Knowing the Score / L’insostenibile leggerezza dello sport
La ‘filosofia del frivolo’ (del vino, della moda, del telefonino…) risale almeno agli anni Sessanta, quando diversi intellettuali cominciarono a trasgredire le barriere tradizionali fra cultura alta e bassa. Nell’arco di pochi anni Heidegger che medita sull’essere camminando solitario nella Foresta Nera, o Wittgenstein rinchiuso nella baita affacciata sui fiordi norvegesi diventarono icone del passato. Il filosofo serioso che si vanta di non ascoltare musica pop o di non seguire il campionato di calcio viene oggi visto (giustamente) come uno snob indifferente alla cultura e alla società del suo tempo.
Fra i best seller della filosofia del frivolo spiccano diversi libri dedicati allo sport. L’ultimo della serie, Knowing the Score (Basic Books, 2017), è stato scritto da un filosofo noto e rispettato, David Papineau, autore di numerosi articoli e libri sul realismo scientifico, il naturalismo, e la filosofia della mente. Papineau è particolarmente tagliato per scrivere un libro del genere: tennista, giocatore di cricket, golfista, velista e surfista indefesso, scrive con l’entusiasmo dell’amatore, senza peraltro soffrire di preconcetti nei confronti dello sport professionistico. Anzi, è evidente che Papineau ha trascorso centinaia di ore davanti alla televisione per assistere a finali olimpiche, mondiali di calcio, partite della NFL, di hockey, baseball, football australiano, e altro ancora.
Considerando che ha anche dedicato del tempo alla filosofia ‘seria’, immagino che i suoi famigliari lo abbiano visto raramente nel corso degli anni.
La filosofia del frivolo segue solitamente un paio di copioni classici: il primo applica concetti o problemi filosofici seri a un soggetto frivolo, per mostrare che ci aiutano a vedere diversi aspetti della vita quotidiana in un’ottica nuova. Il secondo schema invece consiste nel mostrare che un soggetto apparentemente frivolo nasconde problemi filosofici peculiari e degni di attenzione. Il sottotitolo di Knowing the Score (What sports can teach us about philosophy and what philosophy can teach us about sports) suggerisce che Papineau segue entrambi i copioni. I primi capitoli per esempio discutono l’importanza del controllo mentale sull’azione motoria, un problema centrale nella filosofia della mente che riveste una particolare importanza in ambito sportivo. Più avanti Papineau spiega come i modelli di decisione razionale siano fondamentali per comprendere gli sport di squadra come il calcio e il ciclismo. In un altro capitolo discute i problemi morali sollevati dai comportamenti scorretti nelle competizioni sportive. E in un altro ancora mostra come l’applicazione delle regole da parte degli arbitri sollevi importanti questioni ontologiche riguardanti l’esistenza di fatti ed entità sociali.
Per esempio: quando nel 1986 Maradona segnò contro l’Inghilterra con l’aiuto della mano de Dios, fece davvero gol? Anche se tutti i tifosi concordano che si trattò di un gesto irregolare, molti di essi sono attratti dalla cosiddetta ‘dottrina di Boskov’, secondo la quale ‘è rigore quando arbitro fischia’. Ma allora perché i calciatori che ingannano deliberatamente gli arbitri – i tuffatori in area di rigore, per esempio – possono essere sanzionati dopo la partita? Presumibilmente, perché ne hanno falsato il risultato. Ma questo non implica che Maradona non fece davvero gol contro l’Inghilterra? Applicando il principio del terzo escluso di Aristotele, Maradona non può contemporaneamente avere e non avere segnato un gol: dobbiamo chiederci dunque che cosa sia un gol, che cosa succede quando le regole di un gioco sono state trasgredite, e se talvolta ha senso dire che i giocatori hanno cambiato la natura del gioco (pare che il rugby sia nato così).
Devo ammettere che alcuni tentativi di utilizzare lo sport per illustrare problemi metafisici appaiono un po’ legnosi a un filosofo professionista (vedi per esempio il capitolo otto sull’identità personale), ma i capitoli dedicati a ciò che lo sport può insegnare alla filosofia sono invece molto belli. Il mio pezzo preferito appare in chiusura, quando Papineau affronta una domanda fondamentale: perché esiste lo sport? A che scopo milioni di persone passano ore correndo dietro a una palla, scivolando sul ghiaccio e sulla neve, nuotando o galleggiando, colpendo una pallina con un bastone – insomma facendo un sacco di cose inutili e difficili? Papineau rifiuta la teoria, elaborata da Bernard Suits, secondo la quale l’essenza dello sport consiste nel perseguire scopi inutili, superando ostacoli artificiali che sono stati creati soltanto per aumentare la difficoltà dell’impresa. Secondo Papineau questa teoria è vera per i giochi, ma non per lo sport in generale: nonostante molti sport siano anche dei giochi, infatti, altri non lo sono. Bisogna dunque cercare una diversa teoria in grado di spiegarne la natura e gli scopi.
