Conversazione con Gianni Celati / Teatro come incantamento

21 Maggio 2016

 

Il 28 e 29 maggio, a Reggio Emilia, «Dedicato a Gianni Celati». Qui il programma dell'evento.

 

 

Vorrei capire come mai sei arrivato alla scrittura teatrale così tardi, con Vecchiatto. In molte tue opere narrative si sente un’ispirazione quasi teatrale, e i tuoi personaggi sembrano corpi su una scena, maschere contemporanee...

 

È che sono sempre stato un po’ respinto dal teatro come si pratica ai nostri tempi, questo teatro dove gli attori fanno finta di scambiarsi battute in una lingua fintamente quotidiana, con in più la finzione che il pubblico non ci sia. Possiamo chiamarlo teatro borghese. Ma è l’essenza di tutte le abitudini nel teatro occidentale.

 

Il teatro borghese pretende di rimandare a una realtà…

 

Io direi che la sua regola si può formulare così: ‘Tu spettatore stai vedendo in scena dei fatti di vita come li avresti visti se fossi stato presente quando si svolgevano”. Di qui la necessità di costose messinscene, che più sono costose e più somigliano a quelle case-museo dei nuovi ricchi. Il pubblico è come se spiasse da fuori quello che si svolge in casa d’altri.

 

Si deve guardare la scena come se si avesse di fronte un pezzo di realtà non perturbata dall’osservazione…

 

Il nostro è un teatro per spiare delle scene di vita dall’esterno. Però poi gli attori debbono dare intensità a questa finzione rappresentativa, allora usano toni espressivi e modi di articolare le parole che in un dialogo quotidiano sarebbero ridicoli. Ed ecco quelle pause da attore, gravide di significati. Ecco quei gorgogli di gola per far sentire l’emozione che ribolle. A parte gli urli e i sopratono patetici, per drammatizzare frasi molto trite...

 

Rappresentazione della realtà più quotidiana ed enfasi teatrale: sembrano due sistemi di epoche diverse, coesistenti e in conflitto. Uno antieroico, novecentesco, smitizzante. L’altro romantico, sopravvissuto con la tecnica degli attori...

 

Una volta da giovane mi hanno cacciato fuori da un teatro insieme ad alcuni amici, perché eravamo nelle prime file e ci siamo messi a ridere come dei matti quando un attore con cipiglio tragicissimo ha pronunciato la battuta: “Le patate bruciano!”. Quelle patate che bruciano, espresse col tono d’una tragedia psicologica universale, rimane per me un riassunto del nostro teatro.

 

Il che non vuoi dire che sia tutto da buttar via.

 

No, ma conosco tanta gente che non ha nessuna voglia di andare a teatro e non gli do torto. Perché a teatro anche lo spettatore deve portare il peso della finzione rappresentativa, sforzandosi di vederci qualcosa che dovrebbe somigliare a una scena di vita privata, altrimenti quello che vede non ha senso. Questo è molto faticoso ed è uno sforzo che lo spettatore di solito sopporta solo perché è già catturato nell’altra messinscena dei rituali sociali... Pensa invece come è rilassante andare al cinema...

 

Va bene... Ma potresti dirmi cos’è il teatro, per te?

 

Il teatro fa parte delle abitudini e nelle abitudini di solito ci si immerge con la naturalezza degli animali. Poi viene il giorno in cui si resta fulminati da qualcosa di un po’ diverso e tutto cambia. Per me è stato il Parlamento di Ruzante, che ho visto quand’ero molto giovane, recitato non so più da chi. Da allora Ruzante è stato per me il teatro. Specialmente il Parlamento e Bilora, perché sono due monologhi con un personaggio che fa da spalla al primo recitante per stimolarlo a rilanciarsi nella sua verbigerazione. E questa è anche la struttura di Vecchiatto, se ci pensi.

