Il peccato è il confronto / Invidia. Il metro di Caino
E come alli orbi non approda il sole, / così all’ombre quivi, ond’io parlo ora, / luce del ciel di sé largir non vole; / ch’a tutti un fil di ferro i cigli fora / e cuce sì, come a sparvier selvaggio / si fa però che queto non dimora.
(Dante, Purg. XIII, 67-72)
Quando ero bambino, a catechismo, un prete mi ha raccontato la storia di Caino e Abele. Di quel racconto – e della sua autorevole interpretazione – mi sono a lungo accontentato. Per me, come per tanti cattolici, la Bibbia era affare della Chiesa.
Solo molti anni dopo ho avvertito la necessità di un “libero esame” del passo della Genesi. Ho scoperto così che, per rendere più comprensibile a noi piccini la morale della foschissima favola, il buon parroco aveva prudentemente “rivisto” il racconto. Nella sua rassicurante versione, Abele sacrificava a Dio gli agnelli più belli e grassi del suo gregge, mentre Caino gli offriva solo gli scarti del proprio raccolto: di qui la ragionevole benevolenza del Signore per il pio pastore, la sua giusta collera contro il fratello infido e sacrilego.
Il fatto è che, nella Genesi, della disparità tra i due sacrifici non si fa menzione. Niente fa pensare che un sacrificio fosse più “giusto” dell’altro: le due offerte risultano equivalenti.
Questa equivalenza – ci si può chiedere – vuole presentarsi come un dato “oggettivo”, o invece intende sottilmente alludere al punto di vista di Caino, soggettivo e distorto? Non fa differenza. Ciò che conta non è tanto la disparità o l’equivalenza “effettiva” delle due offerte, quanto piuttosto il metro che Caino adotta per valutarle. Il fatto stesso che applichi un metro, che le confronti, contestando le “misure” di Dio, è l’errore che lo acceca e lo perde. Se accettassimo la versione “moraleggiante” (presente anche nella tradizione ebraica) secondo la quale il sacrificio di Caino era inadeguato, dovremmo aspettarci che il rimprovero che il Signore gli rivolge riguardi proprio questo. Invece, Dio non ne parla affatto, e Caino, da parte sua, non dà a vedere di sentirsi in colpa per avere offerto un olocausto indegno. È dall’equivalenza delle due offerte che occorre partire; è questa misteriosa, misconosciuta “uguaglianza” a conferire al racconto il senso tragico che avvertiamo.
Tanto Abele quanto Caino – così sta scritto – offrivano a Dio i frutti del proprio lavoro: “Caino fece un’offerta al Signore dei prodotti del suolo. E Abele, anche lui, offrì dei primogeniti del suo gregge e del loro grasso”. E tuttavia – leggiamo, con un brivido di sgomento – “Il Signore riguardò [guardò con favore, gradì, premiò] Abele e la sua offerta, mentre non riguardò [non guardò con favore, non gradì, non premiò] Caino e la sua offerta; Caino perciò ne fu grandemente adirato e il suo volto fu abbattuto”.
Caino non riesce ad accettare la preferenza che Dio accorda al fratello. Se si sta al testo biblico (non alla sua vulgata “moraleggiante”), è terribilmente facile comprenderlo: visto che i sacrifici si equivalgono, non dovrebbero equivalersi anche i favori di Dio?
Questa è la sfida che si presenta al primogenito di Adamo e a noi, suoi figli. Questa, la prova a cui siamo messi.
Invece di esporre paternamente a Caino le sovrumane ragioni della propria “ingiustizia”, il Signore lo provoca crudelmente, con parole che stringono il cuore e spaventano: “Perché sei così adirato e il tuo volto è abbattuto? Forse che, se agisci bene, non potrai tenere alto il tuo volto? Ma, se non fai bene, il peccato giacerà alla porta e contro di te si volgono le sue brame; però tu devi dominarlo”.
Caino non riesce a tenere alto il volto, a sollevare il viso (il visus: lo sguardo) da terra. L’esistenza del fratello, illuminata dal favore di Dio, gli è invisa: non la può proprio guardare, non può vederla. È invidus, invidioso.
Invidioso: cosa significa? Noi lo sappiamo: fin troppo bene, lo sappiamo; ma per il nostro disgraziato progenitore, l’esperienza è del tutto nuova e incomprensibile.
