Maschio, come ti vesti?
La moda implica cambiamento, il diventare “altro” variando di aspetto, di forma e di cultura. I rinnovamenti del sistema della moda non sono solo stagionali o periodici, ma possono essere anche epocali, come l’attuale riforma dell’espressione di “genere” in cui capi e accessori collegano più binari, facendosi raccordo espressivo. Per quanto il primo fashion influencer sia stato un uomo – Lord Brummell – per secoli, il senso comune ha associato la moda a una dimensione prettamente femminile. La fluidità di genere, più che un equilibrio, ha comportato la svolta della moda maschile che, come osserva Andrea Batilla, nel suo Come ti vesti. Cosa si nasconde dietro gli abiti che indossi (Mondadori 2022), entro il 2025 avrà tassi di crescita maggiori di quella “femminile, decretando l’uscita definitiva dei maschi dal grigio limbo dell’adesione a regole vecchie di centinaia di anni.
Il risultato di questa vera e propria rivoluzione per ora è visibile nella fascia di età che va dai 15 ai 30 anni al massimo, ma con il passare del tempo i nuovi codici estetici e comportamentali verranno assorbiti dai rappresentanti del genere maschile (sempre che ne esista uno solo) di ogni età e nazione” (Batilla 2022, p. 41).
L’ascesa della moda maschile è trainata dalla musica contemporanea, popolata da alcuni dei corpi più emblematici e venerati. Ci si veste come i musicisti, perlopiù rapper, “adottando” i loro gusti situati sul confine sottilissimo tra buon gusto e cattivo gusto. L’approccio massimalista dei cantanti hip-hop ha origini lontane dai loro spazi e tempi, risale, suggerisce Batilla, al Barocco, “stile popolare”, drammatico e teatrale, capace di contagiare emotivamente e di incutere rispetto dell’autorità. Tutto torna, considerando che l’hip-hop nasce per dare voce a gruppi situati ai margini della società, regolati dalle leggi della strada, luogo inospitale di definizione delle gerarchie, da cui smarcarsi per trovare l’affermazione.
Si scappa dalla periferia per farsi accettare al centro della metropoli, dove il picco massimo della realizzazione artistica si palesa adornandosi di oggetti, che hanno il potere di comunicare un nuovo ordine sociale. Masse di oggetti, sovradimensionati, acquisiscono una relazione di proporzionalità diretta con l’autorevolezza. Insomma, l’understatement – il minimalismo – non viene contemplato dai rapper e rimane caratteristica dei “veri ricchi”, i privilegiati per nascita, che, puntualizza Batilla, sono più interessati alla superiorità morale. Il codice comportale riduzionista deriva dal protestantesimo, che inizia un processo di sacralizzazione del guadagno, molto diverso da quanto troviamo nel cattolicesimo, per cui la ricchezza è qualcosa di cui spogliarsi, come del resto anche gli abiti, lo insegna San Francesco d’Assisi.
Che si tratti del regno degli uomini o del divino, l’abito maschile fluttua tra il fluido e il marcato, alternando la sottolineatura degli eccessi dello sfarzo oltraggioso a uniformi anonime, basic e funzionali. Entrambi esprimono appartenenza e aderenza a sistemi di valori, solo che a un certo punto ha avuto la meglio la prospettiva “moderata”.
Negare lo sfarzo vuol dire rinunciare alla sottolineatura degli attributi virili, prediligendo linee sciolte all’aderenza: l’immagine maschile deve effondere impegno e dedizione, pertanto aristocratici, alta borghesia e intellettuali iniziano a vestire come il ceto operaio. L’abito fa fare, permette di fare, rende maestosi e liberi, o costringe e mortifica. In questo continuum descritto dall’opposizione fluido/marcato, le vesti monastiche trovano una mediazione, ce lo fa notare Umberto Eco:
“I monaci avevano inventato un abito che, mentre assolveva da solo alle esigenze di contegno (maestoso, fluente, tutto d’un pezzo in modo da cadere in pieghe statuarie), lasciava il corpo (dentro, sotto) completamente libero e dimentico di sé. I monaci erano ricchi di interiorità e sporchissimi: perché il corpo, difeso da un abito che nobilitandolo lo affrancava, era libero di pensare e dimenticarsi.”
