In cerca dei nuovi narratori cinesi
Molto si muove sotto i cieli della Cina. L’impressione è quella di essere alle soglie di una stagione foriera di sorprese. Eppure trovare i nuovi autori forti da proporre al pubblico europeo ancora non è facile. Gli editori occidentali se ne sono lamentati a lungo, in questi anni, a cavallo delle ospitate cinesi a Francoforte e, l’aprile scorso, a Londra. Non in pubblico, ma in privato, si dice: I cinesi non hanno qualità: quando nasceranno le nuove stelle del panorama letterario locale?
Il paese più grande del mondo, la lingua più parlata del globo: ma i nomi che sono arrivati sugli scaffali in questi tre decenni (diciamo dalla fioritura culturale della metà anni ‘80 in poi, cioè dalle prime timide aperture di Deng Tsiao Ping) sono molto spesso nomi di autori in esilio (il premio nobel Gao XinJian su tutti, o Ma Jian, o l’apprezzatissimo - in Italia - Qiu Xiao Long. Gli scrittori che hanno scelto di vivere in Cina, e quindi forzatamente di ammorbidire la propria proposta culturale per renderla digeribile alla censura, non hanno lasciato indelebile traccia nei cuori dei nostri lettori: Mo Yan, Su Tong, Yu Hua, Bi Feyu, Yan Lianke. Col passare degli anni, ormai lontana la repressione di fine anni ottanta (piazza Tien An Men), perfino di quest’ultima si è potuto parlare con apertura, e il racconto della Rivoluzione Culturale è stato il baricentro di una produzione (una surproduzione) che non ha più visto censure. Anzi, si è avuta l’impressione che anche gli scrittori residenti in Cina abbiano sfruttato l’opportunità commerciale di un occidente disposto ad accogliere soprattutto quella tematica (ma il più grande a me sembra ancora Acheng, naturalmente lontano da ogni furberia commerciale, con la sua trilogia e il suo Re degli Scacchi che, come racconto della Rivoluzione Culturale e dei campi di lavoro, è ancora insuperato: ripubblicatelo, per favore!).
Niente da obbiettare naturalmente sulla scelta dell’esilio: ma gli emigrati spesso scrivono nelle lingue dei paesi che li hanno ospitati (per lo più l’inglese). Qiu Xiao Long è un giallista dal passo sicuro che solo di recente ha cominciato a (gli è stato permesso di) spendere due mesi l’anno della propria esistenza a Shanghai, per poi tornarsene nella residenza di Saint Louis, negli USA, dove vive da un quarto di secolo. È anche una gran persona: capace di portare al pubblico di molti festival letterari nel continente asiatico (e non solo: è passato di recente da Torino), la propria storia personale con commozione e verità, senza un filo di retorica: i campi di lavoro, la scomparsa della madre, la fuga in barca verso Taiwan. Ma i suoi pur gradevoli gialli raccontano una Shanghai da expat, da straniero. Meglio quando ambientati nei suoi anni (e nella sua memoria) giovanili, ma sicuramente deficitari in quanto a ambientazione contemporanea e attualità delle tematiche trattate (è un po’ come leggere il grande Salgari con i suoi romanzi ambientati nel Sudest asiatico, che lui non aveva mai visto in vita sua).
Allora, chi ce la racconta la Cina? Ora che la censura comincia ad ammorbidirsi, a limitarsi alle interdizioni sulle cosiddette tre T (Tibet, Taiwan, Tien an Men) e una F (la setta dei Falun Gong): li chiamano ‘temi sensibili’. Una quindicina di anni fa abbiamo visto il risveglio di una generazione dei giovanissimi: Mian Mian, Annie Baobei, o altre pietre dello scandalo che presentarono romanzi un po’ tirati sul piano sessuale, poi i cosiddetti Balinghou, cioè i nati negli anni ottanta con i romanzi sulla scuola e sulla vita dei giovani. E poi uno stuolo di scrittori di fantasy (Zheng Yu Ran “I nostri padri si sono concentrati sulla realtà, il passato, il maoismo e la repressione, ma noi vogliamo sfuggire a questa logica”). E quindi vai di cappa e spada, con una predilezione per le porte che si aprono su mondi paralleli.
È vero, in questi ultimi anni i bloggers si moltiplicano. E qui consiglierei una bella rassegna curata da China Files: Caratteri Cinesi traduce in italiano una selezione di post interessanti. Ma la gittata di un blogger cinese è in genere di breve raggio: attualità, cronaca politico-amministrativa, censura. Dalla narrativa (o da ogni forma di narrazione più corposa, saggistica o narrative non fiction o memoir) ci aspettiamo un livello di approfondimento maggiore: i libri si scrivono scandagliando la propria memoria, e non semplicemente esternando una emozione o una opinione.
Quel che mi piacerebbe, a Pechino, è riuscire in un carotaggio sulla generazione più giovane di quella dei mostri sacri, ma magari già più matura rispetto ai giovanissimi. Una generazione di scrittori nati negli anni settanta, troppo giovani per avere avuto un ruolo leader nelle settimane di Piazza Tien an Men, ma che si sono comunque formati in quel periodo (Ou Ning, oggi intellettuale in piena ascesa a Pechino, mi ha raccontato quegli anni come una sorta di anni sessanta alla francese, incontrarsi nei caffè a diciotto anni, passare le nottate a discutere di letteratura, cinema, filosofia, affrontare traversate in pullman del continente Cina per incontrare qualcuno a tremila chilometri di distanza – e bere, fumare).
Ou Ning dirige Chutzpah,rivista letteraria dedicata ai quarantenni, il cui primo editor è stato A Yi, scrittore di racconti e presto direttore di collana presso la casa editrice del poeta Shen Hao Bo. Chutzpah presenta in traduzione inglese ogni mese almeno quattro o cinque racconti.
E poi c’è il lavoro meritorio di un gruppo di traduttori inglesi, su tutti Eric Abrahamsen, che con la loro Paper Republic stanno costruendo una sorta di enciclopedia on line della narrativa contemporanea in Cina: schede, molte traduzioni disponibili, notizie.
A far da corona a questa fioritura il dibattito sulla lingua. È possibile tradurre con efficacia gli ideogrammi cinesi, i loro anomali tempi verbali, le scritture così spesso paratattiche e perfino prive di congiunzioni, frasi a volte costruite come semplici giustapposizioni di sostantivi e verbi all’infinito? E, più interessante ancora, la domanda che alcuni intellettuali cinesi porgono, in privato, a noi europei: chi l’ha detto che per comunicare nel mondo, noi, qui, si debba per forza imparare l’inglese? Non sta annunciandosi un’epoca nella quale sarà il cinese ad affermarsi come lingua franca?