Quell'intervista a Playboy / McLuhan, cinquant’anni dopo
Per diverse serate, tra il dicembre del 1968 e il gennaio del 1969, Marshall McLuhan ha ricevuto nella sua casa di Toronto il giornalista Eric Norden, che poco tempo prima aveva intervistato il regista Stanley Kubrick. Fuori faceva molto freddo e McLuhan e Norden hanno chiacchierato per parecchie ore davanti al tepore del caminetto acceso. Ne è uscita una lunghissima intervista pubblicata sul numero del marzo 1969 di Playboy, che all’epoca era una rivista alla quale collaboravano alcuni degli intellettuali statunitensi più importanti, compreso McLuhan, che nel dicembre del 1968 vi aveva pubblicato l’articolo Il capovolgimento dell’immagine surriscaldata.
Quella pubblicata da Playboy può essere considerata la più famosa intervista rilasciata da parte di McLuhan e si tratta di un lungo dialogo nel quale il più importante studioso dei media ha riassunto con efficacia il suo originale pensiero. L’intervista è apparsa per la prima volta in italiano all’interno del volume Percezioni. Per un dizionario mediologico (Armando), curato alla fine degli anni Novanta da Gianpiero Gamaleri, ed è poi uscita in una nuova versione nel libro Intervista a Playboy. Un dialogo diretto con il gran sacerdote della cultura pop e il metafisico dei media (FrancoAngeli), curato e tradotto nel 2013 da Luca Barra.
Era presente tra i diversi concetti espressi da McLuhan in quell’intervista la straordinaria intuizione che lo spettatore televisivo dev’essere considerato come una sorta di schermo. Lo studioso canadese, cioè, era fortemente convinto che l’immagine venga proiettata dallo schermo televisivo direttamente sul corpo dello spettatore, il quale a sua volta la completa attraverso la sua capacità mentale di elaborazione e interpretazione. McLuhan pensava dunque che la televisione fosse in grado di ribaltare il tradizionale rapporto che il cinema aveva stabilito con lo spettatore: «lo spettatore, in fondo, diventa lo schermo, mentre nel film era la cinepresa. Richiedendoci di riempire costantemente gli spazi della rete a mosaico, l’iconoscopio tatua il suo messaggio direttamente sulla nostra pelle. Ogni spettatore è così un inconsapevole pittore puntinista come Seurat, che dipinge nuove forme e immagini mentre l’iconoscopio si diffonde sul suo intero corpo. Dal momento che il punto di focalizzazione di un televisore è lo spettatore, la tv ci sta orientalizzando, forzandoci tutti a iniziare a guardare dentro noi stessi» (2013, p. 31).
L’intuizione di McLuhan si è rivelata negli anni successivi sempre più convincente e oggi appare essere pienamente condivisibile. Perché la mente umana legge e interpreta i testi presenti negli schermi digitali attraverso delle modalità che sono molto differenti rispetto a quelle che utilizzava in passato e ciò produce delle profonde conseguenze culturali e sociali. Per diversi secoli, infatti, gli esseri umani hanno letto grazie alla luce riflessa, che cadeva sulla pagina e da lì rimbalzava verso l’occhio, mentre oggi la luce viene di solito proiettata dagli schermi elettronici direttamente verso il soggetto che guarda.
Che cos’altro veniva detto in quell’intervista di cinquant’anni fa? Molte cose, tra le quali però spiccava in modo particolare l’idea chiave di McLuhan, secondo la quale i media non possono essere considerati come dei semplici strumenti che, mediante le rappresentazioni che producono, aiutano le persone a mettersi in contatto con la realtà sociale. Si tratta invece di mezzi che sono in grado di creare dei mondi all’interno dei quali è possibile entrare, cioè dei veri e propri ambienti culturali nei quali le persone possono dare vita alle loro relazioni sociali. Questa interpretazione di McLuhan del medium come ambiente è particolarmente convincente e non è un caso che negli ultimi decenni sia stata abbracciata e portata avanti da numerosi studiosi.
Ma McLuhan in quell’intervista si preoccupava anche di come si determini socialmente una divisione sempre più netta tra quella cultura alfabetica che è propria della scuola e il nuovo ambiente elettrico generato dalla televisione. Affermava infatti che «Il bambino televisivo trova difficile, se non impossibile, adattarsi agli obiettivi frammentati e visivi del nostro sistema educativo, dopo che tutti i suoi sensi sono stati coinvolti dai media elettrici; ha bisogno di coinvolgimento in profondità, non di distacco lineare e di pattern sequenziali e uniformi. Ma, improvvisamente e senza preparazione, è strappato dal freddo e inclusivo grembo della televisione ed è esposto – dentro una vasta struttura burocratica di corsi e di crediti – al medium caldo della stampa» (2013, p. 39). E se ciò poteva essere considerato vero allora, cinquant’anni fa, a maggior ragione lo è oggi, in una realtà sociale dove occupano un ruolo sempre più centrale i nuovi e avvolgenti media digitali.