Venezia / Kiefer: la guerra invisibile dell'arte

19 Maggio 2022

Una leggenda hassidica racconta che su ogni bambino nel ventre della madre veglia un angelo che gli trasmette la Torah, ovvero l'intero scibile. Al momento della nascita, però, l'angelo tocca col dito la bocca del neonato, che così dimentica tutto. La fossetta sopra le labbra è il segno del sapere dimenticato.

Camminando per Venezia verso il Palazzo Ducale per vedere la mostra di Anselm Kiefer, vorrei anch'io il tocco dell'angelo, per dimenticare le tantissime parole di cui è composta l'atmosfera di filosofia, poesia, letteratura, scienza, storia dell'arte e della cultura, che aleggia dentro e attorno alla sua opera. Per rendersi conto di quanto sia densa tale atmosfera, basta dare un'occhiata agli affascinanti testi delle lezioni tenute al Collège de France nel 2010-11 (L'arte sopravviverà alle sue rovine, Feltrinelli, 2018, e ebook di doppiozero scaricabile gratuitamente qui). La stessa leggenda ne fa parte, perché è proprio Kiefer a citarla: «Talvolta ho l’impressione di essere come quel bimbo della leggenda hassidica. Di aver saputo tutto in precedenza, essere stato costretto a dimenticare ed essere costretto a riapprendere tutto di nuovo».

 

 

Questa fame di conoscenza, di verità poetiche e saperi esoterici, di complessità scientifiche e profondità sapienziali è uno dei tratti tipici del pittore-filosofo tedesco, che attrae irresistibilmente la critica e la copiosa pubblicistica su di lui. Anche il titolo della mostra scelto dall'artista lo dimostra: è una frase di un poco noto filosofo italiano, anzi veneziano, Andrea Emo, che il pittore ama da tempo e a cui ha dedicato già un ciclo di opere: Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po' di luce. E lo confermano ulteriormente le righe, dai toni magniloquenti, con cui Kiefer annuncia a Gabriella Belli, direttrice dei musei civici di Venezia che gli ha commissionato il ciclo di Palazzo Ducale, di aver completato i quadri per la mostra: «il nuovo spazio da me creato è una sovrapposizione di tutte le possibili idee, filosofie provenienti dal Nord, dal Sud, dall’Oriente e dall’Occidente».

 

Eppure vorrei che, almeno per ora, l'angelo ponesse il suo dito su tutte queste idee e parole: che tutte siano dimenticate, bruciate. Voglio mettere alla prova la visione, il contatto diretto tra lo sguardo e le superfici; perché Kiefer è innanzitutto un pittore, un pittore modernista, romantico e alchimista, per il quale ciò che conta sono i processi della materia, la sua trasmutazione in vista di quel magnus opus mai veramente raggiunto che è la pietra filosofale dell'arte. Naturalmente, anche lo sguardo, qui, dovrà prender forma con le parole e fare i conti con le idee che sono sempre incarnate in ogni opera d'arte. (Perciò, sfuggendo di tanto in tanto al dito dell'angelo, inserirò tra parentesi qualche frammento delle idee, sempre molto interessanti, che si trovano nel bel catalogo pubblicato da Marsilio, con testi, tra gli altri, di Kiefer stesso, Janne Sirén, Jean de Loisy, Salvatore Settis, Obrist e Donà).

 

 

Per arrivare al ciclo pittorico di Kiefer si devono attraversare le stanze più sontuose di Palazzo Ducale, immerse in un profumo antico di lusso, legno vecchio e cera. Secoli di storia, potere, ricchezze, ostentate in un trionfo ininterrotto di immagini sacre e profane, di santi e gran signori, dogi, papi e guerrieri. L'apoteosi si raggiunge nell'enorme salone del Maggior Consiglio: ben 1350 metri quadrati, come una piazza veneziana, ma coperta da giganteschi stucchi dorati che incastonano decine di dipinti, tutte scene di massa, esibizioni pubbliche di potere. Sulla parete di fondo, il dipinto più grande, il Paradiso di Tintoretto, che ingloba il soglio del doge e consacra la potenza vincitrice della guerra contro i turchi.

Da una porta laterale sul fondo si accede a una sala di passaggio dove c'è la prima opera di Kiefer, quella che porta il titolo del ciclo.

