Ma perché siamo ancora fascisti?
Il vento del cambiamento
Il fascismo è ancora qui? Perché non l'abbiamo “tolto di mezzo”? Negli ultimi anni, sussurrando o gridando che il lupo era tornato, non si è fatto che parlare di fascismo, in un proliferare di prefissi (neo-, post-, cripto-, para-, filo-, ecc.) a suggerire che non è proprio la stessa cosa, ma neanche così diverso. Nel polverone sollevato da tutta questa attenzione – mediatica, politica – sul fascismo, tra saggi e romanzi di vario tipo, l'anno scorso è apparso un faro, un “manuale di autodifesa” (così l'abbiamo definito) che si faceva strada attraverso il passaparola, forte della sua nitidezza: Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo di Francesco Filippi (Bollati Boringhieri 2019).
Non si trattava di un caso isolato: negli stessi mesi erano usciti altri volumi di indubbio valore come Il fascismo dalle mani sporche a cura di Paolo Giovannini e Marco Palla (Laterza), Mussolini e i ladri di regime di Mauro Canali e Clemente Volpini (Mondadori), la riedizione di Un anno di dominazione fascista di Giacomo Matteotti (Rizzoli) e Dopo Mussolini. I processi ai fascisti e ai collaborazionisti (1944-1953) di Andrea Martini (Viella) che, con tagli e toni diversi, tornavano sui crimini del ventennio e sui conti in gran parte “mancati” con quella stagione. Ma il libro di Filippi, che a suo tempo ho avuto l'onore di prefare, segnava un punto di non ritorno del dibattito pubblico in questo paese: con oltre 50.000 copie vendute (un anno in classifica) e ristampe in doppia cifra, Mussolini ha fatto anche cose buone si candidava a essere un “classico” dell'alta divulgazione storiografica, un caso-studio di straordinario successo editoriale senza la “benedizione”, se non altro inizialmente, della stampa mainstream, che ci mise diverse settimane per rendersi conto di quel diamante nella discarica di un dibattito pubblico incancrenito da posizionismi cerchiobottisti e ambigui farfugliamenti. Il gioco ad ammiccare al salvinismo rivalutando o sminuendo – ancora, di nuovo – il fascismo ha avuto tra i suoi campioni, oltre agli immancabili Vespa di turno, anche firme molto note del panorama giornalistico italiano, che alternano condanne apparentemente nette alla stagione mussoliniana a infervorati strali contro le presunte “zone d'ombra” della Resistenza italiana: penso, naturalmente, al CorSera di Paolo Mieli e Aldo Cazzullo, redarguito implicitamente da Luciano Canfora in un corsivo che pare puntare a fare esplodere le contraddizioni di una linea editoriale indubbiamente oscillante, nonostante abbia ripubblicato anche opere di indubbio valore (penso a La marcia su Roma di Giulia Albanese [2006]).
Perché il principale quotidiano “moderato” italiano non riesce a scrivere che il ventennio è stata la fase più terribile della nostra storia – l'ha “cambiata” o l'ha “sconvolta”? – e la Resistenza il suo momento più alto?
Il fascismo è ancora tra noi?
“Si tratta, innanzitutto, di un problema di memoria: come ricordare il momento più critico e al contempo più compenetrante della vita del paese dalla sua fondazione?”, scrive Francesco Filippi nella sua nuova fatica, Ma perché siamo ancora fascisti? Un conto rimasto aperto (Bollati Boringhieri 2020), che prende idealmente il testimone dalla sua opera precedente, come è chiaro dal primo capitolo che segue il Preludio, e che è intitolato Fine di una dittatura, dove si dichiara fin da subito che l'autore è ben conscio del fatto – lapalissiano, ma da ribadire costantemente – che il fascismo storico si conclude nel 1945. Liquidata rapidamente questa ovvietà, il racconto di Filippi percorre quello che è successo dopo, chiedendosi – con immensa serietà, e con un procedere brillante – perché invece è ancora tra noi. La sua memoria, se non altro.
Il titolo del libro, naturalmente, è provocatorio; il sottotitolo illuminante; l'autore una garanzia. Chi scrive è a lui legato da un rapporto profondo di amicizia e da un'unità d'intenti: questo va dichiarato. Chi scrive ha avuto la fortuna di vedere quest'opera in anteprima, di poterne discutere alcuni aspetti con Filippi mentre lo storico trentino si cimentava con la madre delle questioni a monte della storia dell'Italia repubblicana: i conti, mai fatti come si deve, con il fascismo.
