I racconti esemplari di Helena Janeczek
“I giovani non hanno bisogno di sermoni, i giovani hanno bisogno di esempi di onestà, coerenza, altruismo”, diceva Sandro Pertini. Le storie raccontate da Helena Janeczek in Il tempo degli imprevisti (Guanda, pagg. 240, euro 19) corrono su questo binario: un libro di racconti (sì, finalmente) su figure e affreschi cui la collettività può appigliarsi in un momento storico che per confusione geopolitica e disagio sociale assomiglia molto a quello dei primi del Novecento. Janeczek guarda a un’Italia dell’arco alpino che, in parte, lo era divenuta assai da poco (dopo la Prima guerra mondiale), attraverso personalità radicali e un contesto traballante perché sopravviveva alle conseguenze di un’industrializzazione che aveva distrutto il senso del sacro, di una guerra che aveva sollevato un polverone destinato a non scendere presto, tra rivoluzioni elettriche e di trasporti a una velocità cui l’uomo non si riusciva ad abituare. La società di oggi è simile: vive nei dettami della digitalizzazione che tutto accelera e nella globalizzazione che accentua il desiderio di nazionalismo, tra conflitti che incendiano e accerchiano l’Occidente. Ci vuole un soffio che il fuoco si propaghi.
I quattro episodi descritti da Janeczek sono in realtà piccoli romanzi corali, in cui a raccontarsi sono le comunità attraverso le voci più umili, i pettegolezzi, le lettere, gli interventi, i documenti, i discorsi e le puntualizzazioni, opponendosi fieramente al solipsismo della letteratura contemporanea attraverso un flusso poetico e politico, che imbriglia, rende vigili, fa pensare.
Il primo capitolo è dedicato alle sorelle Zanetta, Erminia, detta Ermis, e Abigaille, detta Ille, e soprattutto a quest’ultima. Due sorelle venute dalla Val Sesia in Piemonte che si qualificano tra i primi posti nelle scuole pubbliche milanesi e si avviano a insegnare in due zone centrali di Milano, dove si mischiano borghesia e povera gente in una città allora con la vocazione istintiva ad essere cosmopolita, mentre oggi la gentrificazione sta spingendo nelle periferie le fasce più bisognose.
“La” Ille, con l’articolo come vogliono i lombardi, insegna a Porta Venezia (ora il nuovo Marais milanese) che un tempo era zona di villette e media borghesia. “La” Ermis è in via Stoppani, dove vive anche il proletariato assiepato attorno alla Stazione centrale. Entrambe lavorano per una pedagogia che vuole i figli degli operai ben istruiti e cittadini. Chi sono le Zanetta, orfane assai giovani, viene spiegato dal vociare, a volte anche malevolo, del paese; mentre quello che sono diventate arriva al lettore anche tramite missive e documenti, soprattutto per “la” Ille che fa un passo in più, si fa organica nella politica, diventa un’esponente del movimento socialista delegata a importanti convegni. Femminista ante litteram, assieme ad Anna Kuliscioff, compagna di Turati, si batte e scrive per promuovere la tutela della maternità, come condizione “che non è un malanno femminile, ma la più preziosa funzione sociale”. Da Kuliscioff però poi si distacca in una lettera ipotetica, scritta da Janeczek nello stile di Abigaille (tratto da scritti e documenti) alla stessa Kuliscioff, per portare avanti il suffragio universale, che i compagni non considerano una priorità. Janeczek descrive una Milano dove il centro non è quello patinato delle grandi firme di oggi, ma un intrico di vie medievali, piene di spazzatura e di ubriaconi “mai abbastanza per non riconoscere delle gonne svolazzanti nella nebbia”. Ille prende una linea tutta sua, personale, rispetto al socialismo, ma non per questo si sente marginalizzata. È la contrarietà all’interventismo, da cui tutti paiono soggiogati, a costarle però di più: l’amore, il confino e il carcere. È l’odore della guerra che pare inebriare tutti, ieri come oggi, compresa l’Europa, che dimentica la sua vocazione pacifica. “Intendo battermi ancora con la penna, l’unica arma che sia lieta di aver imparato a maneggiare” dice Zanetta, ma qui parla anche Janeczek.
Una stagione di cura si occupa di un personaggio che fa tremare i polsi a ogni scrittore, il fascinosissimo signor K., ovvero Franz Kafka, giunto a Merano per sottoporsi alle cure di un connazionale ceco, il dottor Kohn. Janeczek usa una scrittura fisica – come fisica e allegorica è la prosa di Kafka imperniata sulla malattia che lo scava nel corpo, dalla Metamorfosi al Castello al Processo – per raccontare il soggiorno in cui K. cerca di alleviare la sua tubercolosi, che gli regala la bellezza estrema del viso tirato e fa risaltare ancor più gli occhi felini. Durante questa “villeggiatura” prende fuoco un amore epistolare con Milena Jesenská, sua traduttrice in ceco.