 

È un panorama realizzato con alti pannelli disposti a semicerchio che avvolgono il visitatore: un dipinto imponente come quelli antichi visti in precedenza, ma completamente deserto e desolato, una distesa di steli di legno carbonizzato, piantate su un’enorme pianura di cenere. Sono realizzate con rami di varie misure, incollati sulla tela e disposti con un efficace effetto prospettico. Sembra proprio di essere dentro uno sconfinato cimitero, come se tutte le persone viste poco fa, ammassate nei grandi teleri per glorificare l'antica Venezia, fossero state seppellite in questo paesaggio invaso da una luce apocalittica. Tra le file di steli nella parte bassa sono sparsi alcune pile di libri cabonizzati, appese col fil di ferro. Sopra l'orizzonte gessoso, la scritta in corsivo di Andrea Emo; e nel cielo, deflagrazioni luminose di galassie ocra, grigie e brune: la luce che sprigiona dal rogo ormai estinto dei libri. (Kiefer: «l'arte non smette di oscillare tra perdita e rinascita»).

 

 

Da questa luminosa apocalisse di cenere si passa nell'enorme salone ombroso dello Scrutinio dove Kiefer ha installato il suo ambizioso ciclo ricoprendo interamente le pareti, le decorazioni e le immagini antiche. Ne rimangono soltanto sul soffitto dorato e sulla sommità delle pareti, dove la fila ininterrotta dei ritratti dei dogi sembra spiare dall'alto il cataclisma pittorico che ha invaso e distrutto l'antica gloria di Venezia.

Al primo sguardo d'insieme, l'impressione è proprio questa: un sublime cataclisma immobile, una catastrofe cosmica congelata. Poi, avanzando, si comincia a intuire che Kiefer ha messo in scena una sua anti-Venezia, una Venezia quasi invisibile, di cui rimangono pochi resti, combusti ed esplosi, inghiottiti da paesaggi primordiali evidenziati dalla linea d'orizzonte che attraversa tutti i grandi pannelli nella sala. Eppure questa Venezia distrutta è sublime, ambiziosa e magniloquente come quella dei suoi fasti antichi. I colori dominanti sono gli stessi delle sale precedenti: gli stessi bruni, i rossi ramati, le terre scure, i bianchi di zinco, gli ocra e gli sprazzi dorati, che qui emergono non da un cosmo ordinato in un'austera penombra, ma in un caos di bagliori sinistri d'argento e oro sporco, immersi in un'atmosfera fangosa e fumosa, di materia carbonizzata e caramellata, di cenere e carbone.

 

Avanzo verso il grande pannello sulla parete di fondo, che mi appare come un Giudizio Universale astratto: in primo piano, sagome informi di catrame aleggiano come grumi di nuvole in controluce sopra cumuli grigio-azzurro su un fondo di esplosioni in oro rosso e bianco sporco; da lontano sembra una mischia di figure volanti in un tramonto apocalittico, tra i fumi di una battaglia aerea, sopra un mare agitato di acque nere e schiuma grigia.

Nel primo pannello a destra della parete di fondo, al posto del mare c'è una palude desolata, con un fitto canneto rinsecchito segnato dai rami di un acquitrino ghiacciato e sovrastata da un cielo buio squarciato da fumi grigi e bagliori d'oro sporco. In alto, un fulmine orizzontale attraversa esplodendo tutta la superficie e su di esso si staglia un grande sottomarino grigio imbrigliato in una rete: è un modello di latta fissato alla tela, simbolo ironico e rovesciato del dominio sui mari della Serenissima.

 

 

A far da contraltare al sottomarino, sul pannello di fronte, è appesa invece una processione di carrelli della spesa, biciclette e risciò, tutti stracarichi di cianfrusaglie, dorate e bruciacchiate. Da ognuno pende un cartellino allungato: i prezzi della paccottiglia per turisti che invade Venezialand? (In realtà Kiefer ci ha scritto i nomi di alcuni dei Dogi, le cui effigi ci spiano dall'alto). Volano su un cielo oscurato da un temporale di pece, attraversato da fumi densi e squarci di luce dai riflessi rame e ocra. Sotto, una sconfinata pianura incisa da solchi gelati che convergono all'orizzonte è attraversata da altri tre sottomarini di latta arrugginita.

 

Proseguendo sulla parete di destra, il pannello successivo è tripartito orizzontalmente: in alto, in linea col sottomarino del pannello precedente, c'è lo stendardo della Serenissima, una lamina incandescente e lacerata su cui spicca, deformato, il leone dorato di San Marco. Nella fascia mediana, l'unica immagine di Venezia: le linee del Palazzo ducale emergono a stento da una notte di catrame e fumo, con i profili ogivali del porticato e delle finestre che riflettono i bagliori d'oro rosso dell'incendio quasi consumato (quello del 1577, che distrusse proprio questo salone). Sotto, un esercito di spettri, composto da vestiti vuoti, schiacciati come sagome di latta arrugginite e affumicate. La Venezia affollata di figure umane, ostentata nei saloni adiacenti sfavillanti d'oro e di pittura, qui assume la grandiosità desolata e grottesca di una città fantasma.

