L'interluogo di Augé. La vecchiaia non esiste

7 Novembre 2014

Anche Marc Augé ha deciso di proporci la sua lettura della vecchiaia con un piccolo libro intitolato Il tempo senza età. La vecchiaia non esiste (Raffaello Cortina, Milano 2014). La sua è una vecchiaia considerata come una sorta di – lo dico impudentemente alla maniera di Marc Augé – interluogo tra il tempo e l’età, una zona dai contorni sfumati nella quale ciascuno di noi, a seconda della sua indole e delle circostanze della sua vita, è più o meno libero di scegliere se propendere più dalla parte del tempo o dalla parte dell’età.

 

Marc Augé, Il tempo senza età

 

Ma prima di addentrarci tra gli argomenti del libro vorrei marcare il fatto che ancora una volta le riflessioni sulla vecchiaia provengono da fuori, dagli altri, dai paesi dove il problema non si pone con l’evidenza quantitativa con cui, invece, l’Italia deve confrontarsi. Uno dei due paesi più vecchi del mondo (l’altro è il Giappone) mostra ancora di non sapersi dare una consistenza critico-teorica sul fenomeno che ne sta fortemente condizionando i destini economici, sociali e culturali. E’ così da molto tempo. In un inventario che mi è capitato di fare qualche anno fa della letteratura generalista sulla Terza età (poi utilizzato in Come Tomà. Diario di viaggio nell’età d’argento, Zona, 2005), la presenza di contributi italiani era sconfortante.

 

Quasi dieci anni fa bastava mettere insieme i titoli dei libri generalisti sulla vecchiaia usciti in Italia dal 1971 per rendersi conto di quanto poco avesse fatto e stesse facendo la società italiana per se stessa. Nel novembre 2005 i titoli non superavano, largheggiando, la trentina. Ma considerato che almeno una decina di essi erano di autori stranieri, il panorama era ancora più desolante.  C’era persino il caso di una nota grande casa editrice che aveva riproposto lo stesso libro a quattro anni di distanza dalla prima edizione limitandosi a rinnovare il titolo! Dunque, più o meno un libro all’anno, a fronte di circa centocinquanta novità librarie quotidiane (calcolando per difetto).

 

Oggi i titoli sono circa una quarantina: significa che il ritmo della riflessione in Italia non è sostanzialmente variato e gli stranieri continuano a essere ritenuti un riferimento. Credo che un maggiore e preciso impegno culturale vada esteso anche a questi territori, prima che la fisionomia “genetica” della nostra (nel senso di italiana) società prenda direzioni non più governabili (sono di pochi giorni fa le notizie fornite dal Rapporto SVIMEZ 2014 sullo stravolgimento demografico che si profila nel Sud Italia per i prossimi decenni). Lo pensavo dieci anni fa, ma vale ancora oggi: dire che c’è un ritardo, un vuoto, è un puro pericoloso eufemismo. L’unico dato oggettivo su cui accettare una seria discussione a me sembra quello dell’urgenza: noi non dovremmo perdere un solo minuto a fare le pulci agli studiosi inadempienti, ai sociologi miopi, ecc., noi dovremmo solo provvedere.

 

Ramon Trinca, La vecchiaia ci segna più rughe nello spirito che sulla faccia

Ramon Trinca, La vecchiaia ci segna più rughe nello spirito che sulla faccia

 

Nel suo libro Augé comincia da una gatta. L’etnologo francese osservando la sua gatta tira fuori l’idea che ritiene fondamentale sulla vecchiaia: la vecchia gatta, pur mantenendo intatta la sua indole, elemento pregnante nella sua vita con gli umani, una volta raggiunta “un’età” comincia, con la saggezza del gatto, a calibrare i suoi comportamenti sulle nuove necessità del suo fisico, rallentando e limitando i movimenti. Mounette, così si chiamava, muore da gatta integra nella sua “personalità”. E diventa per Augé “un simbolo di quella che potrebbe essere una relazione con il tempo che riuscirebbe a fare astrazione dall’età”. Noi, aggiunge, “ci immergiamo nel tempo, ne assaporiamo alcuni istanti; ci proiettiamo in esso, lo reinventiamo, ci giochiamo; ‘prendiamo il nostro tempo’ o ‘lo lasciamo scorrere’: è la materia prima della nostra immaginazione.

 

Di contro, l’età è la spunta minuziosa dei giorni che passano, la visione a senso unico degli anni la cui somma accumulata, una volta visto il totale, ci può far sprofondare nello stupore. L’età ci perimetra tutti […]. Il tempo è una libertà, l’età un vincolo. Un vincolo che, apparentemente, il gatto non sa cosa sia” (pp. 10-11). Un vincolo che gli altri ti assegnano inesorabilmente a un certo punto della tua vita, senza che tu lo avverta interiormente, perché la tua dimensione più profonda e autentica è ancora quella del tempo (“io vivo di ciò che voi non sapete di me” ha detto Peter Handke). E’ con quest'arma, in effetti, che noi riusciamo a combattere la guerra con l’età.