Una lettera con il triangolo del bordo leggermente gonfio, “come se qualcuno lo avesse inumidito per violarlo”, mette però lo scrittore in allarme, perché avverte forse l’atmosfera di sospetto antisemita che si sta gonfiando intorno. Kafka è sospettato per la sua origine, ma anche per la sua professione di “funzionario cecoslovacco benché appartenente al gruppo tedesco di religione mosaica”, e perché casualmente si trova a un presunto raduno sedizioso attorno a una statua. Si tesse una spy story – con un’ironia che ricalca quella dello stesso Kafka – che vede protagonista lo s’ciavo Pepi, venuto da Trieste, fautore di improbabili elucubrazioni. Da qui si aprono le porte a un altro luogo geografico, la Venezia Giulia, in cui avrebbe trovato sfogo la pazzia nazifascista, analizzata nell’ultimo capitolo. Ma è in questo episodio che Janeczek pensando a Kafka, che “conosce ogni variante geografica del tedesco meglio del ceco”, fornisce involontariamente una lucida analisi dell’amore che la scrittrice ha nei confronti dell’italiano, “che conosce meglio della sua lingua madre”, il tedesco. Infatti, il periodare di Janeczek è devozione verso la nostra lingua, usata con una precisione bizantina e una padronanza tale che può avvalersi di sfumature dialettali preziose e di rara bellezza per il suono (come piscinina, bubez, dondoloni). La nascita tedesca di Janeczek, con origini polacche ebraiche (di questo parlano i meravigliosi Lezioni di tenebra, premio Bagutta opera prima, e Le rondini di Montecassino), non si riesce a rintracciare né nel testo scritto, né nella sua parlata con fluenza da madrelingua e forse una leggera coloritura nordico padana.
Un’altra figura meravigliosa, Mary de Rachewiltz, figlia del sommo poeta Ezra Pound, poetessa raffinata essa stessa e animo gentilissimo, ci porta a Venezia. Chi scrive l’ha conosciuta nel suo castello in Alto Adige per intervistarla sul fondatore di Adelphi assieme a Luciano Foà, Bobi Bazlen, che passava lì le sue estati. È una creatura lieve e dolce, de Rachewiltz, di sofisticata e mite intelligenza, che le pagine di Janeczek restituiscono attraverso la nascita avvenuta all’ombra di un mitico ed enorme elefante che fu oggetto di un libro di Saramago. Figlia della violinista Olga Rudge, viene lasciata dalla madre e allevata da una famiglia di contadini della Val Pusteria. A parlarne non è la poetessa stessa, né l’altolocata e complicata madre, né il padre, ma una voce marginale, uno dei tanti suoi “fratellastri” che ha vissuto con lei, nel calore di una mamma non biologica ma piena di amore. Anche qui, con Ezra Pound si rianima il discorso politico, nel suo appoggio al fascismo, cui si ribella l’umile alveo antifascista della famiglia in cui cresce la bambina.
L’ultima parte è dedicata a Trieste, città che Mussolini scelse nel 1938 per proclamare le leggi razziali con un tripudio di folla. Si chiama Il tempo degli imprevisti questo capitolo e si parla anche e metaforicamente del bollettino meteorologico, il “Bollettino presagi”, come si chiamava ai tempi del fascismo. L’atmosfera triestina è raccontata superlativamente nelle “baberie” (pettegolezzi) che circondano le vicende di Eugenio Colorni, filosofo, politico ed eroe antifascista, professore stimato delle magistrali triestine, della sua bellissima fidanzata tedesca, Ursula Hirschmann, attivista femminista antifascista, e del fratello Albert, che divenne un brillante economista. Le persone e il tempo sono narrate dalle voci al caffè, dove tragicamente si parlava di amore di patria, coltivato soprattutto dagli irredentisti ebrei che furono ringraziati attraverso la deportazione o l’annientamento nella Risiera di san Sabba, unico forno crematorio d’Italia.
Janeczek torna al pubblico dopo aver vinto un premio Strega con un libro forte e raffinato e che, come La ragazza con Leica, vuole essere rivendicativo soprattutto dell’orgoglio femminile senza essere futilmente femminista. Ogni racconto è un ponte geograficamente concatenato all’altro, anche sul piano temporale: gli episodi si fanno da staffetta avvicinandosi alla catastrofe della Seconda guerra mondiale, tenendo viva una luce che noi dobbiamo conservare. In Vita di Galileo, Brecht fa chiedere dallo scienziato a Virginia “Come è la notte?” e quella risponde: “Chiara”. Galileo ribatte: “Bene. Così egli può vedere la sua strada”. E noi anche grazie a Janeczek.