Metal Theory
Il metal è un genere musicale strano, a partire dal fatto che non è un genere, quanto un insieme di sottogeneri che spesso non si somigliano nemmeno troppo, anche se li attraversa la tendenza al portare all’estremo gli elementi formali della loro musica. Ma è strano anche perché si fonda su una contraddizione apparentemente insanabile tra novità e tradizione. Si tratta di un genere d’avanguardia, in cui ha valore quanto riesce a essere di più rispetto alle sue manifestazioni precedenti: più sporco e più aggressivo, più veloce e brutale, ma anche, in maniera opposta e speculare, più esasperatamente lento e asfissiante, come nel caso del funeral doom di gruppi come i Bell Witch, in cui il formato-canzone si dilata allo sfinimento e perde tutti i suoi elementi melodici. Allo stesso tempo, tuttavia, il metal è anche incredibilmente conservativo, e l’innovazione deve essere operata in rispetto a una tradizione e a un’idea astratta di genere: non sono pochi i gruppi il cui obbiettivo è suonare precisamente come suonavano gruppi di venti, trenta, quarant’anni fa.
Soprattutto, il metal è un fenomeno che da un lato ha conquistato larghe fette di mainstream (Ozzy Osbourne è diventato un personaggio televisivo già da qualche decennio; le hit dei Metallica trovano tranquillamente posto nella più edulcorata delle serie horror Netflix, Stranger Things); dall’altro è un fenomeno di nicchia, perché appartiene a un fandom che ne custodisce gelosamente il perimetro (che fa dunque, come si dice su internet, gatekeeping) e stabilisce cosa è vero metal e cosa non lo è, chi sta dentro e chi sta fuori dalla comunità dei fan. Come nel caso di altri interessi specialistici e totalizzanti (e vale anche per certi generi letterari come la fantascienza), esservi appassionati diventa un tratto identitario rivendicato con fierezza, che segnala l’appartenenza a una comunità distinta e precisa. Uno non ascolta metal, è un metallaro: difficile dire lo stesso del jazz.
Come tutti i prodotti culturali con un fandom forte, il discorso critico intorno al metal finisce per essere in mano quasi esclusivamente agli appassionati. I siti e le riviste specializzate e persino i libri sull’argomento sono troppo spesso il frutto di una monomania, per quanto enciclopedica, incapace di veri affondi teorici, in cui la storia dei gruppi e la biografia degli individui coinvolti prendono il posto di una valutazione reale di quello che si ascolta – perché un disco ha valore o meno? E soprattutto, che cosa significa? Non è un caso che uno dei libri più famosi sul metal sia probabilmente Lords of Chaos di Michael Moynihan e Didrik Søderlind, sulla prima scena black metal norvegese: un libro quasi sensazionalistico fatto di interviste e reportage, che sulla musica ha ben poco da dire.
Questo problema lo hanno ben presente Claudio Kulesko e Gioele Cima, che col loro Metal Theory (uscito da poco per D Editore) raccolgono una ricca e varia serie di contributi teorici (o meglio: di theory) sul metal. Per i curatori, essere fan resta comunque un vantaggio e non un limite, e lo scrivono chiaramente: “il critico e il commentatore si ritrovano, sempre più spesso, nei panni del ‘fan’, piuttosto che del fruitore occasionale o distaccato. Una posizione che appare in realtà privilegiata, capace di produrre, sulla scorta di un ascolto vivo, una speculazione altrettanto viva, quanto più prossima all’esperienza diretta di tutta una serie di materiali musicali in costante mutamento” (12). Proprio la passione degli autori di questi contributi permette loro di offrire letture di death, drone e black metal, di Manowar e Blind Guardian, di Neurosis e Korn, non fredde e accademiche ma partecipate, letterarie, creative, che uniscono l’entusiasmo del fan alle competenze di chi studia.
Il metal, si dice, è un genere adolescenziale. Non è difficile capire perché: è un genere che si fonda sul ribellismo, ma anche su un immaginario escapista, che spesso pesca a piene mani dal fantasy – un immaginario che talvolta viene portato alle estreme conseguenze teoriche, come nel caso del nichilismo melancologico del black metal, ma che spesso è semplicemente (e meravigliosamente) camp. Insomma, per riprendere le parole dello scrittore e musicista John Darnielle (autore di Master of Reality, novella-saggio dedicata all’omonimo album del Black Sabbath e forse uno dei più bei pezzi di prosa sul metal mai scritti), il metal è una musica che permette “to be liberated into feeling bad (…), to spray anger in sparks like a gnarled piece of electrical cable. Just be mad at stuff and soak in the helplessness”. Questo processo di “infantilizzazione e deintellettualizazione” del metal, “di sovente supportato dagli stessi fan dei vari generi e sottogeneri”, ha le sue radici, per i curatori, anche in un peccato originale del genere, ossia “nell’assenza di un aperto posizionamento politico, combinata all’abuso di immaginari ed estetiche fortemente stereotipate” (13).
