11 febbraio 1963 / Sylvia Plath: il richiamo fatale della perfezione
11 febbraio 1963; è un lunedì gelido a Londra. L’inverno di quell’anno viene ancora oggi ricordato come uno dei più terribili: la neve non smette di cadere dal giorno di Natale; il traffico è paralizzato e le strade sono rese impraticabili da pericolose lastre di ghiaccio. Uscire di casa risulta un’impresa ardua, ma, a dire il vero, il rimanervi chiusi all’interno lo è altrettanto: l’acqua gelata fa esplodere le tubature, mentre le centraline elettriche subiscono continue interruzioni, impedendo agli impianti domestici di funzionare.
È appena giunta l’alba. Sylvia Plath è sola, dopo la separazione dal marito, l’affascinante Poeta Laureato inglese Ted Hughes. Il nuovo anno è iniziato all’insegna delle difficoltà: il suo fisico è fortemente debilitato; prima i bambini, e poi lei, contraggono una brutta influenza che li costringe a letto per un’intera settimana. Persino le inusuali premure e l’eccessiva vicinanza di Ted, che in quei giorni fa spesso visita ai figli Frieda e Nicholas, riescono a turbarla: il rancore, la rabbia nei confronti del marito prendono il soppravvento. In una vita scandita da abbandoni, quest’ultimo è riuscito ad accendere in lei un fuoco completamente nuovo. Sylvia è preda di un’energia violenta, indomabile, che trae linfa anche dalla furia che il tradimento del marito è riuscito a scatenare.
Ciò che accadde quella mattina è un fatto ormai noto. Chiusa nel suo appartamento al numero 23 di Fitzroy Road, interno un tempo abitato dal poeta William Butler Yeats, uno dei suoi massimi ispiratori, Sylvia poggia sul comodino della stanza dei figli due bicchieri di latte e del pane, e dopo aver sigillato con nastro isolante e asciugamani bagnati la porta della cucina, abbassa lo sportello del forno, apre il gas e vi infila la testa all’interno. Muore asfissiata dal monossido di carbonio. Il suo corpo, riverso sul pavimento, viene trovato dall’infermiera che il dottor Horder, suo medico curante, aveva reclutato perché badasse a lei, e da un operaio, che aveva aiutato la malcapitata a sfondare il portone d’ingresso.
Sono queste le coordinate spazio-temporali ed emotive in cui collocare il tragico epilogo di una delle più affascinanti voci poetiche americane.
L’alba era solitamente l’ora da lei privilegiata, quell’ora che le pareva «quasi eterna perché precede il canto del gallo, le urla del bambino, la musica tintinnante del lattaio mentre posa le bottiglie»; era l’ora poeticamente più produttiva, l’ora che la salvava dalla terribile routine quotidiana.
Ogni sera, per addormentarsi, Sylvia prende un sonnifero che puntualmente alle quattro del mattino cessa il suo effetto. Sylvia allora si alza, prepara il caffè, sale nel suo studio, al piano superiore dell’appartamento, e inizia a comporre, fino a quando, intorno alle sette, avverte che i bambini si sono svegliati. Sylvia è così costretta a interrompere quel momento che avrebbe voluto eterno per iniziare una nuova giornata, quella che la riporta ai suoi doveri di donna e madre, due ruoli che la poetessa ha sempre vissuto in modo ambiguo, quasi con un certo rifiuto prima («La perfezione è terribile, non può avere figli», è questo il verso d’apertura di The Munich Mannequins) e con dedizione poi, un po’ per perseguire gli insegnamenti improntati al rigore impartitile dalla madre Aurelia, un po’ perché convinta che la maternità potesse tradursi in una preziosa occasione di creatività poetica, un’occasione per sperimentare la sua femminilità fino in fondo (come lei stessa aveva appuntato in una pagina giovanile dei suoi diari, quella del 10 gennaio 1953). Ma, ancor di più, perché Sylvia ha sempre ambito a raggiungere la pienezza del tutto, ha sempre rincorso la possibilità di “essere tutto”: figlia, scrittrice, moglie, madre; sono queste le maschere che la poetessa di volta in volta indossa per assecondare il desiderio altrui, mentre si sforza contemporaneamente di mettere a tacere il proprio, che sa essere pericoloso e inarrivabile.