 

Una struttura elementare, quasi primaria…

 

Io so che non darei via il Parlamento di Ruzante per tutto Goldoni e Alfieri e Pirandello e Ibsen messi assieme. Cechov invece no, me lo terrei stretto... Non c’è lingua teatrale più stilizzata di quella di Ruzante. Se uno la impara a memoria sente che tutti i passaggi sono scivolamenti per scatti sonori, ritmici, timbrici, nell’andamento stilizzato degli umori. Non è un dialogo, ma una verbigerazione, uno sfogo di umori con un sistema ritmico percussivo straordinariamente accentuato. Ad esempio: “Cancaro ai campi e la guera e ai soldé, e ai soldé e la guera”.

 

Il tuo amore per Ruzante ci porta a un teatro lontanissimo da quello che descrive scene di vita borghese. Siamo vicini al mondo delle maschere, a un universo arcaico dove la lingua quasi determina la realtà.

 

Pensa ad esempio al teatro Nô, dove la recita di solito comincia con un personaggio che viene in scena e dice al pubblico: ‘Voi avete davanti un viaggiatore che viene da lontano. Ho camminato tanto e vengo qui per far questo o quest’altro”. In questo teatro tutto comincia con un racconto del genere e non c’è la finzione che il pubblico non esista, né che la scena sia un luogo quotidiano dove i fatti si stanno svolgendo sotto i nostri occhi...

 

È un impianto più narrativo, come più narrativo era l’impianto del Parlamento di Ruzante. Qui la lingua con il suo stile crea un alone di realtà e l’unica realtà è la lingua, la relazione del parlare e dell’essere percepiti.

 

La cosa che più mi interessa nel teatro Nô è che niente succede in scena, tutto è sempre già successo. Non c’è azione, non ci sono fatti, ma c’è una continua evocazione di storie già accadute, di cose leggendarie o sognate. Non c’è neanche un sistema di battute per dire la psicologia d’un personaggio. Un personaggio può dire “io” ma poi il suo discorso può essere continuato in prima persona dal coro o da altri. Il che vuol dire che non contano i fatti da rappresentare, né l’interiorità delle persone, ma solo le parole che si spandono nello spazio come un incantamento.

 

Così arrivi all’idea d’un teatro sonoro, la cui sostanza è la materia della voce, non corrotta dall’enfasi della teatralità.

 

Certo. Però sto cercando di dire che nelle nostre latitudini è quasi impossibile scrivere per un teatro del genere. Cioè è difficile pensare a parole che possano essere modulate da una voce con tonalità non esteriori, senza gridare o miaulare in modo patetico per agganciare il pubblico svampito. Dico che è ben difficile trovare attori che siano disposti a rinunciare ai loro artifici convenzionali. Quello che si ascolta nei nostri teatri è di solito uno standard di effetti professionali, dove la tonalità delle battute diventa più o meno sempre la stessa, qualunque cosa si reciti. E raramente si sentono tonalità meno esteriori, meno di maniera...

 

Tu rifiuti la teatralità del naturalismo, le enfasi recitative del teatro borghese. Ma non per questo neghi il teatro. Anzi, il confronto tra la voce e il pubblico per te sono stati essenziali. Molti tuoi scritti, prima di pubblicarli, li sei andati a recitare in giro. Hai letto e raccontato, in diversi modi e occasioni, opere di Omero, Boiardo, Ariosto, fino a Delfini e altri contemporanei.

 

In queste recite cerco più che altro una stilizzazione della lingua. E quando la trovo è già una recita teatrale, ossia lo spartito per una recita teatrale senza bisogno di altre messe in scena.

 

Quali esperienze teatrali ti hanno più colpito?

 

Con tutti questi anni di frequentazione dei teatri, gli spettacoli che mi restano in mente perché mi hanno toccato si contano sulle dita. Può darsi ci siano altre cose molto interessanti da noi, ma io non abito in Italia da quindici anni. Alla rinfusa: 1) un Cechov di Peter Brook, che andavo a vedere tutte le sere quando stavo a Parigi e mi dava un sollievo come tornare tra amici, 2) uno spettacolo di Klaus Grüber con Jeanne Moreau, che andavo inseguendo per i teatri della Normandia, 3) un Beckett con Jack McGowen, però solo sentito in un nastro, e altri Beckett messi in scena in Inghilterra, 4) dei recitativi di Heiner Müller messi in scena da un mio amico a Bobigny, 5) uno recente di questa straordinaria attrice irlandese Fiona Shaw, che recitava The Waste Land di T.S. Eliot, a Londra, 6) poi quello di Ermanna Montanari, Lus, teatro sonoro meraviglia, canto della lingua, visto a Ravenna, 7) poi spettacoli africani vari.

