Perché i social ci rendono cattivi? / Populismo
Le società occidentali hanno creato e progressivamente perfezionato a partire dal Settecento il modello della democrazia rappresentativa. Un modello che si basa sull’elezione da parte della popolazione di poche persone in grado di portarne avanti gli interessi e nel contempo di governare al meglio la società. Questo perlomeno è quello che questo modello promette sul piano ideale. Sino agli anni Ottanta del Novecento esso è riuscito a conseguire un buon livello di efficacia, ma da alcuni decenni è entrato in una fase di crisi in tutto il mondo occidentale. Una crisi che appare ora evidente anche in Italia e che viene solitamente denominata “populismo”, vale a dire un fenomeno che nasce dalla volontà della popolazione di non essere governata da qualcuno, di rifiutare qualsiasi forma di mediazione e di gestire autonomamente il suo destino. Il che, evidentemente, è giusto e auspicabile sul piano dello sviluppo dei principi della democrazia, ma rende difficoltoso il funzionamento della stessa democrazia. All’interno della cultura democratica si genera cioè una situazione paradossale. Si tratta di quel fenomeno che è stato rilevato di recente anche dallo studioso di Harvard Yascha Mounk nel volume Popolo vs Democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale (Feltrinelli).
Le ragioni alla base dello sviluppo di tale situazione sono molteplici, ma una delle principali è costituita dalle trasformazioni sociali indotte dai media. E soprattutto dal fatto che questi hanno abbandonato quel modello dello spettacolo che ha dominato per molti secoli e che presupponeva una condizione di distanza e passività dello spettatore. Dopo averlo ripreso e rafforzato nel Novecento con il cinema hollywoodiano, la radio e la televisione, negli ultimi anni l’hanno messo in crisi, attribuendo un sempre maggior valore alla personalità individuale e assecondando così il diffondersi nelle società occidentali di un modello culturale di tipo narcisistico. L’hanno fatto soprattutto grazie alla disponibilità delle reti informatiche e all’arrivo del Web e delle nuove tecnologie della comunicazione. È in atto infatti un crescente trasferimento dell’esistenza delle persone all’interno del mondo mediatico e digitale, che riduce inevitabilmente le distanze tra la vita quotidiana e quello che accade all’interno degli schermi. Oggi, più che guardare lo spettacolo da lontano, si vuole poter entrare direttamente al suo interno e, se possibile, esserne protagonisti. È nata così quella che non a caso Giovanni Orsina ha chiamato La democrazia del narcisismo (Marsilio).
I social media hanno avuto un ruolo decisivo nella creazione di questa situazione. È questa la tesi principalmente sostenuta dall’informatico e saggista americano Jaron Lanier nel recente volume Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social (Il Saggiatore). A suo avviso, i social media stanno radicalmente modificando la percezione che abbiamo della società in cui viviamo. Addirittura, Lanier stabilisce una diretta relazione tra gli utilizzatori dei social media e i drogati e i giocatori d’azzardo, perché trova che in essi sia presente la stessa forma di dipendenza. Una dipendenza pericolosa per la società in quanto è evidente che «I tossicodipendenti diventano vittime di una mitologia personale. Hanno una visione grandiosa di sé, che però si allontana sempre più dalla realtà a mano a mano che sprofondano nella dipendenza» (p. 60). Ne deriva, secondo Lanier, che le persone affette da dipendenza diventano di frequente aggressive nei confronti degli altri. Proprio come succede a molti utenti dei social media.
Lanier è stato un pioniere della prima ora del web e della Silicon Valley, ma in seguito si è pentito e oggi è diventato un pensatore fortemente critico nei confronti della natura che ha assunto il mondo digitale negli ultimi anni. Nel suo libro si occupa anche di altri temi, ma quello che è maggiormente significativo è il suo tentativo di riflettere su come mai i social media trasformino le persone in “stronzi”. Ciò, secondo Lanier, è dovuto a vari motivi, ma anche alla capacità dei social media di generare un elevato livello di frustrazione mostrando continuamente persone che sentono l’obbligo di farsi vedere felici. E ci sono anche altre ragioni. Molti hanno pensato che i social media potessero sviluppare il potenziale emancipatorio della società. L’hanno fatto, ad esempio, quando nel 2011 è scoppiata la cosiddetta “primavera araba”, con molti giovani che si riunivano e protestavano grazie ai social media. Si trattava di un’illusione, come è stato dimostrato dalla rapida fine di tale “primavera”. Secondo Lanier, ciò è inevitabile, perché il sistema delle techno-corporation che domina attualmente il mondo del web «studia questi idealisti della prima ora e cataloga le loro preferenze – lo fa per sua natura non ha un piano malvagio. I risultati hanno l’effetto involontario di riunire gli idealisti in un cluster in modo che possano diventare il target di shitpost che statisticamente li rendono un po’ più irritabili, meno abili nel comunicare con persone diverse da loro, quindi un po’ più isolati e, infine, un po’ meno capaci di tollerare una politica moderata o pragmatica» (p. 146).