È a partire da questo ritmo serrato, metodico, scandito con estrema meticolosità, che vide la luce la maggior parte delle poesie più note, oltre che più riuscite, di Sylvia Plath, quelle confluite nella raccolta Ariel, curata dal marito e pubblicata postuma nel 1965 per la casa editrice inglese Faber and Faber.
La ricerca della perfezione la ossessiona, sin da ragazzina, quando addirittura aveva preso l’abitudine di imporsi un numero preciso di pagine da scrivere ogni giorno; la pagina bianca, «virginale» come spesso viene appellata nei suoi diari, è una minaccia, una nemica crudele pronta a farla ricadere nel nulla. «La mia vita è una disciplina, una prigione: vivo per il mio lavoro, senza il quale non sono niente. La mia scrittura. Nient’altro importa»: della scrittura Sylvia ha bisogno, come se attraverso i suoi versi cercasse di conferire una forma stabile alla sua esistenza; come se quei versi fossero prova e testimonianza di un’esistenza realmente e personalmente vissuta, di contro a quel costante senso di nientificazione che le provoca angoscia e continui sbalzi d’umore. Il terrore di ricadere nel nulla come punizione per aver ambito al tutto.
E ancora, in data 27 settembre 1958, Sylvia annota: «La scrittura è la mia sostituta: se non ami me, ama quello che scrivo, amami per questo». Qualche riga più sotto, in carattere maiuscolo: «LA MIA SCRITTURA È LA MIA SCRITTURA È LA MIA SCRITTURA». Sylvia si sforza di ribadire il possesso di quella scrittura, e sembra quasi di sentirla urlare quando scrive È LA MIA; sa che quei versi sono espressione della “vera lei” contro i winnicottiani “falsi sé” che ha imparato a esibire pedissequamente – la madre l’ha istruita bene – nella vita di tutti i giorni.
Questa routine, tuttavia, si interruppe drammaticamente la mattina dell’11 febbraio. Qualcosa in lei era mutato. Era un lunedì, un giorno della settimana molto particolare per Sylvia; il lunedì aveva sempre assunto ai suoi occhi una valenza simbolica nefasta, negativa. The Everlasting Monday, scriveva. Il lunedì eterno: e, in un certo senso, era proprio all’eterno che Sylvia stava mirando quella mattina.
Capelli biondi, labbra colorate di rosso, gambe lunghissime, abbigliamento sempre alla moda e temperamento decisamente “eccessivo”: ebbene sì, Sylvia non si conformerà mai al rigore e alla sobrietà British.
Giunge in Inghilterra da Boston nel settembre 1955, a bordo della Queen Elizabeth II, solcando l’immensa distesa oceanica di cui fino a quel momento aveva solo potuto osservare l’orizzonte, seduta sulle spiagge di Winthrop. L’oceano, l’elemento acquatico, riveste non a caso un’importanza particolare per Sylvia Plath: come scrive in Finisterre, «è innamorata della meravigliosa informità del mare», è attratta dal suo continuo movimento, al punto da sentirne il respiro; lo personifica e ad esso lega la propria scrittura e, di conseguenza, la propria identità. L’oceano diviene la «metafora centrale» a cui Sylvia attinge per ripercorrere a posteriori la propria infanzia, i significati che ad essa si accompagnano, nonché il momento d’origine della propria investitura da poeta.
Il mare inglese non sarà mai il suo mare; guarderà sempre verso l’altra sponda, quella americana, con nostalgia e, come ogni esule, con un poco di rimpianto. In Ocean 1212-W, un breve racconto composto presumibilmente nel 1963 per la serie radiofonica Writers on Themselves, racconto il cui titolo riprende l’indirizzo postale della casa dei nonni, Sylvia scrive: «Il paesaggio della mia infanzia non è stato la terra ma la fine della terra: le mobili colline fredde e salate dell’Atlantico. A volte penso che l’immagine del mare sia la cosa più netta e sicura che possiedo». L’acqua come la scrittura: sono queste le uniche dolorose certezze che possiede.
