"Io voglio che Dio mi mostri il suo volto" / Kerouac e il buddhismo a ritmo di be-bop
Pensi Kerouac e immagini Grandi Spazi. Leggi Kerouac e ti vedi al volante di una Hudson Commodore del 1949, sulle strade di una tua personale America del Kansas. Dici Kerouac e tiri in ballo sesso, droga e rock ’n roll (anche se sarebbe più esatto tirare in ballo il be-bop). Difficile, insomma, che, lì per lì, ti venga in mente di accoppiare Kerouac a Buddha. Tanto meno al divino Dharma, termine vagamente traducibile con “ciò che è coerente con l’ordine dell’universo”, visto che di Jack Kerouac puoi dire tutto, ma non certo di essere uno coerente. Così sfidando pervicaci stereotipi, l’editore Mondadori, ha appena mandato in libreria un imponente Some of the Dharma (che sarebbe come dire “Appunti sul Dharma”, in formato Enciclopedia Treccani), un inedito (da noi in Italia) di Kerouac, di quattrocento e passa pagine usate come una tela su cui, con la macchina per scrivere (una Underwood Royal Standard degli anni trenta), Kerouac tracciava linee di testo “in libertà”, tra un vago futurismo e sapori di dadaismo.
Scritto tra il 1953 e il 1956, Some of the Dharma è una sorta di diario dell’incontro tra Kerouac e il buddhismo, un’opera che per anni era stata rifiutata non solo perché non rientrava in nessun genere letterario conosciuto, ma anche perché quell’America degli anni cinquanta non era certamente un terreno fertile per coltivare diversità religiose. Il conformismo politico dell’amministrazione Eisenhower (1953-1961) si rispecchiava in quello religioso, fondamentalmente cattolico-protestante. Coloro che erano alla ricerca di forme alternative di spiritualità, di nuovi valori, di nuove fedi, o magari persino di una qualche etica tribale, finivano nel calderone della Beat Generation, un marchio con cui i media dell’epoca etichettavano tutti coloro che non rientravano nei canoni della “normalità”: in pratica i “ribelli senza causa” della letteratura, del cinema, della musica.
Negli Stati Uniti, Some of the Dharma vedrà la luce solo nel 1997 grazie al risorgere, alla vigilia del millennio, di un interesse generalizzato verso la letteratura Beat e il concomitante emergere della popolarità di religioni “alternative”, del buddhismo in particolare, grazie anche a testimonial hollywoodiani, ça va sans dire, ad alta visibilità mediatica come, uno per tutti, l’attore Richard Gere.
Ciononostante, anche allora la ricezione del libro non fu delle migliori. La Kirkus Reviews, una pubblicazione specializzata, destinata principalmente ai librai, scriveva: «Kerouac non è capace di pensare coerentemente, e il libro risulta caotico. La sua tecnica è quella di prendere una classica affermazione di filosofia buddhista e decodificarla a proprio uso e consumo. Kerouac è incapace di separare l’hinduismo dal taosimo, il cattolicesimo dal buddhismo». Certo, tecnicamente è vero, ma Kerouac, come molti artisti, va contestualizzato, interpretato e, alla fine, prendere o lasciare. D’altronde il suo nome non è forse diventato sinonimo di “nomadismo stradal-culturale”, nonostante non avesse neanche mai preso la patente, e si facesse scarrozzare, qua e là, dal compare di baldorie Neal Cassidy?