 

Ad essa, sulla parete di fronte, fa eco un'altra immagine spettrale: sopra una palude grigio-cenere, infestata da rampicanti contorti e secchi, levita una bianca bara di zinco spalancata e vuota, avvolta nelle spire dei rampicanti. (La bara vuota allude alle reliquie di San Marco, portate a Venezia nel IX secolo e poi scomparse per riapparire, “miracolosamente”, alla consacrazione dell'attuale basilica, nel 1094. Per Kiefer, la bara è un omaggio al quadro di Tintoretto Il ritrovamento del corpo di San Marco; e le spire dei rampicanti sono un'evocazione della teoria fisica delle stringhe, a cui ha dedicato un'intera mostra nel 2019).

 

Retrocedendo ancora verso l'ingresso, i due paesaggi contrapposti sono un mare notturno sovrastato da apparizioni e una crosta vulcanica illuminata da esplosioni cosmiche. Sul mare, che riflette i bagliori di un cielo tempestoso di fumi dorati, incombe una tromba marina di piombo luminoso (per Kiefer è un'emanazione della luce di Dio che, secondo una versione della cabala, si ritira per dar spazio al mondo). Ai suoi lati s'intravvedono appena due grandi figure angeliche, graffiate nello spessore materico della pittura.

Nel paesaggio di fronte, sopra una distesa di lava rappresa e screpolata in grandi zolle, si riflettono le esplosioni di piombo fuso che invadono il cielo fumoso e dorato (nel catalogo, Kiefer fa esplicitamente riferimento a Alfred Wegener, il geologo scopritore della tettonica a placche).

 

 

Infine, sulla parete di fondo, su cui si aprono le due porte sovrastate da altri due graffiti angelici, ricompare la palude ghiacciata, ma stavolta l'oggetto inserito è una scala a pioli, anzi tre scale impilate precariamente una sull'altra, che si alzano proprio al centro del paesaggio (Kiefer: «l’artista non è il prodotto finale dell’evoluzione, ma percorre in su e in giù la scala evolutiva, come gli angeli sulla scala di Giacobbe nel racconto biblico»). Sulla parte alta della scala sono appesi dei vestiti abbandonati; sotto, una scarpa incrostata di fango dorato. Altre scarpe abbandonate, come resti di un attentato terroristico, aleggiano nel solito cielo tempestoso, qui dominato da una nube d'oro affumicato.

 

L'immagine della combustione che domina il ciclo di opere, ed è evidenziata fin dal titolo, non è tanto la distruzione della materia, quanto la sua trasformazione, quel tipo di trasformazione che era essenziale all'alchimia, a cui si ispira evidentemente anche il lavoro di Kiefer. (Del resto, l'alchimia è «il linguaggio più evoluto per pensare in sostanze e processi», cioè per pensare la prassi della pittura, scrive James Elkins in La pittura cos'è, Mimesis, 2012). Visti da vicino, i sublimi cataclismi di Kiefer rivelano i processi alchemici tipici della sua pittura materica, nella quale distruzione e creazione sono due facce della stessa medaglia: legni e libri carbonizzati, piombo e oro fuso (materiali d'elezione dell'alchimia), e poi coaguli di resine ambrate, carbone, fumo e cenere, oltre a colori acrilici e materiali vari.

 

È come se gli elementi delle antiche superfici decorate e dipinte che qui incombono ancora dal soffitto, si fossero trasmutate in grumi di materia incandescente, poi coagulata e raggrumata, passando attraverso le varie fasi alchemiche (nigredo albedo rubedo) e diventando gli ingredienti della nuova creazione pittorica: una grandiosa visione della “distruzione creativa” del tempo, della natura e della storia, congelata in un attimo.

Di fronte ad essa, noi stessi siamo trasmutati: da turisti spettatori del lussuoso spettacolo della storia dell'arte, a testimoni della distruzione di quella storia e di quell'arte. Niente più immagini “in vetrina”, piene di figure in posa, da ammirare nei loro ostensori dorati. Al loro posto: continua metamorfosi della materia, paesaggi disabitati e apocalittici che evocano passati geologici, futuri distopici e bagliori sinistri della storia che ha segnato questo luogo. Una visione inaspettata, che trasmette un sottile senso di vertigine di fronte allo spalancarsi di un abisso che sembra fondere in un solo colpo tante dimensioni temporali.

