Home Video
In principio era il cinema, con il suo schermo grandissimo, le sue poltrone comodissime, il buio in sala, i cremini, le bomboniere e, ovviamente, le altre persone, con i loro colpi di tosse, i loro essere troppo basse (dietro) o troppo alte (davanti), i loro commenti alla fine del primo tempo. Ma soprattutto era l’epoca in cui lo spettacolo, prima o poi, finiva. C’era la prima visione, la seconda (che costava un po’ meno), ma dopo ancora le possibilità di vedere il film del nostro regista o attore preferiti si riducevano vertiginosamente. Rimanevano le rassegne e, tanto tempo dopo (anni), la televisione. Solo i più coraggiosi cercavano di risolvere questo problema grazie all’unico mezzo allora disponibile: il proiettore Super 8. Messi da parte gli striminziti filmini di compleanni e battesimi, gli si davano in pasto vere e proprie pizze di pellicola che, però, gli rimanevano per lo più indigeste. Le possibilità che si arrivasse alla fine del film senza che a) si spezzasse la pellicola; b) si fondesse la lampada; c) la lampada fondesse la pellicola; d) si sentisse l’audio per intero erano pari a quelle che l’attore in questione ci telefonasse di persona.
Fu così che, tra la fine degli anni settanta e i primi ottanta, per risolvere ogni frustrazione, nacque il videoregistratore. Da un punto di vista concettuale non si trattava di un percorso del tutto ovvio. Anziché migliorare la proiezione su pellicola (troppo costosa, fra l’altro) si decideva di realizzare quella che poteva essere intesa come un’emittente televisiva portatile. Certo, bisognava rinunciare allo schermo grande come un lenzuolo; ma la garanzia che non si sarebbe rotta la pellicola prima di sapere chi fosse l’assassino non era da sottovalutare. Inoltre, niente obbligava più a riprodurre il proverbiale buio in sala quando la proiezione cominciava. L’home video, insomma, nasce in linea di principio per il cinema, ma quello che propone è fin da subito qualcosa di diverso: una televisione addomesticata. Non soltanto attraverso il noleggio si poteva decidere cosa avrebbero dato in TV, ma più spesso era la programmazione televisiva a venire fissata sul nastro. Il punto è: perché non limitarsi a vedere il film “in diretta” e utilizzare il videoregistratore come un semplice riproduttore? (più tardi il DVD sarebbe nato senza la possibilità di registrare). Due importanti risposte vennero da altrettante funzioni apparentemente di minore importanza introdotte dalla Sony nel suo Betamax SL-8600 (già, Betamax, l’alternativa di qualità al VHS che non ebbe mai successo): il timer e il tasto pausa. Il primo offriva la possibilità di vedere una trasmissione televisiva anche se non si era in casa in quel momento (chiedendo, di fatto, a una macchina di vederlo per noi); il secondo di tagliar via la pubblicità, e dunque, esattamente all’opposto, obbligava a seguire con attenzione il programma. La “pulizia” della cassetta era importante per coloro che avessero deciso di crearsi una videoteca privata.
L’home video nasce con il germe del collezionismo, non della semplice visione e, si sa, per il collezionista il valore non sta in ciò che colleziona, ma nell’atto di mettere insieme, di classificare e, naturalmente, di possedere. Ma non fu il desiderio di rivedere un film, né quello di dar vita a una importante collezione, a dare la spinta decisiva alla vendita dei videoregistratori, il vero motore del successo dell’home video fu la pornografia. A quel tempo, intere aree dei punti vendita schermate da una discreta tendina erano dedicate a questo genere cinematografico che, finalmente, poteva essere fruito nell’intimità del proprio appartamento, lontani da sguardi indiscreti.
Home video però, si sa, non è solo visione, è anche produzione di contenuti, e gli anni Ottanta furono quelli in cui il video prevalse sulla pellicola anche sul fronte dei ricordi personali. Fino a quel momento le piccole cineprese consentivano di immortalare in bobine da appena 2 o 3 minuti, spesso senza neanche l’audio. Quando comparvero le prime pesanti telecamere, invece, la durata venne più che decuplicata, e cominciarono i guai. La possibilità di registrare lunghe ore e le difficoltà che si presentavano a chiunque decidesse di montare i propri video fecero sì che il “filmino” delle vacanze (degli altri) fosse presto annoverato fra le peggiori torture che un uomo potesse subire. Ore di inquadrature traballanti in attesa che il neonato sorridesse, zoomate al limite della vertigine, in grado di provocare violenti mal di mare o irresistibili accessi narcolettici, avevano in un attimo sostituito i piacevoli errori del film che, se non altro, aveva il pregio di durare poco.