Il 25 giugno 1943, un mese esatto prima della caduta del regime, “il segretario nazionale del Partito nazionale fascista Carlo Scorza dichiara soddisfatto che il partito ha ben 4 770 000 iscritti. L’11% della popolazione italiana, neonati compresi”, osserva Filippi nel capitolo (il secondo) Provare a punire il fascismo, per poi aggiungere:
Uno dei temi centrali della storiografia italiana postbellica, in particolare a partire dagli anni settanta, è quello che si concentra proprio sul fatto di comprendere quali reali effetti abbia avuto il fascismo “quotidiano” sulle vite di milioni di italiani. La lettura principale si rifà ovviamente alla constatazione che dopo il 25 luglio nessun movimento di rivolta sorge nel paese per reclamare il ritorno del fascismo al potere: la guerra perduta, le privazioni e i bombardamenti probabilmente hanno fiaccato l’animo della popolazione e il suo attaccamento al regime: sono lontanissimi i tempi della proclamazione dell’impero del 1936, ma anche quelli della totale accettazione incondizionata delle leggi razziali nel 1938. Le promesse disattese, il nemico alle porte e le difficoltà materiali di tutto il paese creano le condizioni per la caduta di Mussolini in modo sostanzialmente incruento.
È un passaggio fondamentale della storia d'Italia, il 25 luglio, la “congiura di palazzo” (così la definì Ferruccio Parri) che porta all'implosione del regime senza un sostanziale coinvolgimento della popolazione che, tolte le manifestazioni di giubilo in netta prevalenza non violente, si limita a prendere atto che il vento era cambiato. E a regolarsi di conseguenza.
Oscillazioni permanenti
Come non pensare, e Filippi parla anche di questo, a quel mondo della cultura che si coprì di vergogna giurando, secondo la definizione dello storico dell’antichità Gaetano De Sanctis, a quei 12 “no” su oltre milleduecento professori universitari che rifiutarono il giuramento al regime? Come dimenticare che lo fecero sei anni dopo il Manifesto degli intellettuali antifascisti («Il Popolo», 1° maggio 1925), “la replica” degli intellettuali “non fascisti” a quelli fascisti opera della controversa figura – quanto ad antifascismo – di Benedetto Croce, che aveva comunque raccolto circa quattrocento firme? Sei anni più tardi, nel “tagliente e perdurante soffiare della bufera autoritaria scatenata dal regime” (come scrive Giorgio Boatti), quelle centinaia di voci pubblicamente critiche non c’erano più. Non pervenute, vaporizzate.
Non è un caso che Filippi dedichi un intero capitolo, il terzo (Provare a comprendere il fascismo: filosofi, storici, scrittori), al ruolo degli intellettuali: il dibattito che si è sviluppato in Italia, rimbalzato nello spazio pubblico e nel senso comune, è stato giocoforza impostato dal mondo della cultura. Per questo, lungi dal considerare questo dibattito una sterile querelle tra studiosi, bisogna chiedersi se il fascismo sia stato una parentesi o una rivelazione, una malattia o un capitolo cruciale della storia italiana. Ai due estremi – cronologici e non – di questo dibattito che di recente ha di nuovo infuocato lo spazio pubblico italiano possiamo collocare l'“auto-intervista” Chi è fascista di Emilio Gentile (Laterza 2019), che chiude diligentemente a doppia mandata il lemma “fascista” all'interno del ventennio, e il volumetto Il fascismo eterno di Umberto Eco, tratto da una conferenza del 1995 a un pubblico statunitense, contro il quale c'è stata una levata di scudi post mortem, nonostante il pungente libercolo affermasse fin da subito che “possiamo dire con tranquillità” che sarebbe difficile vedere “i governi totalitari che dominarono l’Europa prima della seconda guerra mondiale” ritornare “nella stessa forma in circostanze storiche diverse”. Ma “dietro un regime e la sua ideologia c’è sempre un modo di pensare e di sentire, una serie di abitudini culturali, una nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni”, ammoniva Eco. “Si può giocare al fascismo in molti modi, e il nome del gioco non cambia”, diceva prima di ipotizzare una lista di caratteristiche tipiche del suo “fascismo eterno”, dal culto della tradizione a quello dell’azione indipendentemente dalla sua sostanza, dalla paura della differenza all’appello alle classi medie frustrate, dalla pulsione verso la morte (“nella sua impazienza, va detto in nota, gli riesce più di frequente di far morire gli altri”) al machismo (e relativa “invidia penis permanente”), dal disprezzo per la democrazia alla sfacciataggine di un leader che pretende di essere l’interprete di una presunta “volontà comune” – solo per citare le caratteristiche che più saltano all’occhio un quarto di secolo dopo. E, in conclusione, Eco aggiungeva: “Sarebbe così confortevole, per noi, se qualcuno si affacciasse sulla scena del mondo e dicesse: 'Voglio riaprire Auschwitz, voglio che le camicie nere sfilino ancora in parata sulle piazze italiane!' Ahimé, la vita non è così facile”. Lo ha ribadito di recente Canfora nel suo pamphlet Fermare l’odio: “finché ci sono anticorpi (e ce ne sono), si deve reagire: nonostante l’irridente frastuono giornalistico proteso ad enfatizzare le differenze tra 'ora' e 'allora'”. Perché “anche 'allora' si scivolò per gradi”.