Il pensatore-mendicante fra Einstein, Buddha e i fagioli stufati
Altrettanto certo è che, di primo acchito, l’immagine del padre co-fondatore della Beat Generation poco si concilia con l’idea di buddhismo, «la religione asiatica più amata dagli americani», scrive il New York Times, riecheggiando un celebre slogan nostrano. Eppure, ecco lì l’enfant terrible della letteratura post bellica, in crisi esistenziale, in cerca di fuggire da un mondo che gli era diventato estraneo, una madre opprimente, un cattolicesimo di famiglia in cui non si riconosceva più, diviso tra il bisogno di compagnia e il desiderio di solitudine, lanciato in una nuova avventura intellettual-religiosa. Che, a dire la verità, era anche un’attività scelta per tenersi occupato nell’intervallo fra la pubblicazione del suo primo straripante romanzo (La Città e la Metropoli che, a ventisei anni, gli aveva dato una momentanea brezza di fama e un anticipo di mille dollari) e la rivelazione di On the Road del 1957. Era un periodo in cui non sapeva bene cosa fare dopo essere stato piantato dalla fidanzata di turno («I didn’t know what to do», confessò candidamente in un’intervista), e si era messo a scrivere appunti, note, pensieri, aforismi, simil-haiku, preghiere, poesie, blues, meditazioni, lettere, conversazioni, pagine di diario, storie e quant’altro, per spiegare la sua personale visione del buddhismo all’amico Allen Ginsberg, a cui nel maggio del 1954 confesserà di aver raggiunto l’essenza del nulla: «Ho sempre sospettato che l’esistenza fosse un sogno, ora il più brillante degli uomini [Buddha] mi assicura che è proprio così. Per prima cosa andrò a El Paso, Texas (...) dove con le mie Bibbie del Buddha e fagioli stufati vivrò una vita da pensatore-mendicante in questo umile sogno terrestre». E più avanti gli intimerà di ascoltare attentamente gli insegnamenti che gli avrebbe impartito «come se io fossi Einstein che ti insegna la relatività».
Allen risponde in giugno elencando, a sua volta, il proprio “credo” in cui mescola amore, visioni della mente, divinità, immaginazione dell’umano, e mondo di divino ardore, «as much as we can imagine», fin dove possiamo immaginarlo. Poi ricorda che l’altrettanto divino compito dell’amico Kerouac è quello di scrivere: ne aveva, fra l’altro, avuto conferma dalla lettura delle foglie di tè che annunciavano per lui un futuro pieno di dollari e fama, almeno «per i prossimi dieci anni, se non per la vita».
Persino Buddha parlava tutto il giorno
La vena buddhista di Kerouac prende il via dopo aver letto dei testi presi in prestito alla biblioteca pubblica di New York e aver scoperto gli scritti del filosofo giapponese D.T. Suzuki – storico delle religioni, divulgatore del buddhismo Zen, visiting professor alla Columbia University, alma mater dell’élite Beat. A proposito delle opere di Suzuki, Kerouac dice comunque di poter fare meglio di lui: «I guarantee you, I can do everything he does and better». Neanche ha cominciato a studiare che già si definisce un “junior arhat” (l’arhat è un illuminato che ha raggiunto il massimo grado di perfezione e che solo la morte separa dal nirvana, il fine ultimo della vita, la libertà dal dolore).
I periodi di euforia dello scrittore si alternano a momenti di depressione a cui non è estraneo l’uso intemperante di alcol. Il 24 agosto 1954, in un attacco di solitudine, scrive: «Ho raggiunto il punto più basso della mia fede buddhista dal dicembre scorso»; si lamenta di non avere compagnia, di non poter parlare con nessuno: «persino Buddha parlava tutto il giorno. Io me ne sto qui da solo a gambe incrociate (...) il buddhismo ha ucciso tutti i miei sentimenti (...) non sono più interessato all’amore, sono stanco, indicibilmente triste». La storia delle gambe incrociate era uno dei tanti punti deboli del buddhismo made in Kerouac. Ricordava Philip Whalen, una delle figure chiave della Beat Generation, seguace della corrente Zen, futuro monaco, «Kerouac era incapace di sedere e stare fermo anche solo qualche minuto perché, da ragazzo, si era rovinato le ginocchia giocando a football. Non poteva piegarle, il dolore era fortissimo. Non imparò mai a sedere nella giusta posizione per meditare. E anche se ne fosse stato capace la sua mente non avrebbe retto. Era troppo nervoso».
All’inizio di ottobre del 1954 Kerouac formulò il voto (una sorta di “fioretto” cattolico applicato al buddhismo) di mangiare una sola volta al giorno e di non bere alcol, aggiungendo che se avesse infranto queste elementari regole «che sono state i miei più grandi ostacoli nell’ottenimento della felicità contemplativa, e gioia della volontà, rinuncerò per sempre al buddhismo». Il 12 ottobre il fioretto già vacillava: il voto di non bere passò a una volta per settimana, e quel giorno si fece una birra. Il 13 ottobre si ubriacò di santa ragione.
