Speciale
Franz Kafka: assalto al limite
Il 13 agosto 1912, una domenica, Franz Kafka, di pomeriggio, va a casa del suo amico Max Brod, cui dobbiamo la salvezza di gran parte dei testi. E incontra per la prima volta Felice Bauer, una ragazza berlinese, per i parametri del tempo emancipata, che lavora in una ditta all’avanguardia nella produzione di dittafoni, (una specie di telefoni interni). La storia è nota: i due cominciano a parlare. Lui ha in tasca una rivista sugli insediamenti ebraici in Palestina. Max è un sionista impegnato, Franz meno, ma è affascinato da questa prospettiva per gli ebrei: tornare nella terra dei padri, bonificarla e costruirvi nuovi centri, ben diversi dagli shtetl, quei villaggi ebraici dell’Europa Orientale, sempre sotto la minaccia di pogrom. Da quest’incontro nasce un intensissimo epistolario che si evolve in un rapporto forse d’amore, o piuttosto in un progetto matrimoniale. Già dopo quaranta giorni Kafka scrive, in una notte, La Condanna e verso la fine dell’anno La metamorfosi. È la svolta della vita e del suo stile, due dimensioni che sono indissolubilmente collegate, indistinguibili. C’è una fittissima corrispondenza, costellata da innumerevoli progetti, lavori d’introspezione sull’immensa antinomia tra vita matrimoniale e ascesi letteraria: seguire la legge degli uomini, del padre e della comunità oppure l’ascesi letteraria, vivere di sola letteratura. Sono anni di tensioni e di sofferenze, incentrate sull’irrisolvibile antinomia tra vita matrimoniale e scrittura. Dopo varie vicissitudini Franz decide di sposare Felice: a fine maggio 1914 i Kafka si muovono per andare dai Bauer a Berlino. Fidanzamento ufficialissimo, con tanto di annunci sui giornali, come si usava, nonché acquisto di mobili, pesanti e kitsch come piacevano a Felice, pesantissimi per Kafka, nonché di biancheria e affitto dell’alloggio a Praga dove la giovane coppia avrebbe vissuto. Ma ai primi di luglio nuovo viaggio a Berlino, questa volta Kafka viaggia da solo per lo sfidanzamento. Lui non ne esce. La vita di Kafka in quei due mesi – da fine maggio ai primi di agosto- è pervasa da enormi tensioni. Vi è un allucinante parallelismo tra il tracollo del ‘mondo d’ieri’ e quello di Kafka. Dopo il tracollo della prospettiva coniugale, Kafka si rinserra in se stesso, si chiude al mondo con tremenda coerenza, si isola nel momento in cui tutta l’Europa, Praga compresa, è in balia di una bellicosa euforia di guerra: «C’è la mobilitazione. […] Ora ricevo il compenso della mia solitudine […] Comunque sia, poco mi tocca la miseria di tutti. […] Ma scriverò, nonostante tutto, assolutamente: è la mia battaglia per l’esistenza». E non è una metafora presa in prestito dal clima generale. A scorrere le pagine del diario di quei mesi, impressionano la solitudine e la determinazione. Comincia a scrivere uno dei capolavori assoluti, Il Processo. Quasi non vede ciò che lo circonda: «2 agosto. La Germania ha dichiarato la guerra alla Russia. Nel pomeriggio scuola di nuoto». I cognati vengono richiamati. Lui si trasferisce nell’alloggio della sorella. Per la prima volta via dal padre, vive da solo e scrive, insensibile, con un lancinante senso di colpa, a quanto accade a Praga e nel mondo:
«In me non scopro altro che meschinità, incapacità di decisioni, invidia e odio contro i combattenti, ai quali auguro di cuore tutto il male.