 

Ai punti estremi del Novecento stanno i diversi sguardi sulla vita quotidiana di Cechov e di Beckett. Cosa pensi di questi autori che portano a opposte conseguenze la rappresentazione di qualcosa che potremmo chiamare l’uomo comune?

 

Cechov è il vero modello, soprattutto perché le sue battute girano a vuoto e si rimane lì sospesi, in balia del tempo che passa. Beckett fa uguale, senza azioni e senza fatti in scena, niente da aspettarsi e nessuna rivelazione. Tutto è già avvenuto, restano i racconti, oppure le nenie come in Not I, Rockaby, Ohio lmpromptu...

 

I teatri del Novecento che hanno criticato il naturalismo e la convenzionalità tradizionale sono poi andati spesso oltre la drammaturgia. Nel senso che hanno affidato al corpo, alla composizione scenica, all’immagine, il compito di superare la crisi della simulazione mimetica della parola. Come scrittore, immagino che tu non creda possibile una rifondazione del teatro fuori della parola.

 

Per la rifondazione del teatro è meglio che ti rivolgi a qualcun altro. lo vorrei solo aprire dei buchi e crepacci nello spazio della rappresentazione, in modo che non sia un comodo specchio per chi guarda. Altrimenti il teatro diventa solo un’immagine che tu valuti dal di fuori, facendo perno su te stesso, sulle tue presupposizioni a cui ti tieni ben attaccato, chiuso dentro il tuo guscio...

 

Spiegami meglio come intendi tu la relazione fra rappresentazione e spettatore.

 

Insisto sul fatto che c’è una prigione di noi stessi in cui siamo sepolti, come dentro un guscio. È una prigione che separa il nostro dentro e il fuori in modo abbastanza penoso. E dico che il sistema di battute nel nostro teatro mantiene e rafforza questa separatezza tra il dentro e il fuori. La mantiene con la finzione che stiamo spiando dei fatti di vita, come se guardassimo in una casa o in un altro luogo privato. Allora è come quando spiamo o come quando guardiamo qualcosa dall’esterno. Cioè noi siamo dentro alla prigione di noi stessi, mentre là fuori si svolge la vita come una cosa da osservare solo per tenersi informati, per scoprire dei retroscena e dare dei giudizi. Non può esserci incantamento in queste condizioni. L’ascolto, come la contemplazione, implica un diverso stato della mente...

 

Un teatro che procuri incantamento, aperture verso altri stati di coscienza, mi sembra un progetto che prescinde dalla realtà fisica dei teatri, fatta comunque di corpi, di modulazioni, pause, tecniche per far arrivare la voce...

 

Io sto parlando con la modalità dell’eventuale, la modalità ipotetica dei desideri e delle preferenze. Credo sia una modalità necessaria per poter pensare a certe cose, sia pure in modo donchisciottesco, ma diverso dal modo amministrativo. Dunque mi figuro un teatro che può fare a meno della materialità della messinscena perché lavora sull’immaginazione e sui voli della mente. Mi figuro un teatro che possa essere il luogo in cui si sciolgono certi irrigidimenti del corpo attraverso l’ascolto delle parole. E infine mi figuro un teatro non focalizzato sull’azione ma su una percezione dell’invisibile, ossia l’ombra e lo spazio che è dietro le cose...

 

Come si rende percettibile questo teatro dell’invisibile?

