Il liberty a Napoli / N'aria 'e Primmavera alle Gallerie d'Italia
Uno dei modi possibili, e meraviglioso, di conoscere Napoli, già percorse le sue piazze e le sue chiaie, frequentate le sue chiese, visitati i suoi musei e le mostre nei suoi spazi pubblici ed esplorate le sue viscere, è quello di fare un giro fra i suoi numerosissimi e opulenti palazzi nobiliari, spiandone l'intimità, o apprezzandone la destinazione divenuta pubblica, sempre in estasi di fronte alla loro magnificenza. È il caso di quello che sorge al numero 187 di via Toledo, Palazzo Zevallos Colonna Stigliano, ora sede delle Gallerie d'Italia, polo culturale e museale di Intesa Sanpaolo.
Opera dell'allora quotatissimo architetto e scultore bergamasco, naturalizzato napoletano, Cosimo Fanzago, il palazzo fu eretto fra il 1637 e 1639 su commissione di Juan de Zevallos, un facoltoso e spregiudicato faccendiere di origini iberiche che, secondo l'uso del tempo, si era comprato con monete sonanti il titolo nobiliare di duca, nella fattispecie quello di duca di Ostuni. Così prepotente era il suo bisogno di ostentare la propria ricchezza, che volle un palazzo talmente sfarzoso, da suscitare, come raccontano le cronache del tempo, addirittura la gelosia del Viceré di Napoli, il duca di Medina Don Ramiro Núñez de Guzmán (per la cui consorte, la Viceregina Donn'Anna Carafa, principessa di Stigliano, Cosimo Fanzago aveva già ricostruito il famoso Palazzo a Posillipo che porta ancora il suo nome e di cui ha scritto persino Matilde Serao).
Così come era stata rapida e rapinosa la scalata sociale degli Zevallos, altrettanto fu fulminea la loro rovina e, morto Juan, i suoi eredi, già nel 1653, dovettero vendere il palazzo. Lo acquistò il mercante fiammingo, mecenate e collezionista d'arte, Jan van den Eynden, che lo arricchì di straordinarie opere d'arte dando così avvio a quella vocazione museale che lo connota tuttora. Sebbene sul magniloquente portale fanzaghesco (o fanzaghiano che dir si voglia) campeggino ancora oggi le armi degli Zevallos, il palazzo acquisì presto i suoi altri due nomi di Colonna e di Stigliano, in virtù dei matrimoni delle due figlie di Ferdinand van den Eynden, erede di Jan: Giovanna, che sposò il principe di Sonnino, Giuliano Colonna ed Elisabetta, convolata a nozze con Carlo Carafa di Stigliano, marchese di Anzi (discendente della famosa Donn'Anna: così, alla fine, Don Ramiro Núñez, pervenne da morto, attraverso la sua prosapia, ad acquisire l’edificio che gli aveva fatto tanta gola in vita, con buona ed eterna pace dello Zevallos!).
Per il palazzo divenuto suo, il Carafa di Stigliano, anch'egli collezionista d'arte e mecenate, commissionò, tra l'altro, a Luca Giordano, di cui possedeva numerose opere, un affresco, oggi perduto.
Purtroppo, nella prima metà del XIX secolo, l'edificio cadde in rovina, i suoi ambienti frazionati e venduti o dati in fitto. Soltanto il piano nobile, acquistato dal banchiere Carlo Forquet, fu restaurato su progetto dell’architetto Guglielmo Turi, che, di lì a poco, avuto anche l'incarico di rifare la facciata, la improntò al gusto neoclassico, a cui era pervicacemente ancorata la ricca borghesia (per spirito di emulazione del gusto della nobiltà, a cui si era sostituita) eliminando – ahinoi – tutte le decorazioni sculto-architettoniche barocche del Fanzago, ad eccezione del portale in marmo bianco, con due pilastri bugnati laterali in piperno. Anche gli ambienti interni del piano nobile vennero rifatti secondo la moda del momento e arricchiti con stucchi e bassorilievi in bianco e oro, opera di Gennaro Aveta e con affreschi di Gennaro Maldarelli e di Giuseppe Cammarano, che andarono a sostituire i precedenti, compreso quello di Luca Giordano, al cui posto Cammarano dipinse, nel 1832, l’Apoteosi di Saffo e Apollo.
