Jiří Weil: Praga sempre magica
«In nome della bontà e dell’amore, l’uomo non deve concedere alla morte il dominio sui suoi pensieri». Questa è l’unica affermazione in corsivo della Montagna Incantata di Thomas Mann che segna il punto culminante della Bildung, della formazione di Hans Castorp. La funesta fascinazione della morte ha caratterizzato tutto il pensiero e l’opera di Mann al tempo delle Considerazioni di un impolitico fino alla svolta repubblicana del 1922, ma quell’ideologia ha costituito il nucleo lugubre dell’ideologia nazista e della sua nera simbolica. L’attesa di una morte inevitabile covava anche nell’angoscia di quelle masse di innocenti avviati ai convogli verso l’est, verso le camere a gas. Le storie, costellate di paura, di quelle innumerevoli schiere di ebrei che i nazisti spedivano in carri merci verso i lager hanno trovato un grandioso testimone e narratore nello scrittore ceco Jirí Weil nel suo capolavoro –veramente intramontabile – Una vita con la stella (Rizzoli, 1992) che ha una continuazione Sul tetto c’è Mendelssohn (appena apparsa da Einaudi). Entrambi tradotti magnificamente da Giuseppe Dierna, allievo di Angelo Maria Ripellino. Weil (1900-1959) è un autore emblematico della letteratura ceca del Novecento, con una biografia drammatica e meravigliosa: nato in un paesino vicino Praga da una famiglia di ebrei ortodossi, già molto giovane aderisce al partito comunista e frequenta i circoli dell’avanguardia ceca.
Si laurea in letteratura russa e così cominciano i suoi viaggi nell’Urss. Negli anni Trenta si trasferisce a Mosca come apprezzatissimo traduttore di Pasternak, Marina Cvetaeva, Majakovskij, lavora anche alla sezione ceca del Comintern, ma nel ‘35 viene spedito nell’Asia Centrale per aver criticato le purghe staliniane. Si salva in quanto cittadino ceco e viene rimandato in fretta e furia a Praga. Dalla padella alla brace: il vergognoso Patto di Monaco del 1938 consegna la Repubblica ceca a Hitler che vi instaura un regime spietato soprattutto nei confronti degli ebrei. Nei romanzi di Weil gli invasori appaiono sempre come ‘loro’. Sono opere realistiche eppure straordinariamente poetiche: per Weil la poesia vive dentro quei poveri perseguitati, tremanti alla prospettiva dei convogli della morte, curvati, umiliati da ‘loro’, eppure così disperatamente umani. Infatti la poesia irrompe nella trama dolce della quotidianità tragica, narrata con severa sobrietà, mai ridondante, sempre ironica, come osserva Philip Roth, che ha molto ammirato la scrittura di Weil.
Lo conferma la sua introduzione al romanzo. Roth è entusiasta di quel «linguaggio disadorno e disarmante della cronaca familiare. Weil aveva l’abilità di descrivere il dolore e la ferocia con estrema asciuttezza che è di per sé il più efficace commento a ciò che di più orrendo può riservare la vita». Una vita con la stella prende il titolo dalla stella gialla che gli ebrei dovevano cucirsi sui cappotti, ma è anche una vita con le stelle che il protagonista contempla e sogna. E i sogni, ‘loro’ non potranno mai invaderli. Così Josef Roubíček, il protagonista, intrattiene lunghi monologhi onirici con la donna amata, scomparsa, che lo consiglia e lo sostiene, oppure con Tomaś, il gatto soffice e indipendente, ammazzato da uno di ‘loro’, che gli appare in sogno: «Era in un paradiso di animali, in un autentico paradiso dove spingeva alcuni topi seduti su di un’altalena, li spingeva e sorrideva guardandoli. Era felice e io ero contento che fosse felice».
Lui sopravvive in una soffitta umida, dove ha distrutto tutti i mobili per non cederli a ‘loro’, avidi e assassini. Ha fortuna di non essere ancora sorteggiato per i treni per l’est, ma non sarebbe scampato a lungo, ma qualcosa alla fine si rompe quando – casualmente – dagli altoparlanti della ‘loro’ propaganda apprende la fucilazione dell’amata Ruzena.
