Veronika Voss, Latella, le scimmie
Non per forza una domanda, un'illuminazione, o un po' di dolore, o di gioia, ma almeno un colore, una consistenza, un formicolìo, a casa, dopo aver visto uno spettacolo, dovremmo avere il diritto di portarli. Quando questo non accade vuol dire che qualcosa non va. Lo spettacolo in questione è Ti regalo la mia morte, Veronika, scritto da Antonio Latella e Federico Bellini a partire dal film di Rainer Werner Fassbinder, Veronika Voss, per la regia di Latella, prodotto e distribuito da un teatro nazionale, ERT-Emilia Romagna Teatro Fondazione. A maggio il debutto a Modena, e dalla scorsa settimana in tournée: prima tappa, Arena del Sole di Bologna.
Carpio, Piseddu, Acca, ph. Brunella Giolivo
Sforziamoci almeno per un momento, con pazienza, di osservare nel dettaglio la drammaturgia: luci accese in sala, sul fondo un telo di pelliccia bianca, in scena una fila di sedie di legno da vecchio cinema-teatro, sulla destra una macchina da presa retrò. Una donna magra, diafana, con una sottoveste cipria coperta da un cappotto rosso, interviene in proscenio, senza microfono, sul vocìo del pubblico appena arrivato e nell'invocare l'aiuto degli spettatori – "Aiutatemi a regalarvi la mia morte", "scommetto che non avete letto neanche il programma di sala" –, ci consegna il primo livello: ricordiamoci di ricordare durante lo spettacolo che siamo a teatro. Seduto in platea un uomo fa una radiocronaca sportiva; è il corrispondente Robert Krohn, siamo in un ippodromo a una corsa di cavalli e la diretta si conclude con la morte del cavallo che giunge in fin di vita alla linea d'arrivo; un cavallo drogato, da abbattere. Abbattuto. Il secondo livello è dato. In sintesi, la premessa è più o meno questa: una donna, una morte in ballo, e una esecuzione già compiuta. Come in una tragedia classica, stiamo per assistere allo svolgimento di una morte svelata dal principio, lo spettacolo racconterà il compimento di un destino. Ma la protagonista ci sta chiedendo, piuttosto nervosamente, aiuto. "Aiutatemi a regalarvi la mia morte". Non ad arrivare fino in fondo alla storia, quindi, ma a regalarcela, a scegliere di morire per il nostro applauso. Aggiungiamo un livello: il personaggio, e la sua ribellione al destino previsto. Ma anche un altro: se ci ha chiamati in causa in quanto spettatori noi ci dobbiamo ricordare sempre che il patto di finzione è rotto, e che chi abbiamo di fronte è anche una attrice, e che ha bisogno di aiuto, vale a dire di una platea, di spettatori, per portare avanti, in quanto attrice, la missione ribelle del suo personaggio. Ricapitolando: c'è una donna che sicuramente morirà, lo spettacolo consisterà nel percorso che conduce a questa morte, ma la protagonista lotterà contro la naturalezza di questo svolgimento, esattamente come l'attrice lotterà contro il naturalismo della sua interpretazione. Fin qui, con i dovuti dubbi, e ponendo il caso di una iperattenzione a questo schema articolato di segni, tutto sembra tornare. E siamo ancora ai primissimi minuti di spettacolo.
Monica Piseddu, ph. Brunella Giolivo
Le luci in sala si spengono, si illumina il palcoscenico, si attivano i segni della scenografia. Rimpiangiamo il sipario, che aperto solo adesso ci avrebbe evitato di interrogarci su quelle sedie e quel fondale troppo in anticipo, per concentrarci su quei tanti altri input che ci venivano intanto distribuiti nel giro delle prime battute. Ma forse no. D'altronde Latella ci fa sempre guardare anche gli ingranaggi della macchina. Dunque: aggiungiamo un altro segno. Lo dobbiamo già sapere dall'inizio che quello che accadrà avrà a che fare con un cinema, con il cinema. A un certo punto ci verrà anche il sospetto – ma lo diremo più avanti – che quella macchina da presa in proscenio fin dal principio avesse il compito di farci sapere che la regina vera, in questa vertigine di fuochi e di prospettive, è lei, che riprende tutto. Ma per adesso, luci in palcoscenico, può cominciare il racconto, lo spettacolo, nello spettacolo. Siamo al cinema, insieme a Veronika Voss (Monica Piseddu), che sta per rivedere la parabola tragica della sua vita d'attrice in un film in cui ha recitato. La storia da mandare avanti è la sua, appunto, protagonista dell'omonimo capolavoro cinematografico di R.W. Fassbinder, diva del cinema tedesco, decaduta, morfinomane, incapace di sopravvivere, di trovarsi un posto, un equilibrio, una forma di resistenza umana, lontano dalla macchina da presa, dallo strumento della sua sublimazione extraordinaria, come tutti gli artisti.
