La Via Licia
Il testo che segue è un report di viaggio ma non è – né vuole essere – una guida alla Via Licia. L’unico testo che mi sento di consigliare è The Lycian Way scritto da Kate Clow, la persona che ha aperto la via una decina di anni fa. Io ero stato sulla Via Licia cinque anni fa e poche cose sono cambiate rispetto a quel tempo, purtroppo continua l’esodo delle persone nelle grandi città poiché nei villaggi non riescono più a sopravvivere con la terra e con la pastorizia. Kate non è diventata ricca scrivendo questo libro e la strada ha bisogno del continuo aiuto di volontari per essere segnata; le persone che abitano da queste parti integrano il loro misero salario con l’offerta di vitto e alloggio ai viandanti. Ma gli autoctoni sono tutt’altro che miseri, come vedrete bene. Buona lettura.
La Via Licia è un sentiero a lunga percorrenza nel sud della Turchia. Se s’immagina la penisola anatolica come un rettangolo, bisogna prendere l’angolo in fondo a sinistra come riferimento per la partenza e un terzo del lato lungo per l’arrivo. Da Fethiye ad Antalya per la precisione, 508 chilometri con altitudini comprese tra lo zero e i duemila metri.
Lago nei pressi di Bel
Dopo dieci mesi passati sulle barricate a Istanbul a vedere con i miei occhi la rivolta turca; dopo aver vissuto tutto questo tempo tra scontri di piazza, manifestazioni e forum nei parchi; dopo aver letto, su media mainstream e non, quanto era successo; dopo tutte queste belle cose (e tante altre, s’intende) ho deciso che bisognava staccare la spina. Zac. Un taglio netto. E magari ritrovare un po’ me stesso. Chi ero? Resistere non serve a nulla – come recita il titolo di un libro di successo –, è così?
Domande alle quali non so ancora se ho dato una risposta, lo ammetto. Ma in fondo la risposta in un viaggio non è l’arrivo, è il viaggio stesso. Così, dopo aver chiamato inutilmente “gli amici” che ogni anno dicono che vogliono fare un’esperienza sui generis per poi trincerarsi dietro alla famiglia e al lavoro – un po’ come ai tempi di Gezi Park –, sono partito.
Tomba licia a Sidyma
La Via Licia mi sembrava l’ideale per mettere un passo dopo l’altro tra boschi profumati e salite baciate dal vento, per far respirare i polmoni e la testa attraverso paesaggi marini e montani, per scoprire i resti di terme romane, di castelli bizantini e di necropoli della civiltà Licia. E così è stato; anche se il passato recente spesso mi è venuto a trovare.
Ma chi erano i Lici? Negli archivi degli Ittiti, popolo giunto in Asia Minore verso il 2000 a.C., è già presente un popolo di nome Lukka e nell’Iliade di Omero si fa riferimento a Sarpedon, re dei Lici, alleato dei troiani. Non solo, Erodoto nei suoi scritti ci dice che questo popolo aveva la discendenza da parte di madre e non di padre. La Licia fu conquistata da Alessandro Magno, governata da Tolomeo e infine passò ai Romani come una remota provincia dell’impero. Ed è proprio sotto i Romani che la Licia visse il suo splendore prima di essere divisa dai balzelli dei Bizantini e dalla noncuranza degli Ottomani che solo nel XVIII secolo tentarono una ricolonizzazione con popolazione greco-ortodossa.
La Via Licia, che dai Lici prende appunto il nome, è percorribile in entrambe le direzioni: sia da ovest verso est, sia da est verso ovest. I punti di partenza e di arrivo si trovano vicino Fethiye e Antalya. Il trekking, come detto, è stato aperto da Kate Clow una decina di anni fa. Kate, a cinquant’anni suonati, è riuscita nell’impresa di trovare dei finanziamenti per un’attività culturale e grazie all’aiuto di qualche volontario è riuscita a segnare il percorso da seguire con l’inconfondibile waymarking bianco rosso.
Io ho deciso di partire da Fethiye che è raggiungibile da Istanbul in comode 13 ore di autobus, oppure in un’ora di volo atterrando all’aeroporto di Dalaman e poi prendendo un bus per un’altra ora. Se si ha la fortuna di arrivare di domenica o di martedì, a Fethiye c’è il mercato locale e si può fare rifornimento di acqua e provviste. Non c’è bisogno di caricarsi come somari perché lungo la Via Licia ci sono diverse sorgenti e in molti paesi si trova di che sfamarsi. Fethiye, a parte qualche tomba licia incastrata nel cemento e un bellissimo bazar del pesce, è una banale città turistica dalla quale ci si può allontanare senza ricordare nient’altro.