Dopo essere sbarcata a Southampton, e dopo aver organizzato una breve visita alla capitale inglese, Sylvia parte alla volta di Cambridge, dove può perfezionarsi grazie ad una borsa di studio Fulbright. Desidera conoscere la letteratura inglese da vicino; desidera ibridarsi, come prima di lei avevano fatto i suoi connazionali Ezra Pound e T.S. Eliot.
Come scrive nelle lettere indirizzate alla madre e al fratello Warren, in Inghilterra Sylvia Plath trova finalmente «qualcosa di concreto» di cui occuparsi, un ambiente intellettualmente stimolante dove poter completare la propria formazione. Non da ultimo, incontra e sposa Ted Hughes, al tempo un giovane poeta anticonformista, tra i fondatori della rivista culturale The St. Botolph, un uomo che presto sarebbe diventato il suo “colosso” – a lui Sylvia ha dedicato l’unica raccolta poetica pubblicata in vita, nel 1960, che reca il titolo emblematico The Colossus & Other Poems – l’uomo che le avrebbe fatto da marito, da compagno con cui poter condividere la passione della scrittura e, non da ultimo, da padre, perché era questo che lei cercava in ogni uomo, quell’autorità che dopo la morte del padre Otto aveva sempre ricercato come bussola. Così scriveva: «La scena: una ragazza alla ricerca del padre morto – di un’autorità esterna che invece deve nascere da dentro».
È il 1957 quando Sylvia decide di tornare in America per insegnare letteratura inglese allo Smith College, proprio lì dove lei aveva studiato: Ted la asseconda, rimane al suo fianco, e nel frattempo, proprio grazie agli sforzi e all’ostinazione con cui la moglie aveva battuto a macchina i suoi manoscritti da inviare agli editori, riesce a pubblicare con successo la sua prima raccolta, dal titolo The Hawk in the Rain. Sylvia è fiera del marito, è contenta di essere riuscita nell’intento di portare la poesia di Ted Hughes nel suo paese natale, e si rallegra quando vede che gli americani stessi apprezzano Hughes, gli porgono volentieri l’orecchio. Si sente partecipe del successo del marito; sa che molto dipende da lei ma, allo stesso tempo, teme di non essere alla sua altezza; teme di non essere sufficientemente brava: «Vivrò in lui finché non vivrò da sola», questo è il proposito.
Sylvia incassa anche l’approvazione della madre, fiera delle scelte così mature e responsabili della figlia. Tuttavia, qualcosa le impedisce di essere davvero felice: il tempo da dedicare alla poesia si è drasticamente ridotto, e gli impegni accademici assorbono completamente le sue forze. Passa un anno, e nel gennaio 1958 prende la decisione definitiva: «È l’anno in cui smetto di insegnare e inizio a scrivere. Fiducia di Ted: non aspettarti troppo, scrivi e basta, ascolta te stessa, butta giù».
Sylvia è coraggiosa oltre che determinata. Sa che quello è il suo destino e accetta la sfida che la poesia le ha lanciato; Ted al contrario, ha sempre mostrato maggiori perplessità; ama scrivere, certo, ma a differenza della moglie, non è sicuro di dedicare anima e corpo alla poesia. Sylvia invece non ha dubbi: programma il suo rientro in Europa, pur consapevole che lei e Ted dovranno superare numerose difficoltà, non solo economiche.