Che cosa gli accade? Cos’è, questa angoscia che lo sconvolge nel profondo?
È Dio, dall’alto dei cieli, a dare un nome al suo tormento. Ciò che prova – lo ammonisce – non è il legittimo sdegno per un torto subito: è una colpa, un peccato.
Caino – osserviamolo – nulla obietta. Non protesta contro l’Altissimo, non gli rinfaccia apertamente la sua iniquità, non gli chiede conto del torto fattogli. È lui il primo ad avvertire oscuramente che la sua sorda ribellione non ha i caratteri di un sentimento nobile, giusto. Il suo sdegno non gli colma l’animo del sacrosanto entusiasmo di chi ha ragione; al contrario: lo abbatte, lo deprime. La sua rivolta non ha il coraggio di manifestarsi: resta nel petto, celata come una vergogna. Ma sul volto, nei gesti, nella postura, i segni dell’amarezza affiorano irresistibilmente. Il figlio di Eva è livido, non ha gioia.
I sintomi – non c’è dubbio – sono funesti. Di per sé, tuttavia, non provano ancora che ciò che Caino sente sia un peccato. È una colpa, la tristezza? Ed essere felici, è un merito?
Abele è felice. Ma qual è il suo merito? I suoi sacrifici erano forse più puri, più santi, più devoti di quelli del fratello? No. È l’arbitraria benevolenza del Signore, non una speciale devozione, ad avergli procurato la felicità di cui gode. E Caino? Non aveva meriti?
Dio non li nega, quei meriti, ma nemmeno li riconosce. Non è di questo che intende parlare.
Il peccato di Caino, quello che lui si ostina a non vedere, non consiste nella inadeguatezza delle sue offerte. Il suo vero peccato (Dio non lo dichiara: si limita a suggerirlo) è comparare ciò che è incomparabile: la propria fortuna e quella di un altro, la vita di un uomo e quella di un altro uomo. Peccato è il confronto; di lì nasce l’angoscia che lo spingerà a uccidere Abele. Mentre Caino commisura i meriti, mentre scruta e raffronta i premi ricevuti, mentre aguzza gli occhi sul meglio e sul peggio, perde di vista il bene. Chi fa il bene – lo ammonisce il Signore – tiene alto il volto. Il primogenito di Adamo, invece, guarda rabbiosamente a terra. Calcola, valuta, soppesa (nella tradizione ebraica, Caino è anche l’inventore di pesi e misure). Vorrebbe che fosse finalmente fatta giustizia. È questo ad accecarlo, a esporlo ai morsi del peccato, che sta “accovacciato come una belva sulla soglia di casa”. La sua giustizia – la giustizia umanamente intesa – pretende di giudicare quella divina, vuole imporle il proprio metro, le proprie scadenze; si spinge fino a vedere in essa una iniquità intollerabile. Questo è, l’invidia: la disperata incapacità di comprendere l’operare di Dio, di accettare senza condizioni la Sua santa volontà.
Nella vicenda di Abele e Caino, l’aspetto religioso è predominante: si parla di uomini che offrono sacrifici, di una divinità che li gradisce o li disdegna, si parla di peccato, di castigo divino. Questo potrebbe indurci a ridurre questa grandiosa rappresentazione dell’invidia a un racconto moraleggiante, il cui senso sarebbe condizionato dai valori propri di una determinata fede. Proviamo a spogliare l’antichissima favola della sua veste biblica, proviamo a tradurla in termini laici. Al posto di Dio mettiamo la fortuna, il caso, l’opinione corrente; al posto dell’olocausto di agnelli e di mèssi mettiamo la fatica, il lavoro, gli sforzi quotidiani di ogni uomo e di ogni donna; al posto della benevolenza del Signore, mettiamo il benessere, la felicità, il pubblico riconoscimento. Così impostata, la favola appare ancora più cupa, davvero tragica.
È vero, l’invidia del nostro Caino “laico”, che non tollera i propri fallimenti e i successi del suo vicino, non è più un peccato, è solo un sentimento tra gli altri: non c’è un Dio che gli possa rimproverare ciò che sente. Ma anziché liberarlo, questo lo sprofonda ancora più in basso nell’angoscia e nel risentimento, gli fa sentire ancora più grave il peso della sua impotenza. Che se la prenda con il destino avverso, o invece con la malevolenza degli uomini, con la stoltezza della pubblica opinione, è sempre una superiore Ingiustizia a sfidarlo.