Il trekking della Via Licia in teoria parte da Ovacık, a venti km, ma potete benissimo partire da Fethiye. Si prende una strada sterrata in salita che, passando per la tomba licia del re Aminta, porta al Castello dei Cavalieri, un imponente rudere lasciato a se stesso e alla gloria di finanziamenti che non sono mai arrivati. Proseguendo in sette km si arriva all’insediamento abbandonato di Kayaköy.
Kayaköy è un villaggio fantasma, effetto dello scambio di popolazioni tra greci e turchi. La comunità greca che viveva in questo luogo, infatti, nel 1923 è stata obbligata a ritornare nella madrepatria a seguito del forzoso scambio di popolazioni tra Grecia e Turchia. Le mura delle case di pietra sono ancora intatte, caduti i tetti; la chiesa principale, Panayia Pyrgiotissa, che cinque anni fa avevo potuto visitare, era transennata. Un cartello diceva che era in ristrutturazione, anche se degli operai non c’era traccia.
Da Kayaköy, in cinque km si giunge a Ölüdeniz, cioè il “Mar Morto”, la località turistica marina più fotografata della Turchia. La caratteristica di Ölüdeniz è una piccola baia circolare collegata da un breve stretto al mare aperto, peccato sia infestata da: zanzare, inglesi e da chi pratica il parapendio. Non necessariamente in quest’ordine. Il fatto di andare fuori stagione, per fortuna, abbassa il coefficiente di trovarsi davanti a quest’eterogeneità. Piuttosto che nuotare nella laguna, consiglio il mare aperto: l’acqua è sicuramente più fredda ma a ogni bracciata si solleva acqua e non melma. Per non parlare del dubbio piacere di osservare da vicino gli atterraggi sbagliati dei novelli Icaro che vanno a schiantarsi sulla spiaggia come mosche sul vetro. Si può campeggiare a est sulla spiaggia o poco sopra alla baia in direzione Kayaköy, altrimenti ci sono diversi alberghi con i quali in fuori stagione si può tirare sul prezzo.
Per raggiungere Ovacık, l’inizio del trekking, da Ölüdeniz si prende un minibus. Sono tre km tutti di asfalto e conviene tenere le forze. Levati i primi due km di strada sterrata, la salita poi si fa impegnativa con una mulattiera fino a Kozağaç che costeggia le vette innevate del monte Baba, il luogo in prossimità del quale si lanciano gli scavezzacollo con il parapendio. Questa è la vera attività che muove l’economia di Ölüdeniz poiché per ogni risalita con jeep antidiluviane i proprietari del business chiedono ai paracadutisti un occhio della testa, mentre per una discesa con il paracadute non bastano nemmeno i soldi del mutuo. A Kozağaç ci sono diverse stalle deserte nelle quali ci si può adattare.
Da Kozağaç in una decina di km si arriva a Faralya, proprio sopra “La valle delle farfalle”. Queste creature vivono una sola stagione ma le pansiyon locali sono sempre piene. Come mai? Il dubbio che i proprietari imbalsamino qualche esemplare sulle finestre e sulle cime degli alberi mi ha assalito un istante ma, in realtà, è perché diverse strutture offrono corsi yoga e pilates al contatto con la natura. Bella mossa. Così non è stata la mia di scendere fino alla spiaggia poiché, come c’è scritto anche nel libro di Kate, è altamente sconsigliato farlo con lo zaino da escursionista (15 kg il mio) sulle spalle.
E infatti sono caduto. Anzi, più che caduto sono rimasto appeso. Sul serio. Appeso a quelle corde che aiutano i pochi pazzi incoscienti che si avventurano nella discesa, o nella salita. Una III, non di più, per chi è appassionato di arrampicata. Per chi non lo è, dipingo un simpatico quadretto. Immaginate di scalare un muro con degli appigli e una corda. Ecco, ora aggiungeteci un bel peso sulle spalle con il quale non è facile muoversi. Ora prolungate questa visione per cinquanta metri buoni. Quando mi sono reso conto che non ce l’avrei fatta a risalire ero già alla metà del percorso e le mani cominciavano a sanguinare per la presa nelle corde. Sono stati tra i cinquanta metri più lunghi della mia vita e anche tra i più dolorosi visto che, a due settimane dal viaggio, le stigmate della mia incoscienza non sono ancora guarite. Ma perché non sono riuscito a capirlo in tempo? Perché mi sono buttato sapendo che sarei potuto andare incontro a una cosa del genere?