Si potrebbe quasi affermare che era proprio questo ciò che Sylvia stava cercando in Europa, lo scopo della sua quête oltreoceano. Sylvia giunge coraggiosamente nel Vecchio Continente alla ricerca di un’espressione che possa essere forte, autentica. Perfetta, appunto. Nella scrittura Sylvia non cerca meramente fama e riconoscimenti. La sua ambizione mira molto più in alto; i suoi versi risuonano come una promessa di trascendenza. A riprova del suo coraggio, scrive: «Non posso chiedermi più del massimo ma solo io so dove finisce il mio massimo. Sta a me scegliere: scappare dalla vita e annientarmi definitivamente perché non sono in grado di essere perfetta da subito, senza fatica e fallimenti, o affrontare la vita a modo mio e “lavorare al meglio”». Il raggiungimento della perfezione costa sacrificio e fatica, Sylvia ne è consapevole. Ma questo non la spaventa: è un’allieva diligente, instancabile e, prima ancora, è una donna estremamente dotata che dichiara di conoscere i propri limiti e di volerli superare.
Qualcuno potrebbe domandarsi: che ne è stato di questo coraggio, di questa determinazione, la mattina dell’11 febbraio 1963? Perché Sylvia decise di darsi la morte? Come interpretare questo suo tragico gesto?
Nella prefazione alle Lettere, Aurelia Schober Plath, che curò personalmente la pubblicazione della corrispondenza con la figlia, scrive: «Nonostante i suoi sforzi per mantenersi con dignità e bravura all’altezza della sua esperienza di vita, un giorno più cupo del solito le aveva fatto apparire temporaneamente impossibile tirare avanti». Il suicidio di Sylvia Plath, dunque, sarebbe il gesto disperato compiuto da una donna emotivamente esausta, stanca di far fronte a una vita che non l’aveva risparmiata da sofferenze. L’esposizione prolungata al dolore, prima a causa del lutto paterno e poi a causa del tradimento del marito, l’aveva resa estremamente fragile e vulnerabile.
È altrettanto vero però che, malgrado gli sforzi compiuti, Aurelia aveva sempre faticato a comprendere la figlia, a stabilire con lei una sintonia, al punto tale che agli occhi di Sylvia rimase sempre Medusa, il mostro pronto a soffocarla con i suoi «tentacoli anguilleschi», «un orrido Vaticano» che osserva ogni sua minima mossa e le toglie il fiato.
Parimenti discutibili, oltre che ingenue, risultano essere quelle interpretazioni che non si allontanano dal dato biografico e leggono dunque la poesia di Sylvia Plath in termini di produzione femminista o confessionale (secondo la terminologia coniata da M. L. Rosenthal, che fu forse il primo ad affiancare il nome di Sylvia Plath alle produzioni di Robert Lowell e Anne Sexton).
Si tratta di letture in un certo senso irrispettose verso la grandezza di una voce poetica come quella di Sylvia: come si può anche solo pensare che le ragioni del suicidio della poetessa siano da imputarsi unicamente al tradimento di Ted Hughes? Come se ci trovassimo di fronte ad una donna qualunque, sconsolata, frustrata. Sylvia ha sempre detestato gli stereotipi: spesso se ne è servita nelle sue poesie, certamente, ma a partire da un tono chiaramente ironico e irrisorio (si pensi alla «living doll», a quella bambola viva e accondiscendente verso le esigenze maschili, che sa cucire, cucinare e pure parlare, descritta in The Applicant).
Quella di Sylvia è stata un’esistenza straordinaria, nel senso letterale del termine: un’esistenza fuori dall’ordinario. Per comprendere il suo gesto è necessario rivolgersi a lei appellandosi a ciò che era prima di ogni altra cosa: una poetessa. Non bisogna dimenticare che Sylvia vive e muore da poeta.
Nella morte è certamente racchiuso il segreto stesso della poesia di Sylvia Plath. Mentre scrivo queste righe, mi torna alla mente il quadro forse più conosciuto di Hans Holbein, Gli ambasciatori, il quale ospita la raffigurazione di un teschio, di un presagio di morte che tuttavia, se osservato frontalmente non è possibile notare. Quello che a un primo sguardo sembra solo una macchia, o tutt’al più una presenza informe, una figura indecifrabile, se osservata lateralmente, cioè a partire da un diverso punto di vista, acquista la sua vera identità. Lo stesso discorso potrebbe valere anche per Sylvia Plath: il punto di vista del femminismo non basta per comprenderla, così come lo psicologismo spicciolo. Serve direzionare il nostro sguardo altrove.
