La chiesa dei poveri
Dopo avere occupato per secoli il pensiero di economisti e riformatori sociali di varia scuola, la questione della povertà, sembrava essere stata definitivamente superata nei Paesi Occidentali grazie ai successi economici senza precedenti raggiunti dal secondo dopoguerra in poi. La crisi economica che sta scuotendo l'Europa, e l'immigrazione massiccia di gente che fugge da situazioni disperate in diverse parti dell'Africa e del Medio Oriente cercando scampo nel Vecchio Continente, hanno ridato centralità al tema della povertà e dei poveri. Da sempre la Chiesa li assiste e li soccorre, da quando non esisteva neppure l'idea di stato sociale, e lo fa ancora oggi mentre lo Stato, divenuto nel frattempo stato sociale, sembra non averne più le risorse o la capacità.
L'altra faccia della povertà, è la ricchezza. Nel mondo cristiano è stata percepita sempre in modo ambivalente: da un lato l'amore per i poveri non è stato mai privo di una certa diffidenza, dall'altro quello per i ricchi ha sempre nascosto una buona dose d'invidia e lo stesso tipo di diffidenza nutrita verso i poveri, ma ovviamente per motivi opposti, fino a certe correnti protestanti che, nel voler prendere la Bibbia alla lettera – cosa rischiosa e quanto mai discutibile –, consideravano la ricchezza, così come la salute e la bellezza, segni di elezione e di salvezza. Secondo questi principii, invocati come base di una teoria della predestinazione, Dio deciderebbe per ragioni imperscrutabili, chi salvare e chi dannare, e la ricchezza esteriore (il successo, la salute, ogni cosa bella, insomma) sarebbe il segno esteriore di una predilezione divina che garantisce a chi ne gode di appartenere alla schiera dei salvati. Una lettura che avremmo detto ormai superata ma che, invece, sembra aver ripreso nuove forme e vigore in Sud America, sostiene la teologa Corinne Lanoir, secondo la quale "il neoliberismo è anche una forma di religione" (intervista rilasciata al Manifesto il 17 ottobre scorso).
Che la povertà e il rapporto tra ricchi e poveri stiano tornando tema attuale, trova conferma nella scelta del cardinale Jorge Bergoglio, primo nella storia della Chiesa ad assumere, salendo al soglio pontificio, il nome di Francesco, "il poverello di Assisi", il santo povero e dei poveri per eccellenza. Lo stesso Bergoglio, nell'esortazione apostolica Evangelii Gaudium, ha dichiarato: “Desidero una chiesa povera per i poveri"; tuttavia, nella stessa esortazione, ha ribadito con fermezza il dovere di tutti i cristiani di lottare contro la povertà. È naturale, allora chiedersi: come si può volere la povertà e incitare a combatterla? O perché dovremmo volere essere poveri, quando Dio è fonte di ricchezza? Se ci vuole poveri, perché allora combattere la povertà in suo nome? E se ci vuole ricchi e felici, perché allora amare la povertà?
Il tema è complesso e variegato, ma un saggio breve e denso del teologo e biblista Carmine Di Sante intitolato La Chiesa dei poveri e pubblicato dall'editrice Qiqajon nella nuova collana economica "Scintille", può aiutarci a percorrerlo. L'autore inizia con il constatare che "il discorso di Gesù sulla montagna, la Magna Charta dei suoi seguaci, è attraversato da una contraddizione di non facile soluzione". Gesù, infatti, vi proclama beati i poveri perché a loro apparterrà il regno dei cieli, e la Chiesa, recependo pienamente tale messaggio si reclama, con Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano II, Chiesa dei poveri. Nello stesso tempo, e con sempre maggiore forza, chiede al mondo intero di combattere ogni forma di povertà. A questo punto, sostiene Di Sante, viene inevitabile la domanda: "La povertà è un bene da custodire o un male da eliminare?". Per rispondervi è necessario chiarire chi sono i poveri, Di Sante continua, e lo fa partendo dalla "semantica della povertà nell'orizzonte biblico".
Per noi ricchezza e povertà sono categorie economiche; la Bibbia, invece, non concepisce tale dualismo. L'uomo non ha un'anima e un corpo, come il cristianesimo ha insegnato per molti secoli, influenzato dal pensiero greco, ma è un'anima e un corpo. Allo stesso modo, non c'è separazione tra le dimensioni della sua vita – economica, spirituale ed etica. Avere ed essere non si contrappongono, tanto che nell'ebraico biblico, come nelle altre lingue semitiche, la parola avere non esiste. Per comunicare un'idea di possesso bisogna ricorrere all'espressione: c'è per me, evidenziando in questo modo più un uso che un possesso. In altre parole è come dire di una cosa che non mi appartiene pienamente, posso però usarla.
