Media e leadership / I selfie di Zelensky, i tavoli di Putin, gli occhiali di Kim
Gli esperti sono unanimi nel riconoscere le innovazioni apportate dal presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky alla comunicazione della leadership politica in tempo di guerra. Con una cadenza ormai quotidiana, dal suo bunker a Kiev, Zelensky pone il mondo di fronte a una inedita e dissonante evidenza: al tempo dei social e della connessione costante, comunicare efficacemente dal cuore dell’assedio è possibile. Il suo è un vero e proprio viaggio ufficiale in videoconferenza nei parlamenti e nei consessi del mondo occidentale (almeno 20 nel mese di marzo).
Ogni discorso è uguale ma diverso, come un format. Per supportare le sue richieste di auto militare, Zelensky punta sull’empatia cercando paragoni storici che facciano capire ai rappresentanti e ai cittadini dei singoli paesi lo stato emotivo in cui versano gli ucraini: cita Churchill ai britannici, Pearl Harbour e l’11 settembre agli americani, Genova agli italiani, la Shoah agli israeliani… Il discorso al Congresso degli Stati Uniti è stato fatto precedere da un video realizzato per l’occasione che affiancava le immagini di un’Ucraina bella e spensierata nel suo percorso di emancipazione dall’influenza russa al found footage degli stessi luoghi o situazioni di vita quotidiana devastati dalla guerra.
Lo strazio è aumentato dal contrasto tra le immagini turistiche e la documentazione dell’inferno. Nei suoi interventi è seduto di fronte al computer; l’immagine aderisce all’“estetica Zoom” a cui due anni di pandemia ci hanno costretto e abituato. Lo stile è chiaro e diretto, lo sguardo fisso in camera, la voce profonda e decisa, la mano aperta sul petto. Ha svestito l’abito elegante del presidente, ma non per indossare la divisa da comandante delle forze armate, bensì una t-shirt o una camicia e una felpa color verde militare, come un soldato semplice. La tenuta mimetica è una mimesi con il suo popolo: sono come voi, siamo tutti presidenti e tutti siamo soldati con il compito di difendere il Paese da una violenta aggressione.
Finora i discorsi ufficiali. Ma il canale prediletto da Zelensky è Telegram, ed è qui che, nei primi giorni dell’invasione, è apparso in due video persino più interessanti. Si tratta in entrambi casi di selfie girati con il suo stesso smartphone. Il presidente è in superficie, deve mostrarsi ancora vivo nella capitale, per smentire le voci che lo volevano in fuga o in salvo in un altro paese. Nel primo video-selfie si trova di fronte alla Casa delle Chimere, nel cuore di Kiev, a poche centinaia di metri dal palazzo presidenziale, all’alba. Nel secondo, stavolta in notturna, è circondato dai suoi collaboratori: il primo ministro è qui, il capo del partito è qui, il presidente è qui. Il selfie assolve pienamente alla sua funzione: non tanto – barthesianamente – mostrare qualcosa che è stato, ma una deissi del soggetto, un io sono qui, un’autocertificazione di esistenza in tempo reale. Il selfie, nella sua auto-soggettivazione, nella sua estetica sgranata e sbilenca, nella sua incisiva brevità, nella sua diffusione in diretta attraverso i social, crea un forte senso di prossimità, immediatezza e autenticità, che è quello che serve a tenere unito un popolo e incoraggiarlo a resistere.
Solo qualche giorno prima il suo acerrimo nemico Vladimir Putin aveva invece dissimulato i propri piani di invasione sedendosi a un algido tavolo ellittico passato alla storia (e memificato); all’altro capo del tavolo, a sei metri di distanza, Macron in qualità di presidente di turno dell’UE. Una prossemica del distacco che isolava lo “zar” separandolo dall’Occidente e da qualsiasi possibilità di essere compreso nei suoi piani di supposto “peacekeeping” nel rivendicato Donbass. Poche ore prima dell’invasione, aveva prefigurato i suoi veri intenti con un discorso fiume pronunciato dal suo trono al Cremlino. Come sempre un po’ stravaccato, con i palmi delle mani appoggiati sulla scrivania. Ma alla distensione del corpo si opponeva la rabbia che gli corrugava il volto. Il suo sguardo minaccioso è agli antipodi del selfie zelenskyano. Putin costruisce attorno a sé una distanza pubblica invalicabile; il suo omologo ucraino invece risponde alle domande dei giornalisti invitati nella sede presidenziale scostandosi dal leggio sopraelevato e accovacciandosi al loro livello su una sedia sul bordo del palco.
Non è sfuggito a nessuno che il presidente ucraino ha un passato da attore comico ed è stato protagonista di una serie televisiva – Servitore del popolo (nome che prenderà il suo partito) – in cui interpretava un insegnante indignato dalla corruzione imperante che, grazie a un video virale su internet, diviene… presidente dell’Ucraina! (La serie è in onda in chiaro su La7 dal 4 aprile). Ecco proprio il caso in cui la finzione continua e si completa nella realtà e da essa è superata. Perché è più drammatica e dunque, nel racconto mediale che ce ne consente l’accesso, più drammaturgica: la realtà sembra uno spin-off della serie tv (Baudrillard l’ha chiamata precessione dei simulacri, ma forse è persino peggio). La sicurezza e l’efficacia delle performance comunicative di Zelensky sono certamente il frutto della sua esperienza attoriale e del lavoro della sua troupe, sulla traccia di una sceneggiatura scritta giorno per giorno per innescare e alimentare l’onda emotiva che ben più che in una serie televisiva può trasformarlo in eroe e infondere eroismo nel suo popolo di spettatori-elettori. La continuità commistiva tra finzione e realtà non ci scandalizza più, siamo abituati a figure che fanno il salto dallo schermo allo scranno.