Da un punto di vista letterario, la mia sorte è molto semplice. La capacità di descrivere la mia sognante vita interiore». E inizia uno dei periodi più produttivi della sua attività letteraria. A ottobre si prende una settimana di ferie per scrivere, esperimenta ancora un periodo assai intenso di scrittura, che però lentamente comincia a rallentare, a disperdersi in tanti incipit di nuovi racconti. Uno di questi –Nella colonia penale – riesce a portarlo a termine entro l’anno. Il bilancio a fine anno è abbastanza positivo perfino per uno così esigente come Kafka. Ma il nuovo anno corrisponde all’inaridimento della scrittura e ritorna il desiderio, o meglio la questione di Felice, che rivede a Bodenbach e poi a Karlsbad. Ma Felice non esercita più la funzione dinamica dell’autunno del 1912. Di nuovo i soliti progetti di matrimonio, certo, a guerra finita. Ma si riaffacciano i dubbi, i tormenti, i sensi di colpa, l’insonnia vieppiù spietata. Finalmente il 10 agosto 1917, si produce di nuovo una crisi imprevista che sblocca, drammaticamente, una situazione senza via d’uscita. Così la racconta a Ottla, la sorella preferita, in una lettera del 29 agosto: «Erano circa le 4 del mattino. Io mi sveglio, mi meraviglio della strana quantità di saliva in bocca, la sputo ma poi decido di accendere la luce. E così comincia. Chrleni, non so se è scritta bene, ma è un’espressione efficace per questo sgorgare dalla gola. Pensai che non dovesse smettere più. Come facevo a tappare la sorgente se non l’avevo aperta. […] Ecco dunque la situazione di questa malattia spirituale, la tubercolosi». Lo scrittore ha immediatamente la consapevolezza del carattere ‘spirituale’ della malattia, con la coscienza del carattere irreversibile e definitivo. È una svolta definitiva per la sua esistenza ormai precaria. Nell’aprile 1920 a Milena, l’unica amica intellettuale, analizza – con intuizione psicosomatica – la genesi della tubercolosi: «Ecco: il cervello non riusciva più a tollerare le preoccupazioni e i dolori che gli erano imposti. Diceva ‘Non ne posso più; ma se c’è ancora qualcuno cui importi di conservare il totale, mi tolga un po’ del mio peso, e si potrà campare ancora un tantino’.
Allora si fecero avanti i polmoni, che – tanto – non avevano nulla da perdere. Queste trattative tra il cervello e i polmoni, che si svolgevano a mia insaputa, devono essere state spaventevoli».
L’esplosione della malattia provoca un cambiamento di vita radicale. In autunno Kafka prende il primo congedo prolungato e si trasferisce per qualche mese in un paesino, a Zürau, in una casetta della sorella Ottla, dove vive fino alla primavera in perfetta solitudine, interrotta semmai dallo sfrecciare notturno dei topi nella sua stanza, cui tenta di porre rimedio prendendo un gatto. A Zürau riempie otto quadernetti, quelli che usavamo per scrivere i vocaboli di una lingua straniera. E a questi piccoli quaderni è consegnata la più importante testimonianza della concezione del mondo e della spiritualità di Kafka. Lo scrittore traccia un percorso con momenti di ricerca interiore, con affermazioni sorprendenti, d’intensa spiritualità:
«25 febbraio [1918]
[…]
“Di ciò che occorre per vivere non ho, a quel che mi risulta, portato con me quasi nulla, ma soltanto l’umana debolezza comune a tutti. […]
Non sono stato condotto nella vita dalla mano del Cristianesimo, per altro già pesantemente in declino, come Kierkegaard, né ho potuto ancora afferrare l’ultimo lembo del mantello di preghiera ebraica, che già volava via, come i sionisti.
Io sono fine o principio».
Kafka attinge vertici di illuminazione mistica, con una scrittura limpida, mai ridondante, scevra da ogni riferimento confessionale. Sappiamo che era il tempo in cui il suo rapporto con l’ebraismo si approfondisce. Proprio dall’incidenza della pratica quotidiana, della meditazione, dell’introspezione, tesa ad attingere un’esperienza completa, di compiuta totalità, si comprende l’intuizione dell’unità tra il quotidiano e lo spirituale: «Nessuno, quaggiù, produce altro che la sua possibilità di vita spirituale; non ha molta importanza che, secondo l’apparenza, si lavori per nutrirci, vestirci, eccetera; il fatto è che, con ogni boccone visibile, si riceve anche un boccone invisibile, con ogni veste visibile, anche una veste invisibile e così via.
Questa è la giustificazione di ognuno».
È stato notato come le scene di sesso – non rare – in Kafka siano sempre calate in descrizioni quasi raccapriccianti. Si pensi agli amplessi di K. e Frieda nell’osteria tra pozze di birra nel romanzo Il Castello. Eppure dietro l’apparente repulsione di un sesso così sconcio avanza una provocazione, apparentemente scandalosa, che lo scrittore intuisce in uno degli aforismi di Zürau (forse una remota risonanza della dottrina frankista):
«13 gennaio [1918]
[…]
L’amore sensuale riesce a farci dimenticare quello celeste. Da solo non potrebbe farlo, ma poiché ha inconsciamente in sé l’elemento dell’amore celeste, ci riesce”.
Dunque ci riesce ed è questa la soglia innominabile del mistero, la soglia arcana di come nel mondo periclitante, destinato al tramonto, alla distruzione, è possibile esperimentare una dimensione che non svanisce, che sfugge alla fine. E qui, nel novembre 1917, Kafka attinge il vertice della sua illuminazione spirituale:
«Credere significa liberare in se stessi l’indistruttibile,
o meglio: liberarsi, o meglio ancora: essere indistruttibili, o meglio ancora: essere».