 

Il tempo, dunque, è la dimensione letteraria, quella dei flutti emozionali, delle consistenze psicologiche, dei momenti topici della vita (la nozione non è nuova, di tempo esistenziale si è parlato da un bel po’, vedi per esempio il tempo vissuto di Eugène Minkowski, o gli studi di Oliver Sacks); poi c’è tutto il resto e tutto il resto è l’età, il dato tecnico, per così dire, dello scorrere del tempo. Il tempo si dissemina nella nostra vita gradualmente in forme irregolari, sconnesse, incompiute, come nella vita di Mason, il ragazzo che per dodici anni consecutivi è stato il protagonista di Boyhood, film che il regista Richard Linklater ha voluto girare con lo stesso cast in un arco temporale che mostra lo scorrere reale delle vite degli attori, film incredibilmente efficace e toccante in cui il protagonista cresce, per davvero, e cresce nella sua vita fatta appunto di un tempo, denso, come il mosto del vino, e dell’età, quella delle mutazioni fisiche, degli innumerevoli traslochi, delle cose nuove, degli incontri sempre diversi.

 

Ramon Trinca, Io non sono vecchio

Ramon Trinca, Io non sono vecchio

 

Da vecchi, di questo “mosto” sentiamo il calore intenso che ci identifica con noi stessi, è un’intuizione d’ordine poetico, scrive Augé, “un poema che non sarà mai scritto né letto. Sarò il solo a sentirlo, incapace perfino di canticchiarlo” (p. 49). Quel mosto-poema che talvolta è confortante e da cui si può anche ricavare del buon vino raffinato e maturo. Questo è ciò che resiste all’oblio, che respinge, perché privo di interesse, il decadimento dell’età e conserva la nostra essenza esistenziale profondamente legata alle prime fasi della nostra vita. “Tutti portiamo in noi questi poemi che resistono all’età perché sono fatti solo di tempo” (p. 50).

 

Così ci sono scritture che hanno come oggetto il tempo o scritture che sono dominate dall’età. Nel capitolo Autobiografia ed etnologia di sé, centrale nel libro, Augé analizza Età d’uomo di Michel Leiris (Mondadori, 1991), come esempio di percorso di automemoria spostato sull’asse del tempo nel quale, alla fine, non è la ricostruzione del proprio passato che interessa all’autore, ma piuttosto la risposta alla domanda “Chi sono?”. Ne Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo (Mondadori, 2000) Stefan Zweig scrive un’autobiografia in cui regna la “passività nei confronti dell’età”, cioè della Storia. Simone de Beauvoir, invece, nell’Età forte (Einaudi, 1961) sceglie di raccogliere in forma di diario ma anche di memoir i ricordi di guerra, cioè spostandosi ora sulla sponda dell’età ora su quella del tempo. In realtà, dice Augé, “in misura variabile, i due ‘accenti’ sul tempo e sull’età sono presenti in tutti gli autori” (p. 46), a conferma, direi, di quell’oscillare naturale tra i due poli che delimitano l’interluogo, appunto, della vecchiaia. In una instabilità costitutiva che ci è propria, come diceva Montaigne – che sulla vecchiaia ha ragionato a lungo – in uno dei suoi Saggi: “Il mondo non è che una continua altalena. Tutte le cose vi oscillano senza posa […].

 

La stessa costanza non è altro che un movimento più debole. Io non posso fissare il mio oggetto. Esso procede incerto e vacillante, per una naturale ebbrezza. Io lo prendo in questo punto, com’è, nell’istante in cui mi interesso a lui. Non descrivo l’essere. Descrivo il passaggio: non un passaggio da un’età all’altra […], ma di giorno in giorno, di minuto in minuto. Bisogna che adatti la mia descrizione al momento” (Libro III, cap. II, Del pentirsi). Tale è questa instabilità che nel momento stesso in cui sopraggiunge si ha chiaramente la percezione che “come fonte di sapere o accumulo di esperienze la vecchiaia non esiste” (p.11). Tuttavia è meglio accogliere la vecchiaia-età, dice Augé, mostrare entusiasmo per i doni che reca (la saggezza dell’esperienza, la tranquillità dopo le tempeste della libido, le gioie dello studio e dei piccoli piaceri quotidiani), ossequiarla, in un certo senso, poiché è una brutta bestia permalosa che può colpirti se fai finta di non riconoscerla. Il tentativo un po' scanzonato di classificare le diverse tipologie della vecchiaia che ho proposto qualche tempo fa (Che vecchio potrei essere? doppiozero del 19 agosto 2013) giocava proprio sulle diverse modulazioni che gli individui danno al loro modo di accogliere l'età che avanza.