 

Intanto si tratta di abbassare la soglia d’intensità delle parole, abbassare il grado di stimolazione dello spettatore, smetterla di voler sedurre il pubblico a tutti i costi, di voler tenerlo inchiodato alla sedia. L’ascolto non può essere così. Se ci pensi, l’attore celebre o il regista celebre ha quasi sempre quest’atteggiamento col pubblico: l’atteggiamento del seduttore che deve portarsi a letto una donna eccitandola, blandendola. E questa è la storia dei grandi istrioni, anche se fanno finta di maltrattare il pubblico con le loro bizze. Come quel tale che fa tutto quel can can, come si chiama?

 

Ce ne sono tanti, troppi…

 

D’altronde è chiaro che lo spettatore abituato al nostro tipo di teatro è sempre in attesa di assistere a dei fatti in scena, sempre così in balia d’una stimolazione con le recite in sovratono, che appena sente un minimo soffio di rilassamento invece di incantarsi si addormenta e basta.

 

Questo pericolo d’un netto rifiuto per un teatro d’incantamento mi sembra reale. Perché è un sogno che reggerebbe con difficoltà in quel circo di gladiatori che è la scena teatrale. Non stai forse disegnando un teatro mentale, il sogno d’uno scrittore abituato a cercare una percezione mentale delle parole?

 

Mi sembra il contrario. La percezione mentale delle parole è quella dove l’ascolto diventa superfluo. E in realtà nel nostro teatro è così: l’ascolto delle parole, del suono e del ritmo e del timbro delle parole, diventa superfluo. Quello che conta sono i fatti o retroscena che vengono alla luce. Il pubblico irrigidito sotto il peso della rappresentazione dà per scontato tutto il resto... Bene. Lo chiameremo un pubblico diseducato? E chi lo dovrebbe educare all’ascolto? Quelli che pensano al teatro come un problema tecnico da risolvere? Questi lavorano per attivare il consumo dei biglietti, come è logico, riproponendo la solita storia degli oggetti di consumo...

 

Utopia e realtà. Utopia come sforzo per immaginarsi possibilità diverse. Realtà come esaurita convenzione. Questi mi sembra che possano diventare i termini della questione.

 

Insomma... Il teatro è una scatola magica, con una scena e una platea o palchi dove sta il pubblico. Cosa si va a fare in teatro? Si va ad ascoltare e guardare degli attori che parlano o cantano, fanno gesti o azioni mimiche. Il modo di funzionare di questa scatola magica dipende dalla recita, ma soprattutto dal modo di ascolto. Che ci sia un attore famoso là a recitare un testo classico o che sia messo in scena un nuovo testo con importanti significati storici da trasmetterci, tutto questo è secondario. Il fatto primario per me è il clima d’ascolto nella scatola magica, che la fa funzionare e in certi casi felici smuove l’immaginazione fino a portarci a uno stato d’incantamento.

 

Ma come è possibile scatenare questo incantesimo nel mondo d’oggi, troppo disincantato e troppo superstizioso? Che senso ha?

 

Che senso ha? Ha il senso dei fenomeni naturali. Come la lumaca che si costruisce la casa con la bava, così facciamo noi con la bava delle nostre parole...

 

Ma cosa vedi quando dici che il teatro è una scatola magica? Cosa intendi per magica?

 

Intendo che nei casi felici il teatro fa sì che io mi dimentichi di stare a guardare una messinscena. No, mi spiego meglio: vedo che è una messinscena, ma non sto più a distinguerla da uno scenario naturale, non sto più a far paragoni e smerciar dei giudizi, perché tutto diventa imparagonabile. Quello è il punto in cui il dentro e il fuori collimano, il pensiero e l’esperienza trovano un po’ di armonia, e non ti senti più come un estraneo rispetto alla situazione, rispetto al mondo esterno, eccetera. In quei momenti i giudizi sono l’ultima cosa che ti viene in mente, perché l’incantamento ti basta e avanza, e non hai neanche più l’attesa che un attore ti mostri la sua bravura...

 

In Vecchiatto, il protagonista è un vecchio attore disilluso dal mondo e dal teatro, infuriato contro mondo e teatro... Invecchiato, superato, emarginato, come il teatro moderno.