La libertà diventa il perno attorno a cui si costruisce la visione del mondo romantica, che insofferente a ogni forma di limitazione, esalta la forza creativa e il conflitto con natura e società. In questo contesto, i musicisti, sottomessi al volere dei mecenati per secoli, nella prima metà dell’Ottocento rompono le catene e guadagnano il diritto a esprimersi. Durante il Romanticismo i musicisti iniziano a essere messi sullo stesso piano dei letterati, e questi ultimi, anche stando a quanto scritto da Algirdas Julien Greimas in La mode en 1830, erano deputati a lanciare le tendenze, tanto che le cravatte si portano “alla Byron”. La scelta di capi, accessori e acconciature serve a “darsi uno stile” – classico o romantico – e al tipo di contegno assunto con indosso quel determinato total look.
Proprio nell’Ottocento nasce la moda maschile come la conosciamo oggi, precisamente durante la rivoluzione industriale. Cosa succede all’abbigliamento maschile? Ce lo spiega Batilla nel capitolo “I vestiti degli uomini”, un excursus storico ricco di riferimenti letterari, filmici e musicali. L’abito maschile si semplifica perdendo la parte più estrosa e appariscente, gli elementi di lusso, affinché possano essere istituite diverse categorie merceologiche per appiattire il costume rinunciando alla magnificenza a favore della varietà. La varietà sostituisce l’influenza della corte regia con il commercio, che incomincia a orientare le tendenze e a creare nuovi bisogni.
Batilla aggiunge che, durante la rivoluzione industriale, tessuti, ricami, silhouette, vengono correlati al genere per creare categorie merceologiche. I pantaloni, ad esempio, vengono realizzati con il cavallo basso, ampio, nascondente, per eliminare le forme peculiari della mascolinità, che si rivedranno in televisione dopo un secolo con Elvis Presley e i suoi jeans da “censura”. La ribellione degli artisti si estrinseca nel rifiuto della rigidità dei codici vestimentari, di capi scomodi atti a esprimere posizioni di dominanza e individualismo.
La musica è un’arte soggetta alle leggi della moda, semplifica i modi di vivere e offre un modo per esprimere le identità, distinguendosi dall’alterità, in un modo attrattivo e semplice da praticare. Il valore aggiunto è che i testi dei brani riflettono le situazioni sociali e sollecitano l’introspezione. Rispetto al passato, i cantanti hanno uno strumento potente come i social media che amplifica e accelera il loro status di fashion icon, costruendo, al contempo, l’immagine pubblica attraverso gli oggetti di moda indossati. Si tratta di ciò che – cito testualmente – Rolling Stones ha definito “conversation starters”, look individuali differenti dalla moda “canonica” perché parte di una personalissima visione del mondo che, rispecchiata in capi e accessori, diventa materia di discussione in tutto il mondo.
Penso al rapper Pharrell Williams che ha fatto della personalizzazione degli oggetti di moda un credo, rendendoli “artefatti culturali” la cui rilevanza artistica ha segnato l’estetica del primo decennio del 2000. Una maxi-catena Gucci, un Blackberry e una PlayStation Portable d’oro, gli stivaletti Timberland dipinti a mano, sono solo alcuni delle customizzazioni commissionate da Pharrell, vendute all’asta il 14 ottobre 2022 come investimenti “narrativi”. Il rapper ha tenuto a specificare che il vero valore degli oggetti sta nella storia che raccontano, assunto alla base dei “boy brands”, progetti commerciali di musicisti che si identificano come uomini, e per cui lo stesso Pharrell si distingue, con quattro marchi all’attivo e una collezione realizzata per Chanel.