Il suo sguardo storto e risentito sulla fortuna del vicino rimane celato nel suo intimo, nessuno lo bolla come una colpa; ma Caino non riesce comunque a “tenere alto il volto”: anche senza un Dio che la condanni, la sua tristezza resta un tormento; il suo abbattimento, anzi, è ancora più disperato.
Come può guarire da questo male? Dove sono le radici della sua rabbia, della sua disperazione? Perché soffre, l’invidioso?
Soffre perché il bene che ha fatto (che presume di aver fatto) non gli ha procurato ciò che si aspettava: un bene ulteriore, corrispondente al valore del suo fare, anzi maggiore. L’invidioso concepisce il bene come adeguata ricompensa di uno sforzo, come risultato finale di un lavoro che buono è solo in subordine, in quanto mezzo per ottenere l’oggetto a cui aspira. Caino è un lavoratore. La sua non è una preghiera, non è un’offerta: è un’opera realizzata in vista di un vantaggio, di un adeguato tornaconto (sia pure immateriale, morale). La fatica che quest’opera gli è costata gli sembra enorme, mentre in quella dell’altro non avverte traccia di sforzo. Se ripensa al proprio sacrificio e lo paragona a quello del suo rivale, il premio che questi riceve, ai suoi occhi, è vergognosamente immeritato.
L’invidia svanirebbe, se l’invidioso si accontentasse del proprio giudizio, della bruciante certezza dalla quale si è originato il suo sdegno: la fatica e l’opera sua valgono quanto quelle del vicino, se non di più. Il fatto che non vengano premiate non dovrebbe diminuirne, ai suoi occhi, la dignità e il valore. Ma l’invidioso è incapace di prestar fede al proprio giudizio; questa è la sua sventura: il giudizio del mondo è per lui talmente autorevole, talmente divino, che egli non può fare a meno di dubitare della qualità della propria opera spregiata, e anzi di spregiarla a sua volta rabbiosamente, in segreto, mentre quella altrui – per quanti sforzi egli faccia al fine di sminuirla – comincia a sembrargli terribilmente buona, illuminata com’è dalla grazia del pubblico favore.
Se l’invidia fosse un peccato, se ci fosse un Dio a condannarla, l’invidioso potrebbe liberarsene confessandola, ammettendo la propria colpa, purificandosi. Ma qui – lo abbiamo detto – stiamo parlando di un invidioso senza Dio, senza colpa, senza perdono. La sua sofferenza non ha vie d’uscita. L’invidia si rivela come il sentimento più doloroso, più inconfessabile. Analizzando e confrontando la natura dell’odio e quella dell’invidia, Plutarco osserva che “alcuni ammettono di odiare molte persone, ma sostengono di non invidiare nessuno” (L’invidia e l’odio, D’Auria, Napoli, 2004, p.85). Eppure, l’invidia è uno dei sentimenti più propri dell’uomo: Plutarco fa notare che mentre il nostro odio può investire anche gli animali, l’invidia è pensabile solo tra un uomo e un altro uomo. E aggiunge: “Tra gli animali selvatici invece non è probabile che sorga invidia reciproca (dato che non hanno idea della buona o cattiva fortuna dell’altro, né li tocca la presenza o l’assenza della gloria, motivi dai quali l’invidia è inasprita al massimo grado)” (p.83). Un cervo e un altro cervo potranno competere, affrontarsi, conquistare o perdere femmine e territorio, ma non potranno invidiarsi. L’invidia sorge nell’uomo grazie alla sua essenziale capacità di andare oltre la mera fattualità, e di riconoscere il simbolico (la gloria, l’ammirazione, la pubblica approvazione). Che un uomo sia invidioso, dunque, è la prova più certa della sua umanità. E tuttavia, “Gli uomini (…) negano di provare invidia, e qualora si provi loro il contrario, adducono innumerevoli giustificazioni, dicendo di provare ira o paura o odio per l’uomo in questione, ricoprendo e nascondendo il nome della passione con qualsiasi altro capiti loro in mente diverso dall’invidia, come se tra le malattie dell’anima questa fosse la sola a non poter essere nominata”.