 

Tutti hanno visto solo le sfuriate di Vecchiatto contro i nostri tempi, prendendole troppo sul serio e sgridandomi perché sono troppo tristi. Che si tratti d’una verbigerazione come quella di Ruzante, d’una stilizzazione comica della lingua, questo è rimasto inosservato. La figura del vecchio attore che vuoI esibire la sua bravura era un modo per toccare un certo tasto, cioè quello d’un modo di recitare un po’ trombonesco o seduttivo, come dicevo prima. Infatti, con tutto che gli voglia molto bene, Vecchiatto è l’attore-seduttore per eccellenza: l’attore umanista... Poi nel testo ci sono tre cose che mi stavano a cuore da un punto di vista drammaturgico, e che la regia ha completamente liquidato. A parte il fatto che Mario Scaccia ha portato Vecchiatto in giro per l’Italia, ed essendo un grande attore mi ha fatto sentire onorato...

 

Quali sono queste cose che la regia ha completamente ignorato?

 

Le tre cose che mi stavano a cuore sono queste: 1) il fatto che qui si abbandoni la finzione che il pubblico non esiste, perché Vecchiatto e sua moglie Carlotta si rivolgono direttamente al pubblico, ossia alla spettatrice con la sporta, eccetera; 2) poi il fatto che si senta una fisarmonica fuori dal teatro e Vecchiatto e Carlotta l’ascoltino, ne parlino, dunque il teatro funzioni assieme al mondo esterno, con gli echi del mondo esterno, non come chiusura nell’interiorità.., tutto ciò cancellato dalla regia... 3) che alla fine i due attori Vecchiatto e Carlotta svaniscano assorbiti dall’ombra, nella dimensione dell’invisibile, come gli eroi del teatro Nô alla fine d’un dramma.

 

Ora hai scritto un nuovo testo teatrale. Come vorresti fosse realizzato?

 

Ristorante della pazienza è un quartetto per voci, pensato come un quartetto musicale con quattro strumenti diversi. Quello che serve sono quattro attori, dove almeno tre sappiano rinunciare a quei sovratono che ho detto, mentre il quarto li può usare. Per la messa in scena penso a puri effetti di ascolto. Anche qui penso agli effetti di ascolto nella notte, quando siamo in un luogo sperduto, nello spazio aperto e indeterminato, come negli inni alla notte di Novalis, grande ispirazione.

 

Mi sembra un programma ardito, questo mettere l’ascolto in primo piano. Specie in tempi distratti e frettolosi come i nostri.

 

Se tutto quello che ho detto ti sembra una pura fantasia, non ho niente in contrario. Ma mi eleggo come testimone di recite africane dove non capivo una sola parola, dunque non potevo capire se i recitanti erano bravi, ma dove la scatola magica funzionava nel modo che ho detto. È È vero che qui lo spaesamento era così forte che tutto andava a posto per forza, almeno dentro di me. Ma lo spaesamento deve esserci sempre, perché lo spazio teatrale non è altro che questa dislocazione del sensorio, per cui tutto quello che può accadere nella zona di visione e d’ascolto è come se accadesse non si sa più dove, non si sa quando...

 

In un altro mondo, in un altro spazio, per altre possibilità di noi stessi…

 

La cosa che si potrebbe dire è che il teatro funziona bene quando non c’è un soggetto, non c’è fissazione soggettiva, mentre invece si vede o si sente bene qualcosa che ci avvolge sempre... Tu guardi un attore che recita Amleto, ma non è né l’attore né Amleto che conta. Conta l’ombra che c’è dietro quella presenza. Come nel teatro Nô, dove il personaggio centrale si rivela quasi sempre un’ombra o il fantasma d’un eroe morto. L’incantamento è il viaggio tuo e dell’attore verso quel luogo d’ombra che vedi apparire, là fuori di te e dentro di te al tempo stesso.

 

Questa intervista è stata pubblicata su “Art’ò. Rivista di cultura e politica delle arti sceniche”, n. 5, aprile 2000.

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