La malattia di mezzanotte e il nuovo Buddha della prosa americana
La prima stesura di Some of the Dharma si componeva di un centinaio di pagine il cui layout che cresceva di giorno in giorno, sempre più complesso ed elaborato, con porzioni di testo organizzate con motivi intricati, disegni, freccette. A marzo del 1955 le pagine erano duecento (alla fine raggiungeranno quota quattrocentoventidue) e ne informa l’allievo Ginsberg a cui spiega: «Non ho nemmeno cominciato a scrivere. Intendo essere il più grande scrittore del mondo e poi nel nome di Buddha convertirò migliaia di persone, forse milioni».
La vena di proselitismo letterario di Kerouac si prosciugherà il 15 marzo 1956, all’improvviso, come all’improvviso si era manifestata a riprova di un aspetto spesso trascurato da biografi e agiografi, e cioè il fatto che lo scrittore fosse affetto da ipergrafia, una condizione comportamentale (dovuta a cambiamenti in una specifica area del cervello, soprattutto se stimolato da abuso di alcol e stupefacenti) caratterizzata dall’intenso quanto irrefrenabile desiderio di scrivere, disegnare, o dipingere che la neurologa Alice W. Flaherty ha descritto in The Midnight Disease, La malattia di mezzanotte (Mariner Books, 2005), e di cui “soffrivano”, tra i tanti, anche grandi autori come George Simenon, Isaac Asimov, Gustave Flaubert e Fiodor Dostoevskij. In Kerouac, le avvisaglie di questa patologia sono chiaramente rintracciabili in Some of the Dharma.
Per sua fortuna, quasi in contemporanea con l’abbandono del progetto, Sterling Lord, il suo agente letterario, riesce finalmente a vendere alla Viking Press i diritti di Sulla strada, l’opera che laurerà Kerouac come cantore e profeta della Beat Generation. All’indomani dell’uscita di On the Road, giornalisti, sociologi, commentatori si lanciarono nel tentativo di decrittare gli atteggiamenti ribelli di quella nuova generazione post bellica, traumatizzata dall’esperienza appena trascorsa, «mad to live, mad to talk, mad to be saved», assetata di vita dopo aver vissuto l’incubo della Seconda guerra mondiale, smaniosa di far sentire le proprie opinioni, desiderosa di essere salvata e rappresentata da quel tale Jack Kerouac che si era trovato all’improvviso sotto i riflettori dei media che, a loro volta, non capivano neanche bene di cosa stesse parlando. Certo, non aiutavano i suoi farfugliamenti, la sua voce impastata.
A un intervistatore che gli chiedeva se fosse vero che avesse passato gli ultimi due giorni in stato di ubriachezza, lui rispose specificando «non in stato di ubriachezza», ma che «I’ve been drinking for two days», che aveva bevuto, in continuazione, per due giorni. E l’intervistatore cerca di capire: «La generazione Beat è spesso descritta come una generazione in cerca di qualcosa. Cos’è che cercate esattamente?». Risposta: «Dio. Io voglio che Dio mi mostri il suo volto». E si capisce perché, nell’America degli anni cinquanta, la gente rimanesse quanto meno perplessa. Ribelle o conservatore? Per l’amico e sodale William Burroughs che lo conosceva molto bene, non c’erano dubbi, Kerouac era «un uomo di Eisenhower che credeva nei valori tradizionali». La storia, però, lo sappiamo ha deciso di etichettarlo diversamente.
Dopo On the Road sarà una corsa a rovistare tra gli inediti di casa Kerouac, quelli scritti dopo La Città e la Metropoli, e prima delle riflessioni sul Dharma, quando “non aveva niente da fare”, diventati improvvisamente preziosi – da Il dottor Sax a Visioni di Cody, da Maggie Cassidy a I sotterranei.
Dovranno passare anni e il sorgere di nuove sensibilità perché del Vate Errabondo (autodefinitosi «uno strano solitario pazzo mistico cattolico») riemerga l’anima che Allen Ginsberg descrisse come quella del «nuovo Buddha della prosa americana». Un Buddha che, come scriverà a Philip Whalen: «sente la presenza degli angeli».