E se da un lato, come ci ricorda Filippi, le letture coeve di Antonio Gramsci e Piero Gobetti hanno, con sfumature diverse, teorizzato come “l'affermazione e la vittoria del fascismo in Italia abbiano a che fare con determinati caratteri relativi al rapporto tra italiani e politica e al grado di arretratezza del dibattito sociale degli anni venti”, la tesi crociana del fascismo come frattura traumatica ha un “vantaggio narrativo essenziale”:
la malattia è una condizione di anormalità rispetto al quotidiano di un organismo e quindi, nel caso dell’Italia, tutto quanto di male può essere imputato al regime ventennale non è tuttavia ascrivibile agli italiani, che hanno agito sotto effetto di una malattia invalidante che ha modificato la loro natura. Non si può ritenere pienamente responsabile delle proprie azioni chi è in preda al delirio; anzi, chi senza controllo di sé porta danni ad altri e a se stesso, in fondo è egli stesso vittima della propria condizione.
Come ce lo siamo raccontati
Ed è qui che arriva uno dei nuclei centrali di questa delirante inversione di responsabilità: la guerra 1940-43 che si concluse con la fine del regime, l'occupazione nazista e la feroce parabola di Salò. Feroce, c'è da dire, il regime lo era stato già – oltre che nel ventennio – nei tre anni precedenti. Altro che “morte della patria”! Quando implose, la “patria” era già morta da un pezzo; il suo cadavere puzzava di cadaveri altrui, di quelli che aveva annientato con i suoi sicari, con i bombardamenti indiscriminati e con le truppe di occupazione in Africa del Nord e in Africa orientale, in Spagna, in Albania, in Francia, in Jugoslavia, in Grecia, in Unione Sovietica, e ovunque la guerra fascista fosse arrivata a massacrare le resistenze locali e le popolazioni civili, accusate aprioristicamente – come se fosse una colpa, oltretutto – di affiancare il partigianato locale.
Come ci racconta lucidamente Filippi nel quarto e ultimo capitolo (Provare a superare il fascismo: una cultura di massa antifascista?) la responsabilità della fiction nell'impostare uno spaccato nazionalpopolare ridicolmente sbilanciato della guerra d'aggressione fascista è immensa: Filippi si concentra in particolare sul cinema e sulla tv, e uno dei paragrafi più memorabili è significativamente intitolato «Mancò la fortuna, non il valore!». È – ancora, sempre – il fascismo “all’acqua di rose”, un’acqua che sarebbe stata contaminata solo dal presunto suo farsi trascinare dal nazismo in una guerra tracotante e dunque sbagliata: sarebbe forse stata giusta se fosse stata più cucita su misura? Nel lungo dopoguerra – scrive Filippi – “all’opinione pubblica italiana viene sostanzialmente spiegato che la guerra è un errore quando non è fatta nel modo giusto”, “archiviando la possibilità di un’analisi più ampia e forse utile della guerra come strumento di politica internazionale e pericolo per i popoli”. Ed è così che i partigiani dei vari “altrove” restano – immancabilmente, nazionalisticamente – nemici; è così che il mussoliniano “spezzeremo le reni alla Grecia” diventa come per incanto Mediterraneo di Gabriele Salvatores (1991), uno dei film di maggior successo della cinematografia italiana, che contribuisce a far passare un'immagine ben precisa: “gli italiani che hanno sostenuto e che hanno combattuto le guerre del duce sono declassati immancabilmente a bravi ragazzi, al più inconsapevoli”. “Dopo la fine della guerra” – scrive Filippi nella conclusione – “di difficile analisi perché vinta e persa contemporaneamente, la gestione della memoria pubblica è passata attraverso una semplificazione estrema della memoria e una generale tendenza a porre l’accento sulla passività della società italiana nei confronti della propria storia. Una passività che ha garantito una generale deresponsabilizzazione. Una storia subita, non agita”. Una malattia (raccontata troppo spesso, ma non solo, al maschile), un momento di confusione, niente di più.