L’idea di Papineau è che lo sport consista nell’esercizio di un’abilità fisica fine a se stessa. Questa teoria ha il vantaggio di applicarsi a tutti gli sport – come la corsa, o il nuoto – che consistono quasi esclusivamente di una performance atletica, che possono essere praticati anche senza scopi competitivi, e che non richiedono regole elaborate o la creazione di ostacoli artificiali. Molti di questi sport ovviamente possono essere anche trasformati in giochi, ma secondo Papineau si tratta in questo caso di una variante, piuttosto che dell’essenza dello sport stesso.
Questa teoria ‘atletica’ permette a Papineau di sostenere che l’attività sportiva ha un valore intrinseco, ovvero che è possibile fare sport per il gusto di farlo, senza motivi o obiettivi ulteriori. Questa teoria può sembrare contro-intuitiva: molte persone infatti fanno sport per mantenersi in salute, o per ragioni estetiche, o addirittura professionali. Ma come sa bene ogni sportivo, c’è una soddisfazione particolare nel compiere un gesto atletico in modo corretto, nel misurare e migliorare le proprie capacità, per non parlare del godimento da endorfina provocato dal semplice esercizio fisico. La teoria atletica permette inoltre a Papineau di rifiutare quegli approcci che legano lo sport in maniera troppo stretta con la competizione – le teorie alla Boniperti, per dire, secondo le quali ‘vincere non è importante, è l’unica cosa che conta’.
Anche se penso che Boniperti avesse torto, la teoria di Papineau non mi sembra del tutto convincente. La ragione principale è storica e sociologica: l’homo sportivus è il prodotto recente di una cultura specifica. Anche se possiamo trovare nel passato qualche antecedente, sia a Oriente che a Occidente, non c’è dubbio che la stragrande maggioranza degli sport contemporanei sia nata in Europa o negli Stati Uniti nella seconda metà dell’Ottocento. La loro diffusione è spiegabile in parte con la crescita del benessere e la liberazione dai lavori manuali che tenevano impegnati i nostri antenati per gran parte della loro (breve) vita. Ma allo stesso tempo, è plausibile che l’esercizio sportivo risponda in parte all’esigenza di educare i giovani a una sana e pacifica competizione, in un mondo meno violento e più democratico di quello dei nostri antenati.
Potremmo chiamarla la ‘teoria democratica’ dello sport. Ci sono molte ragioni pedagogiche per praticare e diffondere lo sport: lo sport ci insegna a condividere le gioie della vittoria e i dolori della sconfitta. Ci aiuta a dissociare la sconfitta dall’umiliazione, a limitare la competizione per mezzo di regole, a incanalare l’aggressività e a esercitarla rispettando gli avversari. Non mi sembra casuale che l’ascesa dell’homo sportivus sia avvenuta di pari in passo con quella dell’homo democraticus. Concordo con Papineau che sia teoricamente possibile praticare lo sport come un fine in sé – ma allo stesso tempo la maggior parte degli sportivi è chiaramente guidato dal desiderio di realizzare obiettivi estrinsechi, siano essi la vittoria in un torneo o la scalata di una montagna. La competizione, con se stessi o con altri, è un elemento ubiquo dell’attività fisica.
La regolazione dell’aggressività umana (o forse, chissà, solo maschile) è un tema inesplorato in Knowing the Score. È un peccato perché ci sono diverse analogie con l’esercizio di un’altra attività prevalentemente maschile, ovvero la filosofia stessa. Concludo con un aneddoto: David Papineau è stato tempo fa uno dei miei insegnanti al King’s College London. Il ricordo più vivido del suo corso di filosofia della scienza riguarda un tutorial nel corso del quale Papineau fece letteralmente a pezzi un saggio del quale andavo particolarmente fiero. Ovviamente non c’era partita fra un professionista al top della carriera e un giovane alle prime armi. Ne uscii parecchio umiliato e arrabbiato. Poche settimane dopo, tuttavia, Papineau mi chiese se mi sarebbe piaciuto proseguire gli studi di dottorato al King’s sotto la sua supervisione. Fui colto di sorpresa e ovviamente dissi che ci avrei pensato, ma poco dopo decisi di accettare l’offerta di un’altra università.
Consumai così una piccola vendetta, ma col senno di poi mi rendo conto che Papineau mi aveva dato una bella lezione. Durante quel tutorial aveva preso sul serio la partita e aveva giocato come se fossimo ad armi pari. Ovviamente mi aveva battuto, ma forse non avevo perso così male. Da pivello poco abituato al confronto intellettuale avevo vissuto quell’esperienza come un affronto personale. Ma allora non sapevo di avere a che fare con un grande sportivo, oltre che con un bravo filosofo.