Una debole destra al potere
Enorme interesse suscita La destra al potere (Cortina, 2024) il libro di Carlo Galli, il maggior scienziato politico italiano (studioso di Carl Schmitt e della crisi del pensiero politico moderno) per capire la destra oggi al potere in Italia. Il libro vuole in primo luogo spiegare perché la destra al potere, il partito di Fratelli d’Italia (FdI) non sia un incidente passeggero, una occupazione abusiva della democrazia da parte di una forza estranea. È invece ben radicata, eredita una tradizione, fa parte di una genealogia: che non è solo l’eterno fascismo, anzi da questo si distacca.
Galli risponde così a un libretto di Umberto Eco del 1995 (Fascismo eterno), e a chi oggi a sinistra ripete che questo fascismo eterno si ripresenta in nuovi panni, per capire il successo della destra del XXI secolo. “Il fascismo non è un universale ma un particolare” afferma invece Galli. Esso è storico e concreto, come quello che si affermò in Italia nel 1922. E neppure soddisfa l’idea di un fascismo che si ripresenta sotto forma di “dominio”, come sosteneva un secolo fa la Scuola di Francoforte. Era un’interpretazione calzante del Secolo dei totalitarismi. Eppure, suona come una valutazione poco adatta a comprendere FdI, e ripresa oggi suona come una semplice “scorciatoia”. Meglio pensare a FdI come un mix di populismo, conservatorismo, neoliberismo (p. 10). Ingredienti in parte già sperimentati dal berlusconismo e qui proposti in un nuovo modo. Populismo: il popolo-nazione giocato dalla destra contro le caste politico-burocratiche e contro il popolo-classe. Conservatorismo: tradizionalismo dal punto di vista valoriale. Neoliberismo: un liberismo nazionalistico blindato da posture tendenzialmente autoritarie. Un mix piuttosto disparato, osserva Galli, che potrebbe rivelarne la debolezza di fondo. Eppure, al momento funziona.
Certo l’origine di FdI è in politici, Giorgia Meloni per prima, che vengono dal neofascista Fronte della Gioventù-MSI. Ma FdI si capisce di più come candidato erede, nel 2012, di una “fine” del berlusconismo che era appena avvenuta. Quando il governo Berlusconi cade (nel 2011), FdI nasce vedendo uno spazio enorme di elettorato di destra disponibile. FdI si avvale per tutti gli anni dei governi tecnici (2012-2022), da Monti a Draghi, del ruolo di unico oppositore (mentre Forza Italia si accomoda in un ruolo più ambiguo di accompagnatore). In questo modo FdI capitalizza il consenso di ceti sociali che avevano sostenuto il berlusconismo e sono ora in cerca di nuova protezione. Il resto è evidente nei dati: dai 660.000 voti nel 2012 ai 7 milioni di voti nel 2022, un aumento del 1000%.
Se i ceti sociali di riferimento di FdI sono chiaramente individuati nel libro: “composito ceto medio di moderati che votavano prima la DC e poi Berlusconi e che si sono via via esasperati”, e i settori della società sono “gli inclusi spaventati”, le “classi piccolo-borghesi, imprenditoriali e artigianali, mondo dell’agricoltura e del commercio”, meno chiaro è perché votino FdI anche gli “esclusi”, come gli operai e molta “neoplebe” (neologismo che Galli non usa ma sta ad indicare i ceti marginali o in via di scivolamento privi di efficace rappresentanza). Per capire questo crescente consenso dei ceti operai e marginali alla destra (in Italia prima la Lega e ora FdI), il discorso riguarda gli effetti e la paura della globalizzazione. Essa ha colpito duramente questi strati popolari e ne ha provocato una reazione difensiva: un “momento Polanyi” sostiene addirittura Galli (p. 53) alludendo al grande libro di Karl Polanyi del 1942, La Grande Trasformazione, in cui la società si difende dal mercato imperante. La svolta globalista impostasi dopo il 1989 ha reso disponibili questi strati a un discorso politico ‘reazionario’: una reazione quasi istintiva di protezione sicuritaria e di difesa dall’immigrazione, dalle delocalizzazioni produttive, e dalle conseguenti perdite di posti di lavoro e di buoni salari a vantaggio di Paesi emergenti come la Cina. Lo stesso processo che ha portato molti operai USA a votare Trump.