Solo pochi giorni dopo torna sull’argomento, su questa lucida apertura all’ineffabile:
«7 dicembre
L’uomo non può vivere senza una perenne fiducia in qualcosa d’indistruttibile in lui, la qual cosa non esclude che, sia tale fiducia, sia quell’elemento indistruttibile, gli possano restare perennemente nascosti.
Uno dei modi coi quali può esprimersi questo nascondimento è la fede in un Dio personale».
Così Kafka si misura anche con l’esperienza della religione personale, nel rispetto, ma anche nella consapevolezza di un’altra via, ovvero di un’esperienza esoterica, mistica, quella dell’essere, dell’indistruttibile.
La tensione dei tempi con il tramonto dell’Occidente, l’esplosione della rivoluzione in Russia, la dissoluzione ormai prossima del plurisecolare Impero degli Asburgo, la disintegrazione dell’Impero prussiano e di quello ottomano, lo sfacelo del ‘mondo di ieri’, spinge verso non impossibili scenari apocalittici. Nel 1918 Karl Kraus pubblica Die letzten Tage der Menschheit (Gli ultimi giorni dell’umanità), mentre nel 1919 esce l’antologia espressionista Menschheitsdämmerung (Il crepuscolo dell’umanità) a cura di Kurt Pinthus e tra il 1918 e il 1922 Spengler pubblica il suo Tramonto dell’Occidente. E proprio nell’asilo-esilio di Zürau, nella solitudine, nella coscienza dell’approssimarsi della fine, Kafka, ormai sempre più intimo con temi e simboli e cruciali esperienze dell’ebraismo diasporico, giunge al folgorante paradosso mistico:
«4 dicembre. Notte tempestosa, la mattina telegramma di Max [Brod], armistizio con la Russia.
Il Messia verrà soltanto quando non ci sarà più bisogno di lui, arriverà solo il giorno dopo il proprio arrivo, non arriverà all’ultimo giorno, ma all’ultimissimo».
Sono vertici e vertigini delle illuminazioni di Zürau. Il percorso è ormai tracciato e Kafka prosegue nella sua peregrinazione, ma sempre più solo. Quella esperienza che poteva essere quella degli intellettuali ebrei praghesi della sua generazione si rivela interrotta da deviazioni politiche, dalle suggestioni utopiche periclitanti del sionismo, cui avevano aderito i suoi amici, da Brod a Hugo Bergmann, compagno di liceo, primo rettore dell’Università ebraica di Gerusalemme. Kafka si confronta con un’intuizione di una pratica esoterica, ma anche con un fallimento generazionale. È il primo a comprenderne lucidamente la portata, già ai primi di gennaio del 1922:
«L’inseguimento mi attraversa e mi strazia. […]
L’inseguimento è soltanto un’immagine. Potrei anche dire ‘assalto all’ultimo limite terreno’ […].
Tutta questa letteratura è assalto al limite e, se non fosse intervenuto il sionismo, avrebbe potuto evolversi facilmente e diventare una nuova dottrina esoterica, una cabala.
Ne esistono gli spunti. Certo qui si richiede un genio incomprensibile. Che affondi nuovamente le radici nei secoli antichi o li ricrei e con tutto ciò non si doni, ma soltanto ora incominci a donarsi».
Non c’è più tempo, la malattia è irreversibile con un esito ferale sempre più prossimo. Quasi in articulo mortis sfugge dagli artigli di Praga (così aveva scritto a vent’anni all’amico Oskar Pollak), l’eterno figlio si allontana dal padre. Finalmente con una donna, Dora Diamant, una giovane ebrea orientale, si trasferisce a Berlino, la città tanto agognata da sempre. Ma è l’inverno dell’iperinflazione, ed è l’inverno più freddo che si ricordi, la febbre cresce. Non ci sono soldi per acquistare legna a sufficienza. Così ricorda quell’inverno del 1924 Dora:
«Di quando in quando diceva: «Mi piacerebbe sapere se sono sfuggito ai fantasmi!» Con questa espressione intendeva tutto quello che lo aveva tormentato prima del suo arrivo a Berlino. […]
Per liberare la sua anima da questi ‘fantasmi’, voleva bruciare tutto ciò che aveva scritto. Io rispettai la sua volontà, e, mentre era malato a letto, bruciai davanti a lui alcuni suoi lavori.
Quello che voleva scrivere veramente sarebbe arrivato più tardi, quando avesse raggiunto la propria ‘libertà’.
La letteratura era per lui qualcosa di sacro, di assoluto, di intoccabile, puro e grande».
Non ci fu più tempo per raggiungere la ‘libertà’.
Dora lo assistette fino al 3 giugno 1924.
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