Tra il 1898 e il 1920 ci fu la progressiva acquisizione di varie porzioni dello stabile da parte della Banca Commerciale (nata a Milano nel 1894). Per adattarne gli spazi alla nuova funzione pubblica, venne fatto ricoprire il cortile con un lucernario in vetri multicolori nello stile floreale allora in voga, opera dell’architetto Luigi Platania, trasformandolo così nel luogo di rappresentanza ammirabile anche oggi. Platania rifece anche l’imponente scalone d’onore, con forme ibride, un po' neoclassiche e un po' liberty.
Oggi, il palazzo ospita una delle tre collezioni di arte figurava delle Gallerie d'Italia di proprietà del gruppo Intesa Sanpaolo, confermando così la vocazione museale che lo ha connotato fin dalle sue origini. Fra le 120 opere, tra pitture e sculture, di cui essa si compone, primeggia il Martirio di Sant’Orsola di Caravaggio (1610), l'ultimo quadro dipinto a Napoli dall'artista lombardo, soltanto poche settimane prima della sua tragica morte, capolavoro che fu acquisito al patrimonio della Banca Commerciale nel 1973.
Come in tutte le Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo (le altre due sono a Milano e a Vicenza), periodicamente, anche a Palazzo Zevallos si organizzano eventi espositivi. Dal 24 settembre 2020, al 24 gennaio 2021 vi si può ammirare la mostra Napoli Liberty. N'aria 'e Primmavera.
Curata da Fernando Mazzocca e Luisa Martorelli, con l'allestimento di Lucia Anna Iovieno, presenta al pubblico più di settanta opere d'arte, frutto della straordinaria diffusione dello stile floreale all’ombra del Vesuvio nel periodo compreso fra il 1889 e il 1915.
Il titolo della rassegna, N'aria 'e Primmavera, è mutuato da una strofa della poesia Marzo (1898) di Salvatore Di Giacomo:
Marzo: nu poco chiove
E n’atro ppoco stracqua
Torna a chiovere, schiove,
ride ‘o sole cu ll’acqua.
Mo nu cielo celeste,
mo n'aria cupa e nera:
mo d' 'o vierno 'e tempesta,
mo n'aria 'e Primmavera"
evocatrice di miti temperature propizie allo sbocciare dei fiori. E proprio Floreale era detta nel nostro paese quella corrente artistica, 'fiorita' alla fine del XIX secolo, dalle molte denominazioni. Si chiamò infatti Jugendstjl in area austro-tedesca, Art Nouveau in Francia, e fu preannunciata dall’antesignano movimento britannico delle Arts and Crafts di William Morris, ma universalmente è nota come Liberty, nome che le deriva da quello di Arthur Liberty, fondatore del famoso negozio londinese di Regent Street in cui venivano vendute stoffe a motivi floreali, appunto.
Nella mostra partenopea sono esposte opere di pittura, scultura, cartellonistica, gioielleria e manifatture diverse. Infatti, nella stagione del Liberty, l'Arte si è occupata anche di creare oggetti destinati a un uso pratico, senza che vi fosse, né da parte degli artisti interessati, né da quella del pubblico cui erano destinati e neppure da quella della critica, la canonica distinzione fra Arti Maggiori (architettura, pittura e scultura) e Arti Minori (oggetti d'uso). Una simile, eccezionale circostanza ha un unico precedente nella Storia dell'Arte europea, rintracciabile nel periodo che va sotto il nome di Gotico Internazionale (fine XIV, inizio XV secolo), con il cui linguaggio, contraddistinto dalla sinuosità delle linee, dall'acceso cromatismo, dall'opulenza e preziosità dei materiali impiegati o rappresentati e dai temi e soggetti laici prescelti, il Liberty ha notevoli affinità. Non a caso, entrambe le epoche sono state caratterizzate dall'ascesa al potere della borghesia, alla quale quel tipo di produzione artistica era destinata e che essa stessa commissionava agli artisti.