Nel corso della sua breve esistenza, Sylvia ha sfidato la morte di continuo; ha fatto a gara con l’amica Anne Sexton per decretare chi delle due fosse più abile a flirtare con la dama nera. Ne era attratta. C’è da dubitare, tuttavia, che la poetessa abbia ricercato nella morte una soluzione finale, l’acquietamento di tutti i desideri e delle passioni più moleste. Al contrario, come scrive lei stessa in Lady Lazarus, «dying is an art»; morire è un arte, e Sylvia lo sa fare in modo magistrale.
Sylvia sembra ricercare continuamente il suicidio come possibilità di accesso a una nuova vita: era poco più che una ragazzina quando nel 1953 tentò di togliersi la vita per la prima volta. Ciò a cui Sylvia ambisce attraverso la morte non è l’annullamento del dolore: a quello è abituata; la sofferenza l’ha messa alla prova più volte e ha forgiato il suo carattere. Nella morte Sylvia ricerca piuttosto una metamorfosi, un’occasione di rinascita; ne è convinta: come Lazzaro, anche lei sfiorerà la fine per poi risorgere dalle proprie ceneri, completamente nuova e liberata da ogni oppressione. Ancora una volta, perfetta.
Sylvia non era mai riuscita a mettere a tacere quel murderous self – così lo definisce nelle pagine del suo diario, in data 1 ottobre 1957 – quel mostro che scalciava sul fondo dell’anima, minaccioso e affascinante allo stesso tempo. L’aveva domato, sì, attraverso una creazione poetica sapiente, ragionata. Ma con quale risultato? Le poesie composte fino a quel momento erano poesie «nate morte»: «Queste poesie non vivono. È una triste diagnosi»; ecco l’amara conclusione a cui giunge rileggendo a-posteriori le liriche contenute nella sua unica raccolta pubblicata in vita, The Colossus.
La perfezione a cui lei ambisce richiede uno sforzo in più; la cura formale non è sufficiente: deve lasciare che sia il mostro dentro di lei a comporre.
Questo è ciò che effettivamente accadde tra l’ottobre del 1962 e il febbraio del 1963: Sylvia scrive le sue ultime poesie, che la critica all’unanimità ha giudicato come le più riuscite, sotto la dittatura di una voce violentemente espressiva, visionaria. Sylvia scrive fino all’ultimo giorno: Lady Lazarus, Tulips, Elm, Ariel, Lesbos, Medusa, Daddy, Getting There… solo per citarne alcune, le più note; si tratta di poesie straordinarie, dotate di una drammaticità nuova, struggente, intensa, per la cui riuscita forse contribuirono anche la rabbia e il rancore covati in seguito al tradimento di Ted Hughes. Del resto, Sylvia e Ted si influenzarono in molti modi; le loro poetiche, seppur molto diverse, risulterebbero incomprensibili se non relazionate l’una all’altra. Si iniziarono reciprocamente alla poesia e il loro stesso matrimonio divenne il bacino da cui attingere per le loro creazioni. Le mancanze, i tradimenti, i silenzi, gli abbandoni … erano anch’essi una parte – per quanto dolorosa – del mistero che ammanta la loro unione.
«The woman is perfected»… Sì,la donna è ora perfetta. Con questo verso, davvero l’ultimo – Edge porta la data del 5 febbraio 1963 – Sylvia sceglie di congedarsi dal mondo: come suggerito dal titolo, forse sperava di tornare, di restare in una sorta di limbo che le permettesse di sfiorare la morte senza necessariamente soccombere. Ma, in quel momento, prevalse l’ebbrezza di aver raggiunto il suo scopo, quello per cui sentiva di essere nata: «i suoi piedi/nudi sembrano dire:/ siamo arrivati fin qui, è finita».