Bada a come mangi!
Ho letto con interesse un libro di Cinzia Scaffidi Mangia come parli, edizioni Slow Food. Il libro raccoglie 100 parole in vario modo collegate al mondo dell’alimentazione e ci propone di riflettere sull’evoluzione del loro significato nel tempo, per comprendere come, assieme al significato delle parole, è mutato il nostro rapporto con il cibo: Consumatore, Cotto, Grasso, Magro, Supermercato, Tempo. È stata una lettura piacevole, favorita da una generale consonanza di pensiero, eppure la sua impostazione diacronica, che in riferimento a ogni parola oppone un prima a un adesso, è legato un aspetto del libro sul quale vorrei soffermarmi criticamente. Lo schema argomentativo sotteso alle voci di questo dizionario di parole chiave è spesso il seguente: prima si faceva così, adesso si fa così, ma era meglio come si faceva prima. Non voglio allinearmi alle accuse di passatismo che da molte parti sono rivolte a Slow Food e che io ritengo insensate: se uno entra in un campo minato non dovrebbe bollare come retrogrado chi gli suggerisce di tornare sui suoi passi. Credo tuttavia che questa condanna generalizzata del presente investa anche aspetti della vita delle persone che andrebbero considerati con maggiore discernimento e saggezza strategica. Mi riferisco ai modelli di consumo che si sono diffusi negli ultimi decenni, cioè alle motivazioni e alle pratiche tipiche attraverso le quali, nelle odierne società industriali, le persone acquistano e consumano i prodotti alimentari. Alcuni esempi: riempire il carrello all’ipermercato nel fine settimana, anziché acquistare il cibo di volta in volta nel negozio sotto casa; scaldare nel microonde un piatto pronto confezionato, invece di preparare una pietanza a partire dagli ingredienti di base; mangiare al fastfood in pausa pranzo anziché portarsi una schiscetta (o lunchbox) da casa; nutrirsi attraverso una serie di spuntini o snack disseminati durante il giorno anziché attraverso pasti regolari; acquistare alimenti funzionali, come i minidrink probiotici, anziché organizzare la propria dieta in modo da ricavare gli stessi benefici dai prodotti dell’orto. La posizione che esprime il libro, in modo più o meno esplicito, è che questi modelli sono incompatibili con la nozione di cibo buono, pulito e giusto promossa da Slow Food. Finché essi prevalgono, le pratiche produttive virtuose a cui rinvia quella nozione, basate sul rispetto dell’ambiente, dell’uomo e del gusto, non potranno affermarsi.
Vi sono indubbiamente delle connessioni tra modelli produttivi e modelli di consumo e qualsiasi pretesa di cambiamento nel sistema alimentare deve tenerne conto: se voglio cambiare il modo in cui si produce il cibo devo anche cambiare in qualche misura il modo in cui lo si consuma. E viceversa. Temo però che un’interpretazione troppo rigida di queste connessioni possa nuocere alle ambizioni di Slow Food, limitando la portata del suo messaggio entro la cerchia di chi lo ha già raccolto e precludendo il dialogo con le ampie fette di società che con quei modelli ormai si identificano e non sembrano disposte a rinunciarvi facilmente. Prendiamo ad esempio un liceale di Parigi che sta per entrare in un McDonald’s con gli amici, un sabato alle 14.00, poco dopo la fine delle lezioni e immaginiamo che gli si avvicini un attivista di Slow Food e gli dica: “Se vuoi mangiare buono pulito e giusto, la prossima volta devi mettere nello zaino, dentro un contenitore adatto, che poi dovrai lavare, un paio di polpette preparate a casa, a partire da tagli di carne bovina fornita da una piccola ben identificata fattoria normanna, e due fette di pane fatto con farine macinate a pietra. Soprattutto devi convincere tua madre a preparartele la sera prima. Così all’uscita da scuola, invece di andare al fastfood e farti un cheeseburger globale, potrai sederti su una panchina di Place de la Republique e gustare