È proprio a partire da questo aspetto dell’home video, quello della produzione, che vogliamo collegarci a ciò che accade oggi. Le telecamere sono ormai ovunque, nel telefono cellulare, nell’iPod, perfino nelle bambole (Barbie, ovviamente). Ma non è questo il punto. Ciò che conta è che oggi tutti questi contenuti, come si tende a chiamarli, sono gestiti digitalmente. Possono essere fruiti ovunque ci si trovi, “contagiati” a ogni genere di dispositivo, condivisi con chiunque si desideri; ma soprattutto possono essere manipolati come si vuole. Taglio e montaggio non sono più pratiche laboriose riservate a pochi. Spesso sono gli stessi dispositivi di ripresa che offrono queste funzioni. E questo perché, con la digitalizzazione, immagini e suoni diventano dati: da cui, forse, l’abitudine di chiamarli contenuti. Ma bisogna stare attenti alla prospettiva: è per il computer che sono dati; per noi filmati, fotografie, pagine web rimangono il prodotto del modo in cui guardiamo il mondo e dunque, secondo il paradosso che è proprio di ogni cultura, gli danno forma. Il mondo è come pensiamo che sia, e non per qualche oscuro meccanismo psicologico che ci rende ciechi alla cosiddetta realtà, ma perché la realtà, in quanto espressione, non può darsi se non in relazione a un contenuto. Una cultura mette in forma contemporaneamente i contenuti che articola e le espressioni alle quali li collega. Un video, allora, non è mai solo un ricordo: è il modo in cui decidiamo di ricordare. Guardarsi intorno con una telecamera in mano trasforma inevitabilmente quello che viviamo, costruisce un punto di vista nel senso più profondo del termine, ossia un presupposto a partire dal quale concettualizziamo ciò che abbiamo intorno e viviamo. È in questo senso che il video sta dimostrando di essere uno dei linguaggi chiave della contemporaneità, più della fotografia che pure è esplosa grazie al solito digitale (che ha azzerato i costi e innalzato la qualità) e più della parola che è ritornata con e-mail e sms dopo gli anni bui del telefono, in barba a quanti la davano in estinzione.
L’esplosione del video fai da te rimanda poi alla fantomatica questione dalla qualità che, parlando di tecnologia, rimane sempre un punto cruciale. In questo mercato è infatti riuscito di recente un upgrade che, per esempio, nell’ambito dell’alta fedeltà sonora non si è mai realizzato. Ci riferiamo all’HD, l’alta definizione, in rapporto al Super Audio Compact Disc (SACD), ovvero un formato che prometteva di rendere l’ascolto della musica un’esperienza perfettamente realistica. Nel giro di pochi anni abbiamo messo via i vecchi televisori a tubo catodico e i riproduttori di DVD (che nel frattempo avevano preso il posto dei videoregistratori) per Blue Ray e ultradefiniti LCD, LED etc. senza preoccuparci troppo dei costi dell’operazione. Perché? Perché abbandonare quella passione collettiva per l’Hi-Fi che aveva dominato gli anni Settanta e Ottanta per cercare una perfezione visiva di cui, come al solito, nessuno sentiva davvero la necessità? Non si tratta tanto di cercare risposte definitive a domande del genere; quanto, forse, di porre le domande nel modo corretto. Ciò che conta non è il fatto che la passione per l’alta fedeltà sonora sia scemata e invece quella per il visivo sia cresciuta, ma che l’una e l’altra si siano scontrate e continuino a farlo con tendenze opposte. Da un lato l’Mp3, la compressione audio che pregiudica inevitabilmente la qualità, e dall’altro la bassa risoluzione di telecamere sempre più tascabili. Da un lato vogliamo il massimo dalla tecnologia, dall’altro siamo abituati a immagini sgranate, fuori fuoco, come quelle che anche i telegiornali, sempre più spesso, prendono dagli amatori per accompagnare i loro servizi (attentato alle torri gemelle, rivolta in Egitto e Libia etc). Senza dimenticare, naturalmente, che con il boom dei sistemi Surround, nel frattempo, la questione dell’audio si è in un certo senso trasferita nel dominio dell’home video, trovando nuovi problemi e nuovi criteri estetici, come ad esempio la potenza tellurica dei bassi (che, naturalmente, gli audiofili aborriscono).
Infine, l’ultima novità dell’home video, sebbene non ultima in senso tecnico, sono i videoproiettori. Dopo l’abbandono della pellicola in favore del tubo catodico, tutto un insieme di pratiche si era perduto, a cominciare dal buio, che non solo impediva di fare qualcos’altro mentre si vedeva il film, ma suggeriva che la proiezione avesse luogo la sera (difficile che si chiudessero le tapparelle, a mezzogiorno, per ottenere lo stesso risultato). Con la videoproiezione tutto questo può ritornare. Il telone, il buio, la luce che anziché essere emessa dallo schermo viene da esso assorbita: si torna alla proiezione del sabato, arricchita dal suono straordinariamente definito ed efficace dei moderni impianti audio. Le condizioni tecniche per annunciare, come è stato fatto più volte, la morte del cinema ci sono tutte. A poco può, in questo senso, la recente incarnazione del 3D (come dimenticare gli occhialini blu e rossi?) puntualmente assunta anche dal mercato home. Se il cinema sta lì non è per la sua qualità, né per una terza dimensione che sempre più si autorelega a neopolpettoni a base di azione sfrenata (delusi quanti si aspettavano che il porno potesse spingere anche su questo fronte), né per i bassi supertellurici. Non è sulla tecnologia che la partita può essere giocata. Ciò che fa la differenza è la natura dell’esperienza che si realizza al cinema. La condivisione, che ci porta a ridere di un commento fuori luogo da parte del vicino, ad ascoltare un’osservazione cui non avevamo pensato, a condividere dei bon bon con i nostri compagni di visione, ma anche, e forse soprattutto, l’impossibilità di fermare la riproduzione. Il non poter tornare indietro, la coscienza che quello che è perso è perso. Compartecipazione (non semplicemente condivisione, che ai calcolatori, invece, viene benissimo) e irripetibilità sono forse i più importanti bastioni contro la rivoluzione digitale.