Monica Piseddu, ph. Brunella Giolivo
Spente le luci in platea, la pelliccia bianca sul fondo è luminosa; siamo dentro l'incubo di una drogata, in un film in bianco e nero di Fassbinder, dentro una montagna di morfina e di eroina, dentro l'inquietante clinica in cui la Voss è tenuta ostaggio da una neurologa e un'infermiera senza scrupoli. Sei scimmioni bianchi, proiezioni della sua psiche alterata, schegge della sua memoria, la circondano, la assillano, le suggeriscono i ricordi, gli snodi fondamentali non solo della storia che sta rivedendo sullo schermo immaginario, ma di quella che sta mettendo in scena in quel preciso momento, a teatro. "Brava, resta frivola, Veronika"; "devi ricordare tutto, Veronika", "ora piano, rallenta": la storia procede, mentre l'attrice prova a sospenderla di tanto in tanto, fumando una sigaretta, chiedendo una pausa. I fantasmi assumono connotazioni sempre più precise, dai costumi dei primati vengono fuori dei volti e delle voci con un nome e una funzione. Veronika sbaglia battuta, recita quella di un altro allestimento di Latella, Un tram che si chiama desiderio; sullo sfondo i tre bravissimi artisti delle ombre di alTREtracce proiettano il volto di lei, e poco dopo – sorpresa – quello del grande cineasta a cui Latella vuol rendere omaggio. Veronika/Fassbinder: sono la stessa persona, divorata dalla scimmia, che è la droga, ma anche il successo, ma anche, a un livello più profondo, il loro stesso linguaggio, la loro stessa arte. "C'è così tanta tenerezza nella mia testa, c'è così tanta solitudine nel mio letto, c'è così tanta tenerezza al mondo”: uno scimmione canta in inglese (Maurizio Rippa), Veronika, ma forse dovremmo dire Fassbinder, nel frattempo pronuncia in italiano e scrive queste parole con un gesto della mano, crea la scena che stanno interpretando. Di fronte a noi si accumulano strati su strati.
Quando il plot è in crisi i personaggi/scimmie – ma non dimentichiamo mai che le scimmie sono lei – invocano l'arrivo di nuovi input, per esempio di un personaggio che venga a fare la propria parte, a dare il proprio contributo, a innescare le azioni successive. Robert Khron (Annibale Pavone), cronista amante di Veronika, viene chiamato a stare sulla scena, a recitare il suo ruolo. Completamente spaesato, non fa che ripetere di non sapere esattamente cosa sta facendo e perché, e nel frattempo bacia le altre attrici, fa lo spavaldo, aggiungendo con questa caratterizzazione un ulteriore livello a una già ingarbugliata situazione. Il film originale sulla scena viene smagliato all'inverosimile, con l'intrusione di flashback, di commenti esterni, di didascalie, di interruzioni metateatrali, di sovrapposizioni, di frecciatine lanciate al pubblico visibilmente disorientato di fronte a questa deflagrazione. I personaggi decisamente rovinati, squadernati, privati dell'ambiguità che al cinema li rendeva perturbanti, sono funzioni a cui è posticciamente attribuita una caratterizzazione.
