Sulla scena del crimine
La scena del crimine è l’insieme dei luoghi e dei percorsi nei quali si è compiuto il crimine: anche se in un’indagine ricostruttiva mancano i testimoni o il movente, essa è sempre presente, più o meno estesa, più o meno complicata, ma immancabilmente pronta per essere analizzata. Si tratta, in realtà, di un bacino di informazioni compresse, nascoste, poliedriche, di varia natura (fisica, chimica, biologica, logica, comportamentale) che devono essere percepite, recepite, lette, decriptate, elaborate, organizzate per ricavare segni utili. Non è un caso che ne abbiano colta la suggestiva rilevanza anche gli sceneggiatori con serie televisive di successo come la tedesca “Tatort”, in onda tuttora dal 1970. Per scendere nello specifico esistono alcuni distinguo. Lo spazio territoriale coinvolge i luoghi geografici e topografici, le aree, i percorsi, i tragitti dell’agire deviante. Esiste poi lo spazio concettuale, cioè il processo di astrazione che porta alla rappresentazione logica degli eventi, dei comportamenti dei personaggi. Esiste ancora lo spazio virtuale, cioè l’ambito ideativo, congetturale che può dar vita a possibili simulazioni.
Sulla scena del crimine gli elementi si sovrappongono, si dividono, si dipanano, si riuniscono sia nella zona “primaria” dov’è avvenuto il fatto o dove è stato rinvenuto il cadavere, sia in quella “secondaria” o prossima dove probabilmente l’autore anche solo è transitato. Infatti, se anche per ipotesi non vi sono state azioni dirette dell’autore in quel luogo, è statisticamente probabile che vi abbia lasciato una traccia, per esempio uno o più capelli o peli a seconda del lasso di tempo in cui vi è rimasto. Secondo la “Teoria dell’interscambio” elaborata nel 1910 da Edmond Locard, ciascuna componente (reo/mezzo lesivo, ambiente, vittima) lascia qualcosa di sé all’altra e/o trattiene su di sé qualcosa appartenente all’altra. «Quando due oggetti entrano in contatto, ognuno lascia sull’altro qualcosa di sé; quindi un individuo che commette un crimine lascia qualcosa di sé sulla scena del crimine e, parallelamente, qualcosa del luogo del delitto rimane sul reo». Da questo dinamico “interscambio” deriva un effetto statico, cioè la scena del crimine risulta composta quindi dall’ambiente, dal cadavere, dalle tracce biologiche e non biologiche.
La scena può poi non rimanere intatta a causa di fattori in grado di alterarla. È la contaminazione, cioè l’introduzione nella scena o su un suo reperto di elementi che ne corrompono la natura originaria rendendo incerto il dato. Si può declinare in vari tipi, dalla dispersione quando le tracce vengono cancellate o rese indisponibili, all’alterazione spaziale quando vengono spostate, alla contaminazione indotta quando vengono introdotti elementi spuri non appartenenti originariamente alla scena.
In questo contesto si colloca il saggio di Federico Boffi Lucarelli, Scienza e giustizia. Dinamica della scena del crimine (Armando, 2024), specialista della materia scientifica e come tale operante all’interno della Polizia. Con questa lettura ci si immerge nel mondo della criminalistica che studia specificatamente le procedure di laboratorio sulle tracce.
Si è ormai lontani dall’impegno volontaristico e sperimentale del passato, come quello che si legge nella ricerca di Porret relativa ai secoli 1700-1800 (Sul luogo del delitto, Casagrande, 2007). In questi ultimi anni la scienza e la tecnologia hanno fatto ingresso irruente negli accertamenti giudiziari anche iniziali come nel sopralluogo. È stato fatto così sempre più frequente ed invasivo ricorso alle “prove scientifiche”, cioè a quelle conoscenze che approfondiscono gli aspetti non giuridici ma con loro concorrenti per ricostruire eventi ancora oscuri. Da sempre infatti il giudice è in grado, per strumenti o preparazione, di occuparsi principalmente di due investigazioni: quella documentale cioè interpretare lo scritto, e quella testimoniale cioè interpretare il dire. Ben presto però sono subentrati gli esperti, quello grafologico per il primo versante (si pensi al processo Dreyfus e come è stato risolto), quello psicologico per il secondo (si pensi agli psicologi soprattutto nelle vicende di abusi sessuali). Ma esistono alcuni nodi che per gli studi svolti, la preparazione acquisita, la selezione professionale stabilita per legge non possono essere sciolti.