Yuriy Norshteyn, Tales of tales
Per comprendere la percezione di sé dell'uomo biblico, Di Sante si sofferma in modo particolare sul mito della creazione proposto nella Genesi. Collocato all'inizio della Bibbia benché non sia il primo a essere stato scritto, il libro racconta le origini del mondo e dell'essere umano, ovviamente dal punto di vista del suo o dei suoi autori. Ne emerge una visione del mondo secondo la quale l'identità dell'uomo può essere intesa soltanto all'interno di una dinamica di dono anziché di possesso, come hanno del resto rilevato altri studiosi tra i quali Martin Buber, Emmanuel Levinas e Luigi Pareyson. La visione biblica del mondo è che tutto è fatto per l'uomo, ma niente gli appartiene; l'uomo può usare ogni cosa, ma niente è suo, né per sempre né senza limiti. Il divieto di cogliere i frutti di uno solo tra tutti gli alberi presenti nel giardino dell'Eden rappresenta proprio questo non potersi appropriare di tutto, la necessità di porre un limite ai propri desideri. Il giubileo che ogni cinquant'anni ridistribuisce la terra – perché del Signore è la terra e quanto contiene –, la regola di lasciare il terreno incolto ogni sette anni e il riposo del settimo giorno, intendono ricordare all'uomo certamente la sua condizione di libertà, ma anche la sua posizione di custode e ospite in un mondo che non gli appartiene.
L'etica biblica, dunque, si fonda su un'alleanza tra Dio e gli esseri umani per il bene del mondo e di ogni vivente, in virtù della quale Dio non provvede direttamente, ma ha delegato a noi la cura del mondo e agli uni quella degli altri. Ecco allora che, se gli uomini negano e rifiutano il loro ruolo e la loro responsabilità spezzando quell'alleanza che aveva trasformato l'essere umano "da naturale a etico, da identitario a responsabile", il rapporto col mondo diviene alienato e ingiusto. L'arroganza e l'avidità di alcuni causa la miseria di altri. È questa la povertà maledetta di cui l'uomo biblico è consapevole, contro la quale inveisce e da cui implora Dio di liberarlo. Conseguenza della nostra libertà di agire ingiustamente, essa non dipende dalla volontà di Dio né da una necessità naturale, ma affonda le sue radici nell'egoismo individuale, nel desiderio di possedere solo per se stessi rifiutando di riconoscere al contempo la propria responsabilità. E' questa la povertà che la Bibbia e la Chiesa condannano e contro cui sono chiamati a combattere gli uomini di buona volontà – quelli che vogliono il bene del mondo.
La povertà su cui Cristo invoca una benedizione, e che la Chiesa considera suo statuto, è ben diversa. Per descriverla Di Sante evoca la situazione del bambino in braccio alla madre: piccolo e bisognoso di tutto, riceve quanto gli serve, e molto di più, dalla madre che lo ama. Non ha autonomia né produttiva né operativa, ma proprio per questo è aperto all'amore. Povero è chi si sente tale davanti a Dio. Piccolo, non autosufficiente, bisognoso e pronto a ricevere con gratitudine, conosce la propria fragilità, la vede nel prossimo e se ne fa carico per quanto può.
Il discorso della montagna da cui era partita la riflessione del biblista, viene riportato in modo leggermente diverso dall'evangelista Luca e da Marco, la cui versione rende più chiaramente il senso della benedizione del Cristo. Secondo Luca, infatti, Gesù proclama "Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio…", mentre nel Vangelo di Matteo si dice: "Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli". In questa versione è reso esplicito ciò che nell'altra è sottinteso: che la povertà non è tanto una condizione materiale, quanto un atteggiamento di umiltà e fiducia, perché “il misero non sarà mai dimenticato, la speranza dei poveri non sarà mai delusa" (Sal 9, 19).
Luca, medico proveniente dal mondo greco pagano secondo la tradizione, e discepolo di Paolo, considerava la povertà in modo leggermente diverso da Matteo, come Gesù ebreo e profondamente immerso nella sensibilità e nella cultura del Primo Testamento. Ciò da cui tutto origina, nell'universo biblico, è il dono; la logica che lo governa è quella della gratuità. La condanna di Gesù, come quella dei profeti prima di lui, non è per la ricchezza in se stessa, ma per la ricchezza accumulata solo per se stessi. In questa prospettiva, conclude Di Sante, dire chiesa dei poveri vuol dire innanzitutto una Chiesa che custodisce e comunica al mondo la coscienza che tutto è dono e deve essere "condiviso nella responsabilità solidale". Una Chiesa che "ha l'obbligo – come ha scritto Papa Francesco nella Evangelii Gaudium – , in nome di Cristo, di ricordare che i ricchi devono aiutare i poveri, rispettarli, promuoverli". Con buona pace di chi vorrebbe ridurre tutto a una questione di soldi.