Il resto è storia nota: dalla riabilitazione – forse involontaria, certo ingenua – dei “ragazzi di Salò” da parte di Luciano Violante, a Il sangue dei vinti di Quel fascista di [Giampaolo] Pansa, dal confino come “villeggiatura” secondo Berlusconi alle continue citazioni testuali di Mussolini e agli omaggi ai camerati da parte di molti e molte esponenti della destra italiana in questi ultimi anni, la memoria pubblica del fascismo non ha mai goduto di una salute migliore. E quella dell’antifascismo e della Resistenza non è mai stata così alle corde, in tre quarti di secolo di Italia repubblicana, a livello pubblico e istituzionale. E gli storici dov'erano, in questi anni?
La ricchezza del dibattito storico attorno alla fine della dittatura e alle origini dell’esperienza democratica che qui si è cercato di sintetizzare – scrive Filippi – è rimasta per anni relegata, tranne alcune rare eccezioni, all’interno delle accademie. Una parte consistente degli storici sin qui citati con ogni probabilità rimangono sconosciuti alla maggior parte del pubblico italiano, pur avendo contribuito direttamente alla costruzione del sostrato scientifico su cui ancora oggi si innesta il dibattito sul passato del paese. Anche quando il confronto storiografico è riuscito a toccare le corde dell’opinione pubblica è stato poi immediatamente strumentalizzato, trasformando la storia del paese in argomento di scontro politico quotidiano. Lavori di indubbio valore scientifico e culturale non sono riusciti a conquistare platee sufficientemente vaste di lettori oppure lo hanno fatto attraverso un loro utilizzo decontestualizzato o addirittura colpevolmente strumentale.
Filippi fa un errore, senza ombra di dubbio: omette un dettaglio importante. Nel citare due dei lavori che più hanno saputo scalfire, in maniera ficcante e lucida, il dibattito pubblico, vale a dire Italiani brava gente? Un mito duro a morire di Angelo Del Boca (Neri Pozza 2005) e Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale di Filippo Focardi (Laterza 2013), Filippi dimentica se stesso. Gli concediamo che sarebbe stato piuttosto inelegante autocitarsi, e fatte le dovute premesse sulla natura “di parte” di questo pezzo lo diciamo allora noi, qui: sgombrato definitivamente il campo dalle bufale sul fascismo grazie a Mussolini ha fatto anche cose buone è ora giunto il momento di riflettere con altrettanta serietà (e, speriamo, con altrettanta diffusione) sui detriti di fascismo ancora presenti settantacinque anni dopo la sua fine.
“La base di un possibile futuro totalitario – scriveva Filippi introducendo il suo libro precedente – passa anche dalla riabilitazione del passato totalitario. Mostrare la realtà di quel passato è un primo passo per evitare che quel passato diventi futuro”. Aggiunge in chiusura di questo:
Perché quindi siamo ancora fascisti o, meglio, perché non siamo convintamente antifascisti? Perché in questi anni, nel tentativo di mantenere pulita la memoria del paese, non abbiamo affrontato con determinazione i crimini che il fascismo ha commesso anche grazie alla connivenza degli italiani e quindi oggi, per molti, dato che non si conoscono i delitti del fascismo, pare quasi che il fascismo di delitti non ne abbia commessi.
Perché in questi anni non siamo riusciti ad affrontare con decisione e chiarezza i demoni di un passato che abbiamo troppo velocemente coperto ma non cancellato, togliendoci la possibilità di accumulare le conoscenze e le attenzioni necessarie a impedire che i fenomeni di erosione democratica che aprono la strada ai regimi autoritari vengano subito riconosciuti e neutralizzati.
Perché, infine, una parte minima della società italiana non ha mai voluto essere altro, perché un’altra parte non ha mai imparato a essere altro, e infine perché una parte della nostra società, probabilmente la più consistente, non si è mai nemmeno posta seriamente la domanda, rimanendo indifferente.
In un’epoca in cui i partiti di destra – in assenza di una significativa destra moderata – sono ormai quasi esclusivamente eredi diretti (per filiazione) della tradizione neofascista oppure non hanno nessun imbarazzo a stringere relazioni, e ovunque, con i due partiti dichiaratamente neofascisti che regolarmente corrono alle elezioni, è arrivato il momento di ricordarci come possiamo, oggi, essere antifascisti. E come possiamo, una volta per tutte, saldare questo conto rimasto aperto.
Parte di queste riflessioni sono presenti nel mio L'antifascismo non serve più a niente (Laterza 2020), volume che inaugura la serie a cura mia “Fact checking: la Storia alla prova dei fatti”.