L'orgia di segni si fa sempre più insostenibile; a un certo punto, complice anche la lunghezza, ci siamo dimenticati tutto, non solo delle premesse ma anche che quegli scimmioni sono proiezioni della psiche di Veronika. Sugli ultimi passaggi del plot del racconto di primo grado – il film – abbiamo già alzato bandiera bianca. E finalmente, però, lo scarto: Veronika interrompe tutto, rimane sola con la sua dose di eroina. E secondo un ripensato schema tragico, racconta la sua morte come se fosse fuori scena. La rivediamo, Monica Piseddu, come lo scorso anno in Alcesti, fare esplodere il dolore nella compostezza della citazione, dire "non riesco a frenare le lacrime", mentre non piange. Ci regala quindi la sua morte, decide di morire, senza l'ultima cena d'addio prevista dalla storia originale. Ma chi? Veronika in quanto personaggio la regala a noi, perché possiamo applaudirla? O piuttosto è Fassbinder a regalare la sua morte a Veronika?
Monica Piseddu, ph. Brunella Giolivo
Un totale cambio di scena, in appendice; cade il telone di pelliccia, e cala dal cielo un enorme albero. Veronika è nel giardino dei ciliegi di Cechov, a colazione – sulla terra sotto la quale scoprono essere seppellito Fassbinder – con le altre eroine dei suoi film, Martha, Elvira, Emma, Margot. Tutte sottratte al loro destino di morte? Un maggiordomo (Fabio Pasquini) entra con una pistola: "come insegna il maestro, ogni volta che in scena compare una pistola è necessario che spari". Ma non in questo giardino in cui finiscono le eroine che la loro morte l'hanno regalata e non subita, in cui le cose non devono accadere per forza. Robert Krohn, che adesso si occupa di football, dove il doping non uccide ma fa vincere campionati, si accoda alle dame. Il maggiordomo, che lungo tutto lo spettacolo, in veste di scimmione/ebreo/regista, aveva dettato la punteggiatura a Veronika, perché "con la punteggiatura si fa il montaggio di un pensiero" spara, e pone, finalmente, il punto che la storia richiede. In tutto ciò, in proscenio, c'è sempre, ancora, la cinepresa.
Allora, di fronte a questo lavoro, commuoversi non si può perché la sovrapposizione delle scritture sgrana l'immagine, non tiene conto dei tempi d'attesa, non ci lascia il tempo di maturare dentro di noi una curiosità e una affezione nei confronti di nulla. Potremmo commuoverci, una volta che l'avessimo tematizzato, per la difficoltà di vivere di Veronika/Fassbinder, per il suo essere intrappolata dentro il suo stesso autografo, che non può fare a meno di vivere come prigione, e come libertà estrema; ma questo suo mal de vivre è schiacciato tra così tanti livelli, citazioni, giochi metateatrali, tra così tanti segni, che nel frattempo il tema ce lo siamo dimenticato. Allora non vogliamo commuoverci, ma ragionare. E su che cosa? Sui danni provocati dalla morfina? Sul doping? Sulla fine che si fa a inseguire il successo? Sull'essere attori/artisti? Sul cinema di Fassbinder? Sul teatro? Sulla solitudine del genio? In mezzo a tale bulimia, tutto è in piena luce, tutto è illuminato, e nulla splende.
Pur volendo decodificare passo dopo passo l'intera partitura, scopriremmo mancare comunque il livello fondamentale, la consegna sincera di un afflato e della musicalità di spazio movimento e suono che lo traduce – fosse pure una stonatura – , quella che produce memoria, e per la quale si torna a casa con in mente un colore, una consistenza, un aggettivo, o una domanda.
Al pubblico viene sempre consegnata una scrittura, postmoderna e postdrammatica quanto vogliamo, ma ciò che si scrive dovrebbe essere, almeno nelle intenzioni, coerente, urgente. Non per smania del voler capire, ma perché per essere colte e ricordate anche la confusione e l'incertezza del contemporaneo devono avere il peso specifico, teatrale, di forme volutamente slabbrate.