Se ho sottovalutato il rischio è stato per l’adrenalina. Quella stessa adrenalina che, fino a pochi anni fa, mi ha fatto surfare e cadere nelle onde e sputare acqua salata da occhi che non capivano più se il mare si fosse ingoiato anche la tavola. Quella stessa adrenalina che, fino a pochi mesi fa, mi ha portato a resistere contro il gas lacrimogeno sparato dalle forze dell’ordine da una parte e dal lancio di pietre di alcuni rivoltosi dall’altra. Quella stessa adrenalina di cui avverto il bisogno come droga per lenire una vita fatta d’impegno. È per questo che mi sono buttato. E con il senno del poi lo rifarei ancora: surf, rivolta, scalata. Lo rifarei per sentirmi vivo.
Arrivato in fondo alla valle, comunque, non c’era nessuno. La barca proveniente da Ölüdeniz sarebbe passata il giorno dopo. Per una notte sono stato l’unico essere umano ad abitare la valle. Ho fatto un bagno. Poi sono andato alla cascata, mi sono fatto una doccia. Ho preso le bende e mi sono fasciato la mano. Ho preso la Commedia di Dante e quando ho letto mi sono messo a morire dal ridere. C’era qualcun altro che gli piaceva scendere agli Inferi. Mi ricordo che prima di addormentarmi ho visto una farfalla, una.
Il giorno dopo la barca è passata. I turisti non capivano come potevo trovarmi lì e forse nemmeno il capitano. È stato onesto. Non ha chiesto una cifra esorbitante per riportarmi a Ölüdeniz. I passeggeri erano per lo più stranieri e si divertivano un mondo, cosa dicevano? Per lo più scemenze legate alle vacanze. Ridevano e ridevano. Con un sorriso amaro gli ho detto che non avrei potuto barattare nulla di quello che avevo in testa con la loro allegria. Non hanno capito, non tutti sanno leggere tra risi e sorrisi.
Da Ölüdeniz ho ripreso il minibus per Ovacik, dejà vu. La sera sono rimasto in un villaggio, a Kirme, la mano mi faceva male e non riuscivo a montare la tenda. È stato un bene, così posso raccontare un’altra storia. La storia di una famiglia di pastori.
Una volta queste valli erano pieni di pastori. Per lo più di ovini, ma anche di bovini. La famiglia dove sono stato è una delle poche che dalla mattina alla sera scorta gli animali per i pascoli. Le altre vivono qui ma lavorano altrove, a Fethiye soprattutto. Non avendo la possibilità economica di produrre in massa, gli artigiani della pastorizia si stanno estinguendo. Poche famiglie, come dicevo, possiedono ancora animali e la maggior parte di queste li alleva solo per uso e consumo personale.
Si vive della stagione estiva e di contratti stagionali, così mi hanno detto. In cinque mesi si cerca di racimolare quello che deve bastare per dodici. Non è facile. E il fatto che non ci sia assistenza da parte della municipalità complica le cose. Per quante volte hanno chiesto nuovi pali della luce, una revisione del sistema fognario e altre cose, raramente è arrivata una risposta da parte delle amministrazioni locali. Così fanno tutto da soli, insieme, sono una vera e propria comunità. E non sono i soli, poiché ho scoperto che anche altri piccoli paesi vertono nelle stesse condizioni.
Dopo cena e dopo avermi offerto almeno un litro di tè, i pastori mi hanno mostrato l’alloggio: una stalla riammodernata, ora stanza dei figli. Mura spesse di pietra e pavimento completamente rivestito dai tappeti. Le mangiatoie erano diventate degli armadi o dei tavoli, il riscaldamento era dato da un’imponente stufa a legna. Ho dormito nel letto vuoto di un figlio che ora è a Istanbul a studiare per diventare avvocato.
Il giorno dopo, mi sono rimesso in cammino alla volta di Kabak. Ho ripassato Faralya, ho guardato la mano e sono passato oltre. A Kabak, dal mio ultimo mio viaggio non è cambiato nulla e l’unica pansiyon è retta da un’algida signora che, sebbene si fa chiamare bonariamente “la mamma”, centellina persino i chicchi di riso. Sono passato oltre e ho montato la tenda a due passi dal mare. Durante la notte si è scatenato un violento temporale e la mattina ho dovuto aspettare che la tenda si asciugasse per ripartire.