Lì è ancora più sorprendente che operai votino per un tycoon miliardario, qui invece gioca anche l’aspetto di identificazione: Giorgia Meloni ostenta una presunta origine popolana, anzi la usa contro la supponente cultura della sinistra. Interviene allora un ulteriore aspetto, quello della personalizzazione del leader (Giorgia, come un personaggio televisivo), in cui Berlusconi è stato maestro.
Ma a questi strati, a questi ceti cui la sinistra globalista non sa parlare e che si sentono traditi dal neoliberismo, qual è l’offerta politica di FdI? Solo in parte essa si traduce in statalismo, in ruolo forte dello Stato (come fu per il fascismo) che ordina ogni aspetto della vita economica e sociale. In realtà il cosiddetto sovranismo ne è solo una caricatura. Per FdI “lo Stato non è il valore ultimo, che è piuttosto la nazione, affettivamente designata come “Patria”” (p. 62). Paradossalmente quello di FdI è un programma politico pienamente neoliberale: “il capitalismo deve essere lasciato crescere liberamente all’interno del disegno strategico della Nazione” (p. 65). Una “sostanziale dipendenza dal paradigma liberista in forme semplificate” (p. 62). “Merito” come valore, anche se in forme poco chiarite da FdI; critica al fisco di Stato definito da Meloni “pizzo di Stato”, etc.
A tutto questo, che riprende il liberismo e il berlusconismo, FdI aggiunge una ideologia “patriottica” e “nazionale”. Il risultato è un mix poco chiaro, perché si tratta di elementi eterogenei. Come conciliare con il liberismo economico i concetti di “Nazione” e “Patria”, concetti del resto mai elaborati a causa di un difetto di Storia che FdI mostra con riguardo alla stessa Destra storica Ottocentesca, al compromesso Nord-Sud fino all’epoca giolittiana, al fascismo e alla democrazia repubblicana su cui si preferisce sorvolare (p. 97)?
Vi è un nucleo conservatore che rappresenta un ulteriore tassello del riuscito mix di FdI. In che senso? Un partito di destra è conservatore perché combatte il nichilismo della sinistra, “il Vuoto e la coazione a produrre ordine” (p.80) sono due facce della stessa medaglia. La destra mette al primo posto l’ordine naturale (Dio Patria Famiglia) e la sua vulnerabilità, e il diritto di adempiere il proprio dovere di lotta per difenderlo contro il Male. Mentre la sinistra mette al primo posto l’emancipazione del singolo, e la sua lotta è in vista di un fine liberatorio.
Questo aspetto della destra è però più combattivo che pensato, anzi ha più a che fare con il fantasy. C’è qui secondo Galli il nucleo più profondo della cultura di destra (p. 76): un nucleo pre-ideologico che viene dai libri di Michael Ende come La storia infinita (il personaggio di Atreju ripreso dai giovani di FdI viene da lì), e dal Signore degli Anelli: l’eroe che da solo lotta per il Bene e la Verità, per salvare il mondo dalla menzogna e dal Male.
L’elaborazione di FdI è perciò del tutto priva (per ignoranza? per distanza?) degli apporti dei principali nuclei del pensiero conservatore europeo, nelle sue tre versioni: cattolico-controrivoluzionario, orleanista, bonapartista. Il primo antimoderno, il secondo liberale-proprietario, il terzo del colpo di Stato e del comando dall’alto. A questi tre nuclei va aggiunto quello dell’elitismo, la scuola di Mosca, Pareto e Michels, che vede come inevitabile che i pochi organizzati prevalgano sui molti non organizzati.