Napoli, al pari di Londra e di Parigi, è stata sicuramente patria della modernità, se non su quello industriale e produttivo, certamente il primato le compete sul piano artistico, grazie alla vivacità del dibattito culturale che vi si tenne tra la fine dell'ottocento e i primi due decenni del secolo successivo, soprattutto per la presenza in città di artisti di rilievo internazionale, quali, ad esempio, Vincenzo Gemito, e del raggruppamento di quelli facenti capo al movimento d’avanguardia denominato Secessione dei 23, nato a partire dal 1909 per iniziativa di Edgardo Curcio, Francesco Galante, Odoardo Pansini, Raffaele Uccella e Eugenio Viti, insieme agli scultori Costantino Barbella, Filippo Cifariello e Saverio Gatto. Napoli fu inoltre sede delle Esposizioni Nazionali e Internazionali, che richiamarono in città artisti provenienti da tutta Europa, con il conseguente esito di una rapida circolazione delle novità da essi portate. Ma il Liberty, a Napoli, interessò anche l'architettura (si legga qui), che caratterizzò il rinnovamento urbano del quale la città fu investita fino allo scoppio del primo conflitto mondiale.
Tra le opere di pittura esposte in mostra è Seduzioni (1906), di Vincenzo Migliaro, ad aver assunto, per la sua languida bellezza, testimone di quel tempo che fu, il ruolo di icona-manifesto della rassegna. Riproduce il volto di una fanciulla intenta a contemplare una vetrina dell'allora famosa gioielleria Jacoangeli, con gli occhi colmi di desiderio e, al contempo, di muta rassegnazione.
Alcune creazioni dal grande orfèvre Gaetano Jacoangeli sono esposte nella teca che si trova al centro dell'ultima sala della mostra, accanto ai gioielli di altri protagonisti dell'oreficeria napoletanoa, famosa nel mondo, quali Emanuele Centonze e Vincenzo Miranda. Vicino ad essi spiccano anche due sontuosi collier in corallo provenienti dal Museo della Scuola del Corallo di Torre del Greco, purtroppo ancora chiuso al pubblico, ma che merita di essere visitato.
In mostra, insieme alle altre, c'è anche un'opera di Almerico Gargiulo, uno dei maestri intarsiatori della Scuola d’arte di Sorrento, allora nota per la produzione di mobili decorati a intarsio. Si tratta di una petineuse, dal magnifico specchio appenso alla parete, eseguita alla maniera dei mobili di Carlo Bugatti, il mitico ebanista milanese preso a modello in patria e all'estero per la sua straordinaria inventiva e per la sua capacità di rinnovamento formale, preludio di modernità.
A conclusione della rassegna partenopea, quasi finestra sul futuro, sono esposti alcuni manifesti pubblicitari realizzati per i Magazzini Mele di Napoli e per la fabbrica di conserve Cirio, da nomi notissimi della cartellinistica italiana di levatura internazionale, come Leopoldo Metlicovitz, Marcello Dudovich e Leonetto Cappiello. Chiudono la rassegna i primi esempi di grafica editoriale applicata alle riviste di settore, con Vincenzo Migliaro e Pietro Scoppetta a firmare le prime pagine de ”Il Mattino” di Napoli, la rivista e le copertine dei numeri dedicati alla Piedigrotta, appuntamento rituale della canzone napoletana, stampate dalle Arti Grafiche Ricordi o dall’Editore Bideri, celebri stampatori dei periodici musicali del tempo.
Infine, è di scena la rivista L'Arte Muta, pubblicata a Napoli tra il 1916 e il 1917, "una delle esperienze più originali e pregevoli, in Italia, di collaborazione tra industria cinematografica, editoria e arti grafiche. Nel periodico si pubblicizzano i film di molte case cinematografiche italiane del tempo. Collaborarono a L'Arte Muta vari disegnatori attivi a Napoli e nel resto d'Italia, i quali realizzarono splendide illustrazioni di genere decorativo, realistico o caricaturale, a tema cinematografico. La rivista era un prodotto editoriale lussuoso che racchiudeva molti altri oggetti grafici prodotti con vari tipi di carta: tavole con ritratti di attrici; montaggi di fotografie di scena; libretti illustrati sulle trame delle pellicole; locandine e cartoline estraibili."
Il desiderio di rinnovamento degli stili di vita, preludio e annuncio di modernità, serpeggia, insomma, tra le sale di Palazzo Zevallos che ospitano la mostra, come n'aria 'e Primmavera che è assai piacevole respirare.