Da Kabak si arrivava ad Alınca, passando da zero a più di mille metri. C’erano due vie: una panoramica attraverso la valle e una diretta lungo la dorsale della montagna. Quale dovevo scegliere? Quella più difficile, ovvio. Dietro a una curva, a metà strada, una frana si era portata via il bosco e un fiume di ghiaia aveva cancellato ogni traccia di waymarking. Che fare? Per fortuna che passava di lì un pastore e così grazie a lui sono riuscito ad arrivare ad Alınca senza problemi. A casa del pastore mi hanno rimpinzato di pomodori crudi essiccati al sole fino a scoppiare. Poi, grazie a un trattore, sono riuscito ad arrivare a Sidyma. Qui, in un tentativo di sito archeologico, ci sono dei ruderi di mura bizantine e terme romane, e delle tombe licie in ottimo stato di conservazione. Tutto in assoluto stato di abbandono. A Sidyma ho dormito dal muhtar, dal capo villaggio. Come a Kirme qui si vive in comunità e si prendono insieme le decisioni per il villaggio.
Il giorno dopo ho proseguito per Bel, sette km attraverso il letto di un fiume fino a quando non si arriva alla sella di un monte. Un posto pericolosissimo visto che c’è un’altissima concentrazione di arnie artificiali posizionate persino sulla strada principale. Io mi sono bardato con tutto quello che avevo e, dopo che le api hanno cominciato ad attaccarmi, ho corso (con i famosi 15 kg sulle spalle) sognando di essere Usain Bolt. Sono stati duecento metri molto intensi.
A Bel, ho trovato ristoro in una casa di contadini. La sera mi hanno rimpinzato di verdure e annaffiato con ettolitri di tè. C’erano alcune case che non avevano elettricità. Qui, più che altrove, ho incontrato persone completamente tagliate fuori dalla cosiddetta vita reale, c’era addirittura chi ignorava il nome del presidente della Repubblica e del primo ministro. Il che, forse, non è detto sia un male. La piccola moschea del villaggio non aveva nessun minareto e il muezzin richiamava i fedeli alla preghiera senza l’appello. La maggior parte delle persone che abita da queste parti è alevita, al contrario della maggior parte dei turchi che invece è sunnita.
Da Bel sono andato a Gavurağılı, sette km, ma con un dislivello di più di mille metri. Un tratto impegnativo in discesa dove “’l piè fermo sempre era ’l più basso”. E poi da Gavurağılı sono arrivato a Pydnai, cinque km pianeggianti. Ah, ma che bella parola. Pydnai è un vecchio castello bizantino in completa rovina, abbandonato a se stesso. Alcune torri resistono ancora al corso del tempo e così alcune merlature. Il castello ha una pianta grande almeno come la piazza di San Pietro ed è un peccato vederlo così. Accanto c’è un fiume dove una volta era ormeggiata parte della flotta bizantina.
Questa volta non ho fatto in tempo ad andare a Letoon, santuario della dea Latona e sede di un oracolo. Da lì si prosegue poi per Xantos dove Charles Fellows, un archeologo inglese, nell’Ottocento ha sottratto (legalmente, grazie agli accordi tra ottomani e inglesi) tutto quel che c’era o quasi. E ora, per vedere le meraviglie di questi posti (sopravvivono una serie di agorà, la “Tomba delle Arpie” e un sarcofago licio risalente al III secolo a.C.), bisogna andare al British Museum. Da Xantos poi si raggiunge la lunghissima spiaggia di Patara; sono più di dieci km, per lo più disabitati, dove le tartarughe caretta caretta decidono di deporre le uova.
La caduta aveva rallentato il cammino e il tempo a mia disposizione era scaduto. Forse ci tornerò un’altra volta. Sicuramente tornerò alla natura; per quanto l’uomo provi a pensare di essere un’entità superiore rispetto a questa non fa altro che mentire a se stesso e a tornarci. È nato prima l’uovo o la gallina? Non lo so, ma so che la specie umana è solo una e non la componente di millenni di evoluzione di questo pianeta. A chi crede nel divino, visto che sono in molti a dire che la natura deve essere assoggettata all’uomo, dico che la nostra vita è spiritualmente comparabile a una scoreggia di dio. A chi crede nella scienza, invece, dico che tutte le conquiste materiali devono avere un fine spirituale. La resistenza a un mondo fatto di cemento e ingiustizie passa anche di qui. Dalla natura. E dalla nostra voglia di vivere in un mondo migliore. “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza” fa dire Dante a Ulisse. Che il viaggio cominci.