Bellissime le pagine del libro sulla cultura conservatrice europea, che include grandi autori di cui FdI non sa che farsene: “Maistre e Marinetti, Burke e Maurras, Schmitt e Drieu La Rochelle, Gentile e Céline, Evola e Jünger, Guenon e Pound” (p. 78) per non dire di Nietzsche e di Heidegger troppo grandi per stare entro schemi politici. È il grande pensiero della crisi della modernità, di cui proprio la cultura di sinistra ha semmai fatto uso (una discussione, questa, che esula dai limiti del libro).
Qui, peraltro, il libro mostra bene che destra e sinistra sono due facce complementari del Moderno, e vanno capite così: “fratelli nemici” che interpretano aspetti diversi della modernità cui entrambi appartengono, l’aspetto conflittuale-nichilistico (la destra) e quello ordinativo-razionale (la sinistra). La sinistra mette al primo posto la norma, la destra l’eccezione; la sinistra ha un’immagine ottimistica dell’uomo (alla Rousseau), la destra segue un’antropologia negativa (alla Hobbes); la sinistra costruisce una società artificiale di uguali, la destra una comunità organica di diversi.
Ma questi cenni sono fin troppo elevati per la cultura di FdI. Date le sue lacune rispetto alla migliore tradizione conservatrice europea, e la mancanza di una immagine radicata nella storia italiana, il conservatorismo di FdI è allora “l’invenzione verbale di chi non sa cosa conservare”, quale senso dare alla storia d’Italia, e che consiste soltanto nella “contrapposizione valoriale al mondo progressista”.
Qui, la destra oggi al potere mostra tutta la sua inconsistenza e debolezza. Certo è abile nel gestire il discontento, tatticamente capace di passare dall’antieuropeismo iniziale allo stare in Europa come Nazione. Ma quell’orgoglio nazionale proclamato “sembra piuttosto un’involontaria ammissione di debolezza, un sintomo di un complesso di inferiorità” (p. 98).
Tutto è quindi solo politica. E qui FdI è stata indubbiamente capace, certo più dei suoi rivali a sinistra: plebiscitarismo verticistico con la proposta dell’elezione diretta del premier; privatezza con lo smantellamento del welfare universale a favore di misure personali; riduzione della sfera pubblica; indebolimento della magistratura; difesa delle corporazioni (taxisti, balneari, agricoltori, ambulanti etc. sono la realtà materiale dello “Stato dei padroncini” cui guarda FdI). Pragmatismo atlantista in politica estera, ma discontinuità in quella interna: il passaggio al premierato elettivo. Con questa riforma, colpo di grazia a un sistema in agonia (p. 120), ad una fase elettorale di blocchi contrapposti seguiranno cinque anni di pieno potere dell’esecutivo, anzi del solo capo dell’esecutivo plebiscitato dall’elezione diretta, con conseguente perdita di ruolo del Parlamento e del capo dello Stato e con il passaggio a una “democrazia d’investitura”.
L’altro aspetto critico è quello della legge sull’autonomia differenziata delle Regioni, voluta dalla Lega e accolta dal governo, che porterebbe ad accentuare la distanza tra Nord e Sud: in tal modo “quello che fece la Destra storica viene in pratica disfatto dalla destra contemporanea” (p. 112).
Il rischio è che la destra diventi così la madre della vera Seconda Repubblica, mentre era stata esclusa dal momento originario della Prima Repubblica. A questa evidente forzatura della Costituzione da parte del governo di destra oggi in carica, l’opposizione dovrebbe saper rispondere con proposte alternative, non con il solo rifiuto. Galli nelle conclusioni indica la strada (“se la politica avesse ancora in sé energia e capacità di grandezza”) di una vera assemblea costituente speciale (quindi “almeno i principi fondamentali non andrebbero riscritti”), come quella che fu alla base della Prima Repubblica.
FdI è quindi una destra che è entrata al potere per restare, e alla cui politica bisognerebbe allora saper contrapporre un’altra politica, più radicale, a questa narrazione un’altra narrazione, più incisiva (p. 123). Sapremo farlo? Iniziamo tutti leggendo a fondo questo libro.