Qualche mese fa sono stato a Milano a sentire in concerto i Mayhem e gli Emperor, due gruppi che hanno dato origine, trent’anni fa, al black metal come lo conosciamo oggi. È stato un grande concerto, in cui i Mayhem (i cui primi anni di attività, ormai scivolati nella leggenda, sono stati funestati da omicidi e suicidi) sono stati molto teatrali, gli Emperor tecnicamente solidissimi: durante I Am the Black Wizards, si poteva avere tranquillamente l’impressione di trovarsi nel mezzo della caccia selvaggia di Odino. La composizione del pubblico era singolare, tuttavia: c’erano i metallari duri a morire, sì, ma anche ragazzini non ancora nati quando questi gruppi avevano già dato il meglio, e poi signori di mezza età, qualcuno addirittura coi figli al seguito. Non è incongruo, a pensarci bene; tra il concerto e De Mysteriis Dom Sathanas dei Mayhem passa più tempo che tra quest’ultimo e il primo disco dei Black Sabbath, che il metal lo fonda. Non è quindi per nulla strano che pure il black metal sia diventato dad rock: di fatto, ascoltare quella musica oggi significa automaticamente operare un recupero nostalgico di certi anni, della purezza pionieristica di una scena, della giovinezza associata ai primi album delle band, e nel mio caso della mia stessa giovinezza, visto che io che sono del 1991 già li ascoltavo fuori tempo massimo. I Mayhem sanno benissimo che chi va a vederli non vuole una band viva, ma quella cristallizzata decenni fa nel mito e nella terra senza tempo del ricordo: e infatti la loro scaletta era divisa per album, dal più recente ai primissimi. È una nostalgia perfettamente esemplificata dalla copertina dell’ultimo disco dei Darkthrone, in cui una figura di spalle esibisce sulla felpa la copertina di Panzerfaust, loro capolavoro del 1995. Ma in generale ascoltare black metal vuol dire cercare disperatamente di porsi fuori dal tempo e fuori dalla storia, in uno spazio immobile nel freddo e nel buio, in un medioevo inventato e quindi eterno.
Ma che tipo di saggi raccoglie Metal Theory? Si tratta di contributi vari, che vanno da tentativi di sondaggio socio-antropologico, come quello di Rosalba Nodari sulle retoriche dell’autentico nel black metal; a tentativi di squadernare la poetica di un gruppo, come fa Gioele Cima coi Neurosis, o di un genere, come fanno Mortdecay West col death metal, Irene Sottile col black metal, Milena Quaglini col goregrind e Paolo Berti col drone; a letture in controluce del contenuto ideologico di un’estetica, come fanno Lorenzo Marsili e Giulia Scorsino coi Korn e la rappresentazione della mascolinità; a pezzi schiettamente narrativi (o meglio, di una raffinata non-fiction narrativa à la Negarestani), come quello di Claudio Kulesko e quello di Nicola Zolin e Davide Tolfo intorno ai Black Sabbath, forse il capitolo più convincente del volume. La varietà di questi approcci è giustificata dalla varietà della materia, ma anche dalla sua irriducibilità a un discorso univoco. Come scrivono i curatori, infatti, “pensare il metal (…) non significherebbe, pertanto, pensare a proposito del metal, ma con il metal. Speculare con il suono e nel suono, farsi trasportare dalla poetica e dalle dimensioni concettuali e immaginative elaborate da generi, sottogeneri e singole band” (15).
Metal Theory non è allora solo una teoria del metal, ma una teoria sorretta e informata dal metal, e dunque in quanto tale ondivaga, contraddittoria, viscerale e creativa: e tuttavia, sempre teoria. Questo è possibile perché il metal è un genere che, a dispetto dell’infantilizzazione di cui si è detto, è saturo di concettualizzazioni teoriche e filosofiche che si cristallizzano nella forma canzone. Chiunque abbia ascoltato un disco black metal si può essere reso conto di come i sentimenti di assoluta disperazione e i paesaggi anti-umani descritti nei testi vanno insieme a una dimensione sonora repellente, dissonante, con una produzione scarna e un cantato che non ha quasi più nulla della voce umana ma che si dipana, in maniera incomprensibile, tra urla e gorgoglii. Si può ascoltare il black metal come musica estrema, come “musica su cui essere cattivi”, come direbbe Darnielle, ma se ne può anche fare esperienza come una forma di gnosi negativa, attraverso cui esperire il male del mondo e attraverso cui evocare le forze anti-umane e anti-moderne di un passato mitico. Anche per questo nel metal hanno un peso così grande gli elementi extra-musicali, dagli artwork dei dischi alla teatralità delle esibizioni. Metal Theory rende giustizia di questa complessità e di questa profondità, in una maniera eclettica e polimorfa che restituisce la vitalità di un genere e di un fandom.