Ma anche una sensazione indefinibile di disagio: un artista contemporaneo si misura, da solo, con tanta gloriosa storia dell'arte, nascondendo capolavori secolari dietro un'opera effimera, fatta di materiali poveri, e destinata ad essere smembrata, modificata, a deteriorarsi. Forse a bruciare, come gli scritti di Emo, per emettere altra luce.

 

 

Traducendo in parole la mia visione, sono inevitabilmente passato all'interpretazione. Altre, ben più dotte a autorevoli, si trovano nel ricco catalogo. Aggiungo solo una mia piccola, personale epifania, innescata all'improvviso da un elemento di contorno, proprio mentre lasciavo il salone dello Scrutinio (il che dimostra che l'attenzione sempre desta è il primo dovere dello sguardo critico).

 

Nel piccolo corridoio all'uscita del salone c'è un video che mostra a loop i grandi teleri nascosti dai pannelli dell'artista tedesco. Su quello schermo, con gli occhi ancora pieni delle distruzioni di Kiefer, ora vedo gli ammassi umani che si scontrano nei quadri di Tintoretto, Andrea Vicentino, Palma il Giovane, ripresi da vicino con movimenti di camera che ne esaltano il dinamismo. È dunque quest'apoteosi della violenza guerriera e della giustizia divina ciò che i pannelli di Kiefer nascondevano e trasmutavano! L'antico spettacolo fiero e quasi incruento della guerra messo in scena dai vincitori, esibizioni coreografiche di vaste masse e minacciosi arsenali, immagini di guerre giuste, esaltanti la potenza gloriosa delle armi veneziane che si abbattono sui nemici ai confini d'Europa (assieme alle spade degli angeli giustizieri che condannano i reprobi all'inferno).

 

Quello che poco fa Kiefer mi ha fatto toccare dal vivo erano invece gli effetti reali della distruzione, una distruzione materica e tangibile, che ha preso il posto di quella violenza trasformata in spettacolo da ammirare a distanza di sicurezza.

E allora mi rendo conto che ciò che vediamo sui nostri schermi, nelle nostre case, da tre mesi, è un inquietante ibrido delle due esperienze. La distruzione bellica che incendia ora i confini d'Europa – costruzioni squarciate e bruciate (a volte così simili alle torri di Kiefer all'Hangar Bicocca!), cieli invasi da incendi e fumi neri, strade grigie e sporche, fango e fosse comuni, mobili bruciati, ferri contorti, cenere e detriti – è trasformata in uno spettacolo da guardare comodamente seduti sul divano. Non si vedono i combattimenti, sostituiti dalle piccole storie patetiche, dall'attenzione voyeuristica al dolore nei volti dei sopravvissuti.

Per contro, senza volerlo, perché l'opera è stata commissionata ed eseguita prima dell'invasione russa dell'Ucraina, il ciclo veneziano Kiefer, col suo micro-macrocosmo alchemico, sembra ricostruire “dal vivo” gli effetti di quelle distruzioni, di quelle antiche e di quelle attuali, e mostrarcele in un cortocircuito temporale in cui passato, presente e futuro della violenza sono fusi assieme.

 

Certo, non c'è la guerra in Ucraina, in queste opere. Nelle intenzioni del pittore-filosofo c'è in primo luogo il progetto di tradurre in immagini il nesso inscindibile di distruzione e creazione che egli vive nella sua pratica artistica, quel nesso di nulla ed essere teorizzato nel nichilismo paradossale di Andrea Emo, e nel quale si nasconde l'essenza inafferrabile dell'arte stessa. Perché l'arte moderna, tenendo fede all'idea romantica che la poesia è sempre poesia della poesia, riflette continuamente su se stessa.

Di fronte alla distruzione reale della guerra, potrebbe sembrare un'occupazione futile. Eppure, anche in questo caso, a suo modo, la fatica avventurosa e ambiziosa dell'artista ci costringe ad alzare gli occhi dagli spettacoli asettici dei nostri schermi luminosi, e a rischiare altri sguardi e altri pensieri.

Sui teleri contemporanei di Kiefer a Palazzo Ducale la guerra è assente, bruciata come gli scritti di Emo. E forse, proprio per questo, la sua assenza è una presenza ancora più bruciante e reale.

 

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