 

Ramon Trinca, Le rughe sono punti geografici disegnati dal passato affinché poss

Ramon Trinca, Le rughe sono punti geografici disegnati dal passato affinché

possa il futuro approdare sul porto delle labbra

 

Spesso le riflessioni dei “grandi vecchi” che incarnano le antiche figure ciceroniane sono segmenti teorici di notevole interesse per ovvie ragioni: quando un grande intellettuale, da vecchio, ragiona sulla vecchiaia è sempre un’intelligenza fulgida che scava nella propria vasta cultura e nella lunga esperienza e trova tanti suggerimenti e conforti (sono molto interessanti, ad esempio, le interviste ai “grandi vecchi” italiani che Antonio Gnoli sta proponendo da mesi su “Repubblica”). Ma, dopo diverse frequentazioni della letteratura sulla vecchiaia, sono portato a pensare che valga di più una grande vecchiaia vissuta, “esercitata”, che una riflessione che giocoforza non può che rimanere entro i confini di un ristretto mondo di specialisti. L’età, dice Augé, “sta agli intellettuali che invecchiano come la bellezza sta alle donne” (p.23).

 

L’intellettuale invecchiando si sente venir meno come una bella donna che sfiorisce negli anni. E una donna-intellettuale queste cose le sa, e se ne fa una ragione. Ma il problema non si pone in misura uguale per chi bello, o intellettuale, non è e non è mai stato. Quella di Augé è una riflessione che si svolge in prevalenza sul versante culturologico, lavora più sui meccanismi cognitivi, su un terreno piuttosto sofisticato nel quale la pragmatica della politica sociale rimane sullo sfondo. Lo stesso Augé peraltro osserva che “il rapporto con l’età rivela la disuguaglianza sociale e, da questo punto di vista, bisogna riconoscere che l’unica soluzione al problema della dipendenza sarebbe, e sarà, nel futuro, ‘l’educazione’ di tutti: un’utopia che non risolverebbe l’insieme degli inconvenienti della vita ma che tuttavia conferirebbe ai più una chance concreta di esercitare il loro libero arbitrio” (pp. 20-21).

 

Ramon Trinca, Hai scrutato il tempo nel paralume

Ramon Trinca, Hai scrutato il tempo nel paralume

 

“Per ciascuno di noi la vita rappresenta una lunga e involontaria indagine” (p. 11) e quando si arriva al punto si scopre che “la vecchiaia non esiste”, come recita il sottotitolo del libro. E’ una cosa che Augé ripete più volte, anche in chiusura: la vecchiaia, dice, “è come l’esotismo: gli altri visti da lontano con gli occhi degli ignoranti. La vecchiaia non esiste” (p. 103). Già, la vecchiaia non esiste, ma il sottotitolo lo ritoccherei pensando ai venti milioni di vecchi che le proiezioni demografiche annunciano per il 2050 in Italia (si veda in proposito Ancora giovani per essere vecchi, un’utile conversazione tra Carlo Vergani e Giangiacomo Schiavi, appena pubblicata dal “Corriere della Sera”), una quantità che destruttura ogni capacità teorica di organizzare la società.

 

Aggiungo un’ultima osservazione sui giovani, cioè l’altro lato della medaglia, su cui Augé non riflette particolarmente, ma è cruciale: in un quadro di crescente tensione sociale, la concertazione tra generazioni è indispensabile altrimenti qualunque disegno rieducativo della società diventa inconsistente. Lo spiega con efficacia Francesco M. Cataluccio in Papà s’è perduto (“Il Foglio”, 25 agosto 2014): “La storia del Novecento ci ha mostrato chiaramente che una cultura giovanilistica e immatura, e la pratica su di essa basata, sono in realtà assai reazionarie e foriere di disastri: la più grande esaltazione del mito della gioventù è stata fatta dai regimi totalitari. Invece, la forza sta proprio nell’unire il meglio della gioventù con il meglio dell’anzianità.

 

Le poche rivoluzioni, tutto sommato positive, della storia dell’umanità sono quelle che hanno visto alleati vecchi e giovani, esperienza ed energia, maturità e immaturità. Negli ultimi cento anni: le guerre di liberazione nazionale (dalle guerre partigiane alle lotte guidate da personaggi, non certo giovinetti, come Gandhi e Mandela) e i movimenti democratici nell’est europeo. La maturità spinge alla ricerca delle alleanze e media i conflitti, l’immaturità invece cristallizza, esaltando un’indefinita gioventù, le età e le stupidità”.

Solo così direi che, anche grazie a Marc Augé, la vecchiaia potrebbe non esistere.

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