Negli anni passati erano coinvolte le scienze tradizionali cosiddette ‘dure’, tra cui svettava l’antropologia di stampo lombrosiano. Oggi si sono affiancate le cosiddette ‘nuove scienze’, cioè quelle talora in via di affermazione che impiegano nuove tecnologie, dalle neuroscienze alla chimica, dalla medicina nel suo eclettismo all’esame del sangue secondo protocolli del BPA, dalla ricerca delle tracce ematiche con i tamponi adesivi all’epidemiologia, dalla ingegneria specialistica nei processi colposi alla tossicologia, dalle impronte digitali al DNA, dall’informatica del cyber crime ai flussi comunicativi (per un quadro scolastico ma seducente Val McDermid, L’anatomia del crimine, Codice edizioni, 2016). E il momento iniziale dell’indagine con la scena del crimine in questo senso è una collaudata palestra.
Il saggio ricorda e si intrattiene su procedure ricostruttive come la microscopia ottica, la grafica 3D e così ancora le videoriprese full HD, il luminol o le lampade multi lunghezza d’onda, l’uso di anticorpi monoclonali. Dal 2017 in Italia esiste in particolare la Banca Dati Nazionale del DNA nella quale sono raccolte migliaia di profili genetici per identificare le tracce biologiche ritrovate. Al momento contiene 55 mila profili di persone note e 30 mila tracce biologiche acquisite sulle scene del crimine. Le persone sottoposte al prelievo biologico sono state finora 285 mila e sono ancora da inserire circa 200 mila profili. Nel solo 2022 sono stati immessi 6 mila campioni di DNA ignoti e 14 mila profili genetici di persone arrestate o detenute. La legge n. 85 del 2009 affida tra l’altro al Garante dei dati personali il controllo sulla BDN-DNA (l’acronimo della Banca Dati), che si propone di facilitare l’identificazione degli autori di delitti. I profili del DNA restano inseriti nella Banca Dati per 30 anni, periodo che sale a 40 anni nel caso in cui sia ripetuto un reato da parte di chi è già stato condannato. Trascorsi i 30 o 40 anni il profilo viene cancellato.
Ma, ci si potrebbe chiedere, ha ancora un ruolo la fotografia in questo pulsare di modernità? Esiste un collegamento tra crimine e fotografia oppure è solo un’occasione espositiva? Come ha notato W. Benjamin, il legame esiste ed è robusto. Innanzitutto entrambi, crimine e fotografia, perseguono l’identico obiettivo dell’oggettività frutto del positivismo e del proposito di sganciarsi dalla soggettività. Entrambi, crimine e fotografia, manifestano poi un conclamato interesse verso le cose e i loro indicatori, con la volontà di catalogare, di sconfiggere l’anonimato, di identificare i soggetti pericolosi. Persone ora scolorite quali A. Bertillon, capo del servizio di identificazione della Prefettura di Parigi a fine Ottocento, e U. Ellero, inventore nel 1908 dello strumento per le foto gemelle, di faccia e di lato, hanno aperto una strada, ripercorsa storicamente da A. Gilardi (Wanted Mazzotta,1983).
Ne è stato consapevole James Ellroy in Un anno al vetriolo, Los Angeles Police Department 1953 (Contrasto, Roma, 2016, vedi la recensione su Doppiozero) nel commentare le foto della LAPD (Los Angeles Police Department) tratte dall’archivio 1953. Sangue per le strade, case macchiate da delitti, corpi straziati, personaggi sradicati rappresentano un passato che allora era il presente, in quanto la fotografia fornisce un’‘istantanea permanente’. Da un lato strappa silenziosamente dal contesto un istante, lo eternizza, ne arresta il flusso temporale, a differenza ad esempio della narrazione che invece lo struttura. Dall’altro quell’istante, pur espressione di soggettività, ha una vita permanente che si protrae dall’attimo fissato al momento dell’osservazione. La fotografia è muta ma parla nel tempo e si propone come contemporanea.