Superbia, ira, lussuria, gola, avarizia, accidia, sono altrettanto riprovevoli, ma nessun affetto umano è amaro quanto l’invidia. Amaro, e funesto, e contagioso.
In una lettera a Dario, re di Persia, che lo aveva invitato alla sua corte offrendogli onori e ricchezze, Eraclito motiva il proprio rifiuto dichiarando tra l’altro di astenersi, per principio, dalla brama e dall’ambizione che accecano gli altri uomini, e di fuggire “la sazietà [la soddisfazione, la gloria] che è legata all’invidia” (kai koron feugon panti oikeioumenon phthonoi).
La sua spiegazione può sorprendere. Perché mai ci si dovrebbe guardare dal suscitare l’invidia altrui? Non è forse, la gelosia degli uomini, il segno più certo del nostro valore, la naturale conseguenza del suo riconoscimento? Non è anche per il sottile piacere di essere invidiati che ci battiamo per ottenere il successo? Eraclito la pensa diversamente. Essere invidiati – ci insegna – è doloroso quanto lo è invidiare. Se non è accecato dalla propria vanità, chi avverte su di sé l’occhio storto dell’invidioso fatica a goderne. L’effetto di quello sguardo maligno non è soltanto di generare allarme e inquietudine. Il malocchio è un fluido venefico che contamina il bene, lo deforma, lo riduce a cosa, a un oggetto che si possiede strappandolo ad altri. Nelle mani dell’invidiato, la contentezza che il bene genera si sporca, si adombra di alterigia, di superbia; il valore e il suo riconoscimento appaiono come l’odioso privilegio di un singolo.
Nello Zibaldone [3778], Leopardi osserva che l’invidia, passione antisociale per eccellenza, nasce non nella “società scarsa e larga destinataci dalla natura” – dove tende piuttosto a prevalere la solidarietà – ma in quella che egli chiama “società stretta”, insomma nell’ambito della convivenza civile caratteristica dell’età moderna. Nella “società stretta” gli uomini vivono uno di fronte all’altro, le loro esistenze si espongono ogni giorno allo sguardo altrui. La loro sorte – buona, grama, mediocre – è in pubblico. Il Pubblico è il dio di questi uomini serrati uno contro l’altro, il giudice sommo del loro bene, del loro male. L’invidia serpeggia da una finestra a un mercato, da un teatro a una bottega, fino alla piazza principale. La Città è il terreno ideale dell’invidia.
Oltre che primo assassino, Caino è il primo fondatore di città. L’invidia – ci suggeriscono le Scritture – non è solo un sentimento individuale, il peccato di un singolo: è l’oscuro fondamento di ogni socialità, di ogni società. La civiltà stessa, così com’è, è fondata sull’invidia, cioè sul perpetuo confronto tra gli uomini, sul sentimento di un’uguaglianza comparativa, sul bene inteso come felicità individuale, benessere da soppesare e misurare, tesoro di cui impossessarsi.
Alla radice della polis greca, il giovane Nietzsche vede proprio l’invidia, la “seconda” Eris (Discordia), la Eris “buona” che Esiodo nomina ne Le opere e i giorni:
Il Greco è invidioso, e non sente questa proprietà come un difetto, bensì come azione di una divinità benefica: quale abisso fra il nostro giudizio etico e il suo! Poiché è invidioso, egli sente anche – ogni volta in cui gode di un eccesso di onore, di ricchezza, di lusso, di felicità – che su di lui si posa l’occhio invidioso di un dio, e teme questa invidia; in questo caso egli si sente richiamato all’instabilità di ogni sorte umana, inorridisce di fronte alla propria felicità e, sacrificandone la parte migliore, si piega di fronte all’invidia divina” (La filosofia nell’epoca tragica dei Greci, p.121)
Ma l’invidia non è solo “buona” discordia, positivo spirito di emulazione, argine ad ogni umana hybris: è anche la fonte del risentimento dei diseredati nei confronti dei privilegiati (germe di quella che Nietzsche chiama “morale da schiavi”), dei contrasti tra popoli, tra classi. Un’intepretazione “sociale” della favola di Caino e Abele si ritrova persino in Baudelaire con toni insoliti, da barricata: “Race d’Abel, dors, bois et mange;/ Dieu te sourit complaisemment. // Race de Caïn, dans la fange/ rampe et meurs misérablement”. La fiera requisitoria contro Abele e i suoi immeritati privilegi si conclude con un incitamento alla rivolta: “Race de Caïn, au ciel monte/ et sur la terre jette Dieu!”. Sulla scia della tradizione romantica, il Caino di Baudelaire è un Titano umiliato, un Prometeo che per liberare l’umanità deve dare l’assalto al cielo, sopprimere quel Dio che ha provocato l’uomo con il suo arbitrio.