un panino freddo e senza ketchup, ma inserito nella tua storia e in una rete di relazioni autentiche.” (Preciso che la scena me la sono inventata io, ma le parole dell’attivista si ispirano alla visione espressa dal libro nel suo complesso e in particolare alle voci: Piacere, dove si rileva con rammarico che i ragazzini di oggi preferiscono gli hamburger del fastfood alle polpette di casa; Tempo, dove si giudica pretestuosa la scusa di mancanza di tempo addotta da chi non cucina più in casa; Relazione, dove si dice che “il cibo senza relazioni smette di essere cibo”.) Ho il sospetto che il liceale non gli darebbe retta e non sarebbe interessato a capire le sue ragioni. Sarebbe più disposto ad ascoltarlo, se invece di proporgli di cambiare radicalmente le sue abitudini e i suoi gusti, gli indicasse un altro fastfood, magari più cool del McDonald’s che è solito frequentare, dove servono panini caldi con ketchup, polpette km 0 e altri prodotti da filiera sostenibile. Un fastfood come Sweetgreen, ad esempio, una catena con una notevole diffusione sulla costa atlantica degli Stati Uniti e frequentata da un pubblico molto giovane, che offre un menu basato su prodotti di stagione e forniti da aziende agricole locali. O come Chipotle, un gigante della ristorazione veloce americana, che ha deciso di rifornirsi solo da allevatori “responsabili” e poiché le forniture sono limitate, quando le scorte di un ristorante finiscono la catena si fa quasi un vanto di comunicare ai propri clienti che per quel giorno in quel ristorante la carne non è più disponibile e che si possono avere solo preparazioni a base di verdura. Attraverso le catene Chipotle e Sweetgreen alcuni messaggi importanti che affermano il valore della stagionalità, il senso di responsabilità nei confronti dell’ambiente e degli animali, la coscienza della limitatezza delle risorse e la sostenibilità del chilometro 0 raggiungono proprio le persone che più hanno bisogno di recepirli, cioè le moltitudini che amano i fastfood, che non frequentano i Mercati della Terra e non leggono i libri di Cinzia Scaffidi.
Alla voce Moderno, si trova una bella definizione di modernità fondata su “un’idea di attualità delle istanze, per cui è moderno quello che nelle condizioni date dalla situazione e dall’epoca in cui ci si trova a vivere, dà risposte adeguate”. Questa definizione ha il merito, non sufficientemente evidenziato nel libro, di smarcare il moderno dal nuovo (ciò che è moderno non è necessariamente nuovo) e di includere potenzialmente nella modernità anche il richiamo ai saperi antichi, in quanto depositari di risposte adeguate. La molitura a pietra della farina, ad esempio, benché molto più antica di quella a rulli di acciaio, si può considerare moderna perché corrisponde all’attuale consapevolezza circa gli svantaggi di un’eccessiva raffinazione. In questa accezione moderno non si oppone più ad antico, ma ad anacronistico. Le implicazioni di questo slittamento di senso meriterebbero di essere esplorate. Ciò che Scaffidi non ammette, però, è che la definizione include nella modernità anche le barrette proteiche industriali, il forno a microonde, i probiotici ed altri prodotti globalizzati, perché anch’essi in qualche misura sono risposte adeguate alle trasformazioni che le nostre società hanno subito e ai bisogni funzionali ed emotivi che sono emersi. Si può sostenere, come fa il libro, che questi bisogni sono il frutto della sottomissione a una certa egemonia culturale e della permeabilità delle coscienze ai messaggi del marketing, nondimeno sono un aspetto ineludibile del presente con cui bisognerebbe confrontarsi in modo più aperto. Il lunch-box con le polpette fatte in casa per il liceale parigino non è una risposta adeguata alle istanze del presente. È anacronistico, non moderno, in base alla stessa definizione di modernità per cui invece è moderna la molitura a pietra.