Una voce dentro di lui dice basta e così comincia la resistenza con la vittoria sulla paura, sulla morte, che ‘loro’, con le loro divise nere, con i loro stivali neri, con i loro lugubri distintivi con teschi e teste di morto, erano riusciti a inculcargli dentro. L’amata gli appare come l’angelo, laico, della libertà, e così si conclude il romanzo: «Sì, Ruzena, adesso puoi contare su di me». Insomma, una favola con happy end se non si pensa alle centinaia di migliaia di ebrei praghesi avviati alle camere a gas. Come per Castorp la premessa della scelta per libertà è scrollarsi di dosso la fascinazione della morte. E dalla morte Weil si era salvato in modo rocambolesco.
Dapprima sposando una ‘ariana’. Ma con l’avanzamento delle retate ciò non è più sufficiente e Weil, maestro ingegnoso, inscena il suicidio: lascia una cartellina e una lettera d’addio sul bordo della Moldava e poi scompare nella clandestinità fino al crollo del Reich millenario. Nel 1945 riprende a scrivere, ma per poco, infatti dopo il colpo di stato stalinista gli è vietato di pubblicare e così il comunista si rifugia come impiegato nel Museo ebraico aspettando tempi migliori, che vengono dopo la morte di Stalin nel 1953. Può di nuovo pubblicare, ma ancora una volta per poco: muore nel 1959 lasciando un altro romanzo inedito, ora tradotto superbamente sempre da Dierna per Einaudi: Sul tetto c’è Mendelssohn. Il titolo si riferisce soprattutto all’episodio iniziale: il più potente gerarca nazista dopo Hitler e Himmler, Reinhard Heydrich, l’ideatore della ‘soluzione finale’, scopre che sul tetto del Rudolphinum, trasformato in un centro nazista, tra le altre statue di musicisti c’è quella di Felix Medelssohn, l’ebreo.
Va su tutte le furie e ordina ai suoi di buttarlo giù immediatamente. Viene incaricato un aspirante delle SS che prende due messi comunali, ordina loro di salire sul tetto (lui ha le vertigini), ma nessuno sa chi è Mendelssohn. L’aspirante SS si ricorda di una lezione di ‘dottrina della razza’: gli ebrei si riconoscono immancabilmente dai loro grossi nasi. I messi cercano e individuano una statua con un naso assai pronunciato e sono lì lì per buttarlo giù, quando l’aspirante SS si accorge dalla berretta che è la statua di Richard Wagner. Che fare? Il tempo corre e non è ammesso un ritardo. Si preleva un ‘dotto giudeo’ trascinandolo sul tetto per fargli riconoscere il suo correligionario, ma lui sa tutto del Talmud e niente di musica e di musicisti. Un autentico saggio di ironia ebraico-praghese. Accanto a questa scena di strabiliante humour si svolge la tragedia: Heydrich il quattro giugno del 1942 viene ucciso da un partigiano; si scatena la vendetta sanguinaria di ‘loro’.
Il protagonista ne passa di tutti i colori, traversando i vari ambienti della comunità ebraica perseguitata, assassinata, avviata alle camere a gas, depredata di tutto, confermando la volgare, criminale avidità dei superuomini, con la loro funerea ammirazione della morte. Raramente ‘loro’ sono stati descritti con tale precisione, che non risparmia nemmeno le viltà morali di alcune tra le vittime, commesse per un’assai improbabile speranza di salvezza dagli spietati padroni. Nella trama sono intrecciati episodi della resistenza, quella popolare, di persone ‘normali’ che non si arrendono alla brutale pratica di ‘loro’, che non indietreggiano nemmeno nel torturare e sterminare «soprattutto i bambini […] in quanto i più preziosi dal punto di vista biologico».
Certo, alla fine arrivano i ‘nostri’, i soldati dell’Armata Rossa, ma pare proprio un inchino dovuto ai nuovi padroni di Praga. Il romanzo apparve postumo, quale parergo a Una vita con la stella. L’edizione francese presenta un’appendice, un buon motivo per una ristampa completa. Eppure anche così il romanzo è un capolavoro dell’ironia degna della Praga Magica, quella sapientemente disegnata da Ripellino, di cui abbiamo di recente ricordato il centenario della nascita.