Anche senza Dio però – ne abbiamo ragionato – l’invidioso non è comunque libero dall’amarezza che lo tormenta. Il peso dell’invidia non deriva dal fatto che qualcuno la condanni come un peccato. L’invidioso soffre, perché è incapace di concepire il bene se non come premio, come risultato. Nella sua misera prospettiva, l’opera buona può portare al successo, ma è anche esposta al fallimento. Il suo sguardo ansioso è tutto teso a calcolare quanta felicità sia toccata a lui e quanta al suo simile. Questo sguardo guidato da un disperato senso di giustizia, questo sguardo che insegue il miraggio della felicità, è senza gioia, è sempre più lontano dalla gioia.
Gioia, felicità. I due termini sembrano sinonimi, ma forse le nostre riflessioni sull’invidia hanno già messo in luce alcune differenze significative. Cerchiamo di approfondirle.
La felicità è strettamente legata alla volontà: è l’oggetto di un desiderio, il risultato sperato di uno sforzo cosciente dell’individuo; la gioia è una sensazione –involontaria, quasi impersonale – di pienezza, di forza, di entusiasmo. Entrambe –felicità e gioia – sono moventi del nostro operare umano; ma chi opera in vista della felicità è inquieto, insoddisfatto: si muove nell’ansia, nell’incertezza del suo premio; quando anche ottenga un risultato, sarà sempre spinto a valutarne la consistenza, l’adeguatezza agli sforzi fatti, a confrontarlo con le proprie aspettative, con i risultati altrui. L’operare mosso dalla gioia, invece, non insegue un obiettivo: parte da una certezza. La gioia è la sua origine, non il suo fine. La gioia è un’esperienza che ci accade, non l’oggetto della nostra volontà, della nostra brama. Chi opera per gioia, potremmo dire, ha già ricevuto il premio: è il premio a muoverlo.
Parlare di premio, tuttavia, è ancora inappropriato: un premio è sempre commisurato allo sforzo di cui è ricompensa. La gioia, invece, è smisurata, incommensurabile. È un dono immotivato, senza rapporto alcuno col nostro merito. Un dono sovrabbondante, traboccante, che ci spinge a condividerlo, a donare.
Chi opera in vista della felicità, parte dall’idea di una uguaglianza di principio fra gli uomini. Proprio questa idea, che a noi moderni appare sacrosanta, è ciò che induce al confronto, e infine all’invidia. Se gli uomini sono uguali, anche le loro quote di felicità dovranno esserlo. Quando non lo sono, ci si trova di fronte a un’ingiustizia: la felicità è un bene limitato, quella di uno è tolta all’altro. Che sia Dio a commettere questa ingiustizia, che siano le circostanze storiche, economiche, sociali, che sia lo Stato, il caso, la fortuna, Caino vorrà sempre opporle il suo metro, la sua giustizia. Ma – lo abbiamo visto – questa giustizia è impotente a fare ciò che pretenderebbe. Scrutando il meglio e il peggio, ha perso di vista il bene. Più acutamente spia il proprio simile, per smascherarlo, meno lo vede. Lo sguardo che calcola e misura non è capace di guardare davvero Abele; è uno sguardo abbattuto, cieco, disperato. Solo la gioia permette, a chi se ne lascia invadere, di vedere il bene, proprio e altrui, di guardare al proprio simile non come a un uguale da guatare con sospetto, ma come a un altro da contemplare e custodire. Solo la gioia – gratuita, incomparabile, inesauribile – se sappiamo attenderla, ascoltarla, ci permette di oltrepassare l’invidia, di uscire dalla penosa meschinità del metro, del confronto e del calcolo, ci permette di donare ciò che ci è stato donato, ciò che siamo, senza altro premio se non la forza che ci muove.