Il carisma dei cantanti non si esercita soltanto tramite produzione artistica e marchi individuali, ma assume la funzione di attrattore anche per le case di moda più conosciute, che li sceglie come brand ambassador. Lil Nas X, il primo rapper apertamente gay, è ambassador di Coach e YSL Beauty, ed è stato incoronato icona dello stile maschile 2022 da Rolling Stones e GQ. È un cambiamento significativo rispetto a qualche anno fa, quando le “figure importantissime dei testimonial” venivano attribuite agli attori, come rilevato da Isabella Pezzini in una sua ricerca del 2009.
Batilla riconduce il maggior peso dei cantanti nel sistema della moda alla capacità delle tendenze musicali contemporanee – nonostante il retroterra omofobico dell’hip-hop – di creare “una cultura estetica inclusiva, in grado di raccontare nello stesso modo generi diversi (o nessun genere) perché, in maniera forse inconsapevole, eliminano tutti i segni di riferimento classici al maschile e al femminile. Il grunge, nato a Seattle come fenomeno musicale, ha inglobato e incarnato molti di questi stimoli e contiene in sé riferimenti culturali che richiamano la Beat Generation”.
Inseriti nel sistema moda, i cantanti sono generatori di tratti da implementare per distinguersi dunque considerabili dei token, segni ricorrenti di persone, di abiti e di identità che rimandano a type, alla loro grammatica astratta. Allora si può affermare con Pezzini che, attraverso i vestiti, i cantanti propongono un’“identità fantasmatica da assumere e consumare virtualmente”.
Queste identità fantasmatiche prendono corpo nelle narrazioni a tempo di musica che interagiscono e si confrontano con le norme sociali e del senso comune, attuando i meccanismi di performatività studiati da Judith Butler, a cui fa riferimento lo stesso Batilla per spiegare i generi della moda. La performatività rientra anche nel modo in cui i cantanti interpretano la parte della public persona, incarnando la corrente artistica e la subcultura di riferimento. L’impatto non è solo del suono ma anche degli outfit.
I nuovi segni dell’espressione di genere iniziano con la sua negazione a cui segue una marcatura trasversale descritta dalla successione inscindibile di fluidità e non-conformità, come stabilito dalle culture queer e transgender per superare differenze secolari. È complesso fare una scelta terminologica univoca, efficace, che possa essere rappresentativa e inclusiva, quando il metalinguaggio è ancora in una fase di studio. Intanto preferisco parlare di espressione di genere, diversa dall’identità e dalle preferenze sessuali, anche se neanche l’etichetta “moda maschile” è soddisfacente, ma è una convenzione.
La moda si riferisce al mostrare e all’ancorare l’espressione individuale a un immaginario prefissato, a un’identità visiva. Allo stesso tempo troviamo il processo di produzione della persona pubblica come una forma di empowerment espressivo dove il musicista ricopre un ruolo iconizzato e delineato con precisione.
Ho ritenuto opportuno aiutare le lettrici e i lettori di Doppiozero a immaginare i modi di identificazione del maschile con una mappa (in divenire) degli stili dei cantanti, che spazia dai rapper al K-pop, dagli USA all’Italia. Gli stili sono parecchi, compresi il “non vestito” di Blanco, e la classicità fluida dei BTS, che tra poco vedremo in divisa militare, il non plus ultra della mascolinità. Nel vestito maschile si incrociano correnti artistiche, lotte sociali, simbolismi culturali, eredità di azione e pensiero.
Questi oggetti individuano la nostra posizione nella storia del mondo, i modi di essere appresi ed espressi attraverso la moda.
Note bibliografiche
Algirdas Julien Greimas ([1948] 2000), La mode en 1830: Langage et société : écrits de jeunesse, a cura di T.F. Broden, Paris, PUF.