Ora, tutto questo Antonio Latella ce lo insegna. Abbiamo ancora negli occhi quel capolavoro che è stato il suo Natale in Casa Cupiello al Teatro Argentina di Roma, ora candidato al ballottaggio Ubu, e alcuni di noi – compreso chi scrive – si sono entusiasmati di fronte a quel sapiente, favoloso inventario di stili che è stato l'Arlecchino servitore di due padroni con Roberto Latini, solo per ricordare alcune delle ultimissime imprese del prolifico regista. Esattamente come sappiamo quanto Monica Piseddu, qui veramente messa alla prova, sappia farsi fascio di nervi per questa Veronika eroinomane tutta sgangherata, fuscello che punta i piedi e cade, ma soprattutto densa macchia nera, feroce materna matriarca mediterranea per la Concettina di quell'Eduardo latelliano appena citato, ma ancor prima maestra di primissimo livello del gestus e del tragico nell'Alcesti di Massimiliano Civica, fasciata in pantaloni palazzo sopra zeppe che costringevano un corpo abituato alla scompostezza in una posizione rigida, composta, antinaturale, rituale, significante, eppure di tanto in tanto incrinata, umana. E conosciamo le straordinarie prove, ancora con Latella, di Nicole Kehrberger, da Querelle de Brest allo Studio su Medea, e quelle di Caterina Carpio, Candida Nieri e Valentina Vacca protagoniste assolute, di fatto, in un Don Giovanni a cenar teco di qualche anno fa, o in Francamente me ne infischio, per il quale tutte tre vinsero il premio Ubu 2013 nella categoria miglior attrice. Come di quelle di Maurizio Rippa, attore-contraltista, merce rarissima, che il regista, con una certa lungimiranza, ha voluto in pianta stabile in compagnia, o di Annibale Pavone e Fabio Pasquini, che in questo lavoro sono certamente i due attori più centrati rispetto all'impianto generale. Bisognerebbe insomma nominarli tutti, i protagonisti di questa produzione, Federico Bellini, Giuseppe Stellato, Graziella Pepe, Franco Visioli, Simone de Angelis.
Per poter dire che il problema non sono gli attori, o le altre maestranze, e non è neppure Latella, perché quando si lavora principalmente per esercizi di stile e sulle forme, si rischia, di tanto in tanto, di mancare l'obiettivo, e che siamo certi che a marzo del 2016, dopo una sessantina di repliche, questo lavoro avrà trovato una sua direzione, una sua coerenza, una musicalità memorabile imposta a forza dalla scena, e dalla disperazione dei maestri che la abitano. Ma la domanda è: perché? A chi gioverà, infine, questo sforzo degli attori?
Il problema, infatti, è che mentre il regista starà lavorando al suo futuro (speriamo) capolavoro, e mentre i direttori dei teatri staranno mercanteggiando la stagione successiva, cercando di barcamenarsi nei programmi tra proposte, (poche e poco costose) di cui sono molto convinti, e altre che sottoscrivono col naso tappato strozzati dal sistema, il pubblico di una ventina dei maggiori teatri italiani starà pagando un biglietto, spesso anche salato, per vedere questo spettacolo e altri come questo, e non si arrabbierà come si era arrabbiato per l'Arlecchino, dove c'era una intelligenza e una sottigliezza che non poteva che fare bene ai nostri occhi addormentati, ma si sentirà frustrato perché si renderà conto che gli è stata venduta, dal un teatro pubblico, non un'opera sperimentale, bensì un'operazione asfissiata, che i direttori stessi, strozzati, disperati, ma anche nella malafede della resa, hanno comprato o promesso di comprare, in quanto tale, talvolta prima ancora dell'inizio delle prove. E la cosa che demoralizzerà ancora di più chi paga il biglietto, è che l'anno dopo il meccanismo si riproporrà esattamente identico, con un altro regista, un'altra produzione da distribuire e scambiare a ogni costo, soprattutto a costo della qualità generale dell'offerta di cui tanto si discute. Il problema è particolarmente intricato (hanno provato a chiarire dei passaggi Massimiliano Civica e Attilio Scarpellini in "La fortezza vuota"), e – anche se non ci piace perché in questo discorso ci muoviamo dentro un circuito di per sé illuminato rispetto a certe sacche giganti dell'ancien régime che popolano l'Italia teatrale – dalla nostra prospettiva cominceremo col dire, come in questo caso, che non va sempre tutto, comunque, bene.