La tendenziale avversione di gran parte della comunicazione di Slow Food nei confronti di certe abitudini alimentari, deriva da un vizio di origine – ma si potrebbe anche dire “da una virtù d’origine”. In Italia, patria del movimento, il cibo buono pulito e giusto si identifica con il cibo tipico, cioè legato a un territorio, inteso come un complesso di specificità climatiche, biologiche e culturali. È un cibo avito la cui eccellenza è frutto di saperi sedimentati nei secoli; un cibo da rivalutare e da tramandare assieme alle culture gastronomiche che lo hanno prodotto e mangiato. Soprattutto, è un cibo da difendere contro il dilagare di fenomeni di omologazione, che taluni definiscono, con una semplificazione che appartiene a una retorica fortemente identitaria, di americanizzazione – alla voce Resistenza, Scaffidi parla di colonizzazione culturale e non è un caso che il nome stesso del movimento dichiari la sua opposizione al fastfood, cioè a un modello americano di ristorazione, proposto come simbolo delle distorsioni dell’attuale sistema alimentare. L’assunto è che gli italiani, acquisendo stili di vita e di consumo importati da oltreoceano e imposti dall’industria, si sono allontanati dalla ricchezza gastronomica del territorio e hanno orientato le loro preferenze verso servizi e prodotti globalizzati e senza storia che a quei modelli meglio si adattano. In questo contesto la promozione del cibo prodotto nel rispetto dell’uomo, dell’ambiente e del gusto presuppone il rifiuto di quei modelli e il ritorno a stili di vita, o diete, autenticamente nostrani. Per questo in Italia, le istanze etiche ed estetiche di Slow Food si esprimono attraverso una retorica di difesa, identitaria e tradizionalista, che tende ad escludere i compromessi con l’industria e con i modelli di comportamento che essa ha contribuito a diffondere.
Negli Stati Uniti invece questi compromessi sono frequenti e danno origine a casi di studio molto interessanti, come quelli citati più sopra di Sweetgreen e Chipotle – due dei molti che si potrebbero fare, legati alla diffusione della ristorazione fast casual, ovvero del fastfood di qualità. Laggiù, i movimenti che promuovono l’agricoltura sostenibile, il farm-to-table, il biologico, l’animal welfare, la genuinità ecc. non mirano tanto a contrastare gli attuali modelli di consumo per ripristinare una qualche autenticità perduta, ma a innestare le loro istanze all’interno di quegli stessi modelli – i quali, bisogna notare, sono nati lì e forse sono proprio essi a rappresentare autenticamente la cultura che li ha generati. Le parole local e authentic sono libere di apparire sul packaging di uno snack o nel menu di un fastfood, perché non hanno alcuna connotazione di tipicità, non si riferiscono a un territorio, ma rispettivamente a una semplice e relativa prossimità geografica e a una sorta di onestà di origine, che rifiuta trucchi e sofisticazioni. Non considero gli USA come una cultura alimentare di riferimento, tutt’altro, ma seguo con grande interesse i modi in cui la moderna sensibilità ai valori etici e alla qualità del cibo si manifestano in una cultura senza denominazioni di origine. Credo che dovrebbero farsene ispirare quanti ambiscono, qui in Italia – dove al contrario etica e qualità sono spesso solo implicate dalle certificazioni DOP e IGP senza diventare discorso – a promuovere i concetti di buono pulito e giusto oltre le tavole degli intenditori, i mercati contadini e le gastronomie del centro.
La piadineria vicino allo studio dove lavoro, a Milano, è un caso interessante a questo proposito. L’organizzazione dello spazio e del servizio è in tutto simile a quella del fastfood: il cibo è preparato sul momento e velocemente; il menu, illustrato sui tabelloni sopra il banco, è facile da interpretare; si ordina alla cassa, si paga e si aspetta di essere chiamati. Quando l’ordine è pronto, lo si ritira e si va al tavolo per mangiare in compagnia. I tempi di attesa sono più o meno quelli di un fastfood e nel complesso l’esperienza è la stessa, anche per quanto riguarda i costi. Quello che cambia è il cibo e i valori che trasmette. La piadina è autenticamente romagnola, spianata sul momento (non precotta come nei bar) a partire da un impasto fresco e materie prime di qualità. Uno stendipizza a due coppie di rulli, al di là di ampie vetrate, è ben visibile all’interno di una cucina che non ha nulla da nascondere. È manovrato da un’addetta che non fa altro che stendere piadine una dietro l’altra, mentre altri si occupano ciascuno di un aspetto della successiva preparazione, in base a una divisione delle mansioni di ispirazione taylorista, come da McDonald, ma nemmeno troppo lontana da quanto si può vedere ad agosto in un chiosco di Cervia all’ora di pranzo.