Microchip, moneta di scambio
Il filosofo tedesco Karl Marx, com’è noto, nella sua ponderosa opera in più volumi Il Capitale ha cercato di mettere a fuoco il fondamentale ruolo svolto dal denaro all’interno dei processi di funzionamento del sistema capitalistico. Se ci fosse un Marx dei tempi nostri, probabilmente si concentrerebbe non sulla funzione occupata nel sistema economico del denaro, ma su quella dei microchip. Questi, infatti, sono degli oggetti molto piccoli sul piano delle dimensioni, ma in grado di svolgere un ruolo di vitale importanza per le nostre economie e, di conseguenza, anche per le nostre culture e le nostre società. Il valore economico, infatti, si genera fondamentalmente grazie ai microchip. Non a caso Cesare Alemanni ha chiamato il microchip “re invisibile” nel suo volume Il re invisibile. Storia, economia e sconfinato potere del microchip, recentemente pubblicato dalla Luiss University Press. Alemanni è uno scrittore e giornalista che cerca di seguire il modello del giornalismo “americano” e ha realizzato perciò una dettagliata inchiesta sul mondo dei microchip. Aveva fatto la stessa operazione nel 2023 con il libro La signora delle merci, nel quale aveva esplorato in profondità l’importante ruolo economico e sociale svolto dalla logistica delle merci.
Che cosa presenta dunque il recente volume di Alemanni sul mondo dei microchip? Il suo testo è particolarmente ricco d’informazioni su questa vera e propria materia prima fondamentale per la crescita e lo sviluppo del sistema capitalistico contemporaneo. Si pensi, ad esempio, che a partire dai primi anni Duemila le imprese che producono microchip sono in grado di fare uscire ogni anno dalle loro sedi una quantità di pezzi che è superiore all’enorme numero di oggetti realizzati dagli esseri umani nel corso della loro intera storia. Ma si pensi soprattutto alla capacità di questi piccoli oggetti d’influenzare le potenti dinamiche relative ai processi di globalizzazione. Come quelle che riguardano la rivalità esistente tra le grandi superpotenze mondiali: gli Stati Uniti e la Cina. Questi due Paesi, infatti, stanno cercando da tempo di acquisire una posizione di predominio nell’ambito della produzione di microchip perché ciò consentirebbe loro di ottenere un grande vantaggio rispetto al concorrente diretto. Ciò vale sul piano dell’attività economica, ma anche su quello delle tecnologie militari basate sulle intelligenze artificiali, che stanno profondamente modificando la natura dei conflitti bellici e che hanno un vitale bisogno di semiconduttori sempre più potenti. Va considerato inoltre che i microchip sono in grado di produrre delle notevoli conseguenze sull’ambiente naturale e quindi influenzano anche da questo punto di vista la situazione di elevata conflittualità esistente tra i principali Paesi. Richiedono infatti per la loro produzione delle notevoli quantità di risorse minerali e di energia fossile.
La principale questione sulla quale Alemanni s’interroga è però quella relativa alle prospettive future dell’industria dei microchip e dunque anche del nostro contesto economico e sociale. Perché sinora l’industria dei microchip, che è in gran parte collocata nell’isola di Taiwan, non a caso diventata negli ultimi anni una delle principali ragioni alla base degli attriti esistenti tra gli Stati Uniti e la Cina, ha potuto avere dei fortissimi tassi di sviluppo soprattutto grazie alle innovazioni tecnologiche che le hanno consentito di ridurre progressivamente le dimensioni dei suoi prodotti.
Il processo di miniaturizzazione dei chip, infatti, ha consentito al mondo intero di migliorare costantemente le capacità di elaborazione dei dati mediante i sempre più indispensabili strumenti informatici. Tale processo è stato per lungo tempo regolato da quella che è stata chiamata “legge di Moore”, cioè la legge ipotizzata negli anni Sessanta da Gordon Moore, a capo del settore di ricerca e sviluppo della Fairchild Semiconductor e fondatore della Intel. Una legge successivamente confermata e modificata sino ad assumere la sua forma definitiva: il numero di transistor che è possibile inserire in ogni singolo microprocessore tende a raddoppiare ogni 18 mesi.
Alemanni però ha evidenziato che in futuro il processo di miniaturizzazione dei chip potrebbe andare incontro a diversi ostacoli. Non a caso già oggi, secondo alcuni autori, la “legge di Moore” è soggetta a “rendimenti decrescenti” sul piano economico e non può più essere facilmente riscontrata nel settore industriale dei microchip. D’altronde, è impressionante pensare che su un singolo wafer di silicio le aziende riescono a collocare più di 100 miliardi di transistor (per la precisione, l’Apple M-2 Ultra ne contiene 130 miliardi), mentre il primo esemplare di questo tipo, creato nel 1958 dall’ingegnere elettronico statunitense Jack Kilby presso la Texas Instruments, era composto soltanto da un transistor, un condensatore e tre resistori. Dunque, è difficile pensare che oggi sia possibile incrementare ulteriormente il processo di miniaturizzazione dei chip. Anche perché tale processo potrebbe incontrare un ostacolo insormontabile nella natura che caratterizza l’atomo. A meno infatti della comparsa d’innovazioni tecnologiche radicali, oggi sappiamo che al di sotto della dimensione dell’atomo le leggi fisiche che regolano il funzionamento degli elettroni e dunque anche dei microchip smettono di funzionare e si entra nel campo dell’indeterminazione quantistica. Non c’è dunque nessuna certezza che il processo di miniaturizzazione dei microchip possa ulteriormente proseguire. Il nostro sistema economico e anche quello sociale ne hanno però un bisogno assolutamente vitale. È perciò auspicabile che la ricerca scientifica e tecnologica possa essere comunque in grado di superare o comunque ridurre questi problemi. Possa cioè creare dei nuovi sistemi di elaborazione dei dati che abbiano la capacità di essere indipendenti dai limiti relativi agli attuali transistor, chip e processori.
Nel frattempo, i microchip attuali continuano ad operare come risorsa indispensabile per le società contemporanee. Ma continuano anche a produrre dei significativi effetti su tali società, soprattutto dal punto di vista culturale. Si pensi, ad esempio, che è proprio grazie a tali microchip che è stato possibile costruire quelle “piattaforme digitali” nelle quali le persone passano una quantità crescente del loro tempo di vita. Se oggi infatti si parla sempre più frequentemente di “società delle piattaforme”, è perché sono stati realizzati degli spazi digitali che mettono in connessione le persone tra loro e con le imprese e producono valore economico attraverso la raccolta delle informazioni sulle attività svolte dagli utenti, ma concorrono inevitabilmente a “normare” tali attività, cioè a stabilire delle regole che influenzano le ritualità quotidiane e le culture individuali e collettive. E tutto ciò è stato reso possibile dai microchip e dalla loro progressiva “miniaturizzazione”. Il libro di Alemanni non sviluppa un’analisi approfondita di queste questioni, che però sono complesse e rilevanti sul piano sociale e probabilmente richiederebbero un altro volume.