Se l’a-social Putin raduna e catechizza le folle negli stadi, Zelensky persuade l’occidente a mandare armi e decretare sanzioni economiche da un sotterraneo poco aerato. In questo capovolgimento di finzione e realtà, il massimo della naturalezza è raggiunto con una buona dose d’artificio e una perfetta sintonizzazione sulle dinamiche della comunicazione contemporanea. L’effetto della narrazione mediale è che Putin reciti la parte del supercattivo in una scenografia raggelante; Zelensky invece è empatico, coraggioso e autentico come nella più coinvolgente finzione.
C’è un terzo video (pubblicato su Telegram l’8 marzo) che rivela perfettamente questa sapiente costruzione. Zelensky inquadra uno scorcio serale del centro di Kiev dalla finestra con il proprio smartphone; poi rivolge la fotocamera verso sé, cammina in un corridoio, oltrepassa la bandiera nazionale e si siede. A questo punto c’è uno stacco, di montaggio e di stile: il presidente ora è ripreso da più lontano, seduto nel suo ufficio, ha appena trasferito lo sguardo dal suo smartphone (che impugna ancora per qualche istante e poi ripone sulla scrivania), come farebbe un conduttore durante una trasmissione televisiva. Questa seconda immagine è stabile, realizzata con una telecamera e uno stile professionali, il presidente in mezzo busto frontale legge da un gobbo trasparente i nomi di alcuni soldati caduti a cui attribuirà un’onorificenza. L’uso combinato dei due registri rende evidente la regia che è dietro alla strategia comunicativa di Zelensky.
Dunque prossimità, autenticità, istantaneità, viralità: i valori della comunicazione contemporanea fusi nella strategia di Zelensky, attore in uno scenario di guerra che è anche informativa (e non mancano i deep fake dei suoi video) in cui sembra persino trovarsi a proprio agio e in cui auspica quotidianamente la rinascita di una nazione.
E poi c’è lui. L’unico, il solo, l’inimitabile. È Kim Jong-un, leader supremo della Corea del Nord, che il 24 marzo, a un mese esatto dall’invasione, si sente emarginato in un momento di grande fermento internazionale e decide di lanciare un gigantesco missile balistico intercontinentale per rimettere Biden in allerta. La televisione di stato nordcoreana pubblicizza e racconta l’esercitazione con un video incredibile agli occhi occidentali. Le porte di un immenso hangar si aprono, Kim avanza accompagnato da due generali, indossa una giacca di pelle nera e occhiali da sole. L’immagine in ralenti e la colonna sonora epica enfatizzano l’audacia dell’impresa che sta per compiersi. Kim dà indicazioni ai militari mentre il gruppo avanza verso la macchina da presa.
L’inquadratura si allarga, poi si restringe e si allarga nuovamente. Il video ora si concentra sul missile che esce dall’hangar trasportato da gigantesco mezzo militare. I movimenti di macchina sono rallentati, poi bruscamente accelerati e infine di nuovo in slow motion. Seguono degli zoom rapidissimi sui tre uomini intenti a guardare il proprio orologio da polso; gli stacchi aumentano il ritmo, fino a una vera e propria raffica di primi piani che culmina con il gesto di Kim mentre si sfila gli occhiali da sole e guarda dritto verso la macchina da presa con un’espressione da duro. E via così con l’ordine del lancio, il decollo e il volo del missile mostrato da una camera montata sull’arma (sembra quasi di poterlo cavalcare, per imparare a non preoccuparsi e ad amare la bomba…) e l’esultanza dei militari per la missione riuscita. Il montaggio alternato è serrato ed estenuato dal ralenti, la musica incalza, anche se i raccordi sono imprecisi e c’è qualche jump cut. Questo stile audiovisivo imita chiaramente quello di un film di azione hollywoodiano, ma il risultato è posticcio: sembra quasi il trailer di un b-movie spy. La recitazione va ben oltre i limiti del ridicolo: Kim si veste e si atteggia a top gun, i militari che lo accompagnano sembrano dei goffi burattini, l’effetto è quello di una parodia, peraltro di scadente qualità.
Perché scimmiottare gli stilemi estetici del cinema americano mainstream? Delle due l’una. Se per sfoggiare il più grosso missile dell’arsenale e riaffermare la propria superpotenza si ricorre ai modelli iconografici occidentali, allora l’ideologia hollywoodiana ha raggiunto il proprio subdolo obiettivo: penetrare a fondo l’immaginario abbattendo anche i muri del regime più chiuso al mondo, tanto da innescare ingenue retoriche imitative che tradiscono una certa dose di ammirazione. Se invece – e mi piace protendere a favore di questa strampalata ipotesi – si parla la lingua (audiovisiva) del nemico per prenderlo in giro intenzionalmente, allora saremmo davanti a un capolavoro di diplomazia geopolitica. Di sicuro con il suo spavaldo sguardo in macchina Kim raggiunge un livello di sofisticazione comunicativa persino più clamoroso del social-realismo dei selfie di Zelensky e delle occhiatacce zariste di Putin.
Riferimenti bibliografici
Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 1980.
Jean Baudrillard, Simulacri e impostura. Bestie Beaubourg, apparenze e altri oggetti, Pigreco, Milano 2008.
Edward T. Hall, La dimensione nascosta. Vicino e lontano: il significato delle distanze tra le persone, Bompiani, Milano 1968.