenaristico.
Ma non è il tempo il basso continuo, né lo sono le concezioni di vago sentore trascendentalistico, a connotare Bible, se si esce dagli schemi di una letteratura di spirito americano e si guarda piuttosto all’Europa cui l’autore, forse inconsapevolmente, si rifà, in particolare Albert Camus. Un analogon del romanzo è infatti costituto da Lo straniero. La colpa di cui si macchia Jggy è la stessa che sconta Meursault, responsabile dell’uccisione di un arabo avvenuta senza un motivo reale, inspiegabile, “assurda”, tale semmai da dovere accusare il sole e il caldo torrido, indicando tuttalpiù nella “noia mortale”, nel “tedio insopportabile” che oppone Jggy – ed ecco tutto Camus – le scaturigini del gesto. Alla stessa maniera Jggy dà a fuoco una chiesa con dentro i fedeli in preghiera senza una ragione che sia realmente comprensibile.
Il romanzo, articolato nel quadro di focalizzazioni diverse, passando dall’esperienza all’altra degli amici e dei parenti del piromane assassino, che offrono la loro prospettiva per determinare la personalità di Jggy, si costituisce allora come una ricerca di senso, dove balugina un altro grande scrittore ancora europeo, il Dostoevskij di Delitto e castigo, ma senza redenzione alcuna. Tant’è che quando Jggy è chiamato a spiegare il suo atto, quel che può dire è quanto avrebbe detto Meursault o anche Rodja Raskol’nikov: «Volete sapere perché ho fatto quello che ho fatto? Sarebbe come prendere un po’ di acqua fra le mani e chiedersi se è fiume o pioggia”.
Romanzo sull’indicibile e l’inspiegabile, L’ultima cosa bella sua faccia della terra è uno studio dell’uomo: quello che un terzo autore europeo, Rainer Maria Rilke, ha individuato nell’infelice ineluttabile. Il corniolo dal quale Jggy vorrebbe infatti ancora una volta, l’ultima, vedere cadere le foglie richiama da vicino “gli amenti / dei nocciòli spogli, che pendono” della decima delle Elegie duinesi di Rilke, dove si fissa la “deposizione” umana dalla felicità e sono recitati versi che Bible avrebbe dovuto porre in epigrafe: “E noi, che pensiamo alla felicità / come a qualcosa che sale, sentiremmo / l’emozione, che quasi ci sgomenta, / di quando una cosa felice cade”. C’è qui la storia stessa di Jggy. Che immagina la felicità come un sentimento che cresce quando invece scopre che nella vita è fatta per cadere, per modo che pensare ad essa porta alla costernazione, di perderla. I “morti senza fine” di Rilke che per noi dovessero risvegliare un’immagine, quella degli amenti dei nocciòli, sono gli Iggy di Bible ai quali l’immagine della fioritura di un corniolo è metafora della propria deposizione e infelicità.