Il fiore del primo maggio / Mughetto
È fiorellino compunto, gentile, squisito all’olfatto, eppure chiamiamo mughetto anche una sgradevole infezione fungina delle mucose. Gli capita anche di essere classificato come Convallaria majalis, ma con il grugno del simpatico porcello nulla ha in comune. A chi non sia digiuno di lingua latina la denominazione botanica evoca all’istante le convalli e i pendii ombrosi nel momento dell’anno dai verdi più smaglianti: il maggio lussureggiante, il mese del rinnovamento da sempre e ovunque atteso e celebrato.
In Francia le muguet (da noix musquette, a sua volta derivato da musc, muschio) è il fiore del primo di maggio, ben prima che vi cadesse anche la festa dei lavoratori (Chicago1886, Parigi 1889). Fu Carlo IX di Valois nel 1561 a dare avvio alla tradizione di regalare in questo giorno un rametto delle bianche odorose campanelle come augurio di bonheur. Da allora i cugini d’oltralpe, se non lo colgono nel bosco o in giardino, lo acquistano dai fiorai o dai venditori improvvisati, che lo esibiscono ad ogni angolo di strada perché – una tantum – non v’è bisogno di alcun permesso. È d’obbligo portarlo al bavero, donarlo in segno d’amicizia o come pegno d’amore.
Insieme all’indimenticabile quanto invidiabile ritratto dell’amata Mimy, Guido Piovene nelle Furie ci restituisce da par suo l’atmosfera di un lontano primo maggio parigino:
La pelle bianca di Mimy la staccava dal resto del mondo naturale e umano come una lieve alterazione del vero. Faceva pensare a quei pezzi di terreno in un bosco su cui batte un filo di sole che danno l’illusione ottica di essere sospesi leggermente più in alto. Ho amato in lei la bellezza della rarità, l’unica non ingiusta, la sensualità pronta che è la faccia dell’intelligenza leale.
Veniva a trovarmi a Parigi, tutti e due ancora incerti del nostro futuro e costretti a lunghi distacchi. Accaddero in quel maggio del 1947 a Parigi piccoli fatti straordinari. Le foreste buttarono una quantità di mughetti come non si era mai vista. Li vendevano a ceste a ogni angolo di strada. Anche camminando distratti si coglievano riflessi bianchi con la coda dell’occhio, luci che guizzavano via. Le strade erano tagliate da correnti di profumo esatte, in cui si entrava e usciva a intervalli. Si alzavano di tono anche i pensieri più comuni.
Dieci anni prima, il senso pieno della festa francese lo ruba anche Robert Capa in quello scatto, forse l’ultimo, con cui fissò Gerda Taro (la protagonista del libro di Helena Janeczek La ragazza con la Leica) mentre acquista dei mughetti da una fioraia poco prima di partecipare alla manifestazione.
Come ogni fiore minuto di gusto ottocentesco, anche i mughetti vogliono quell’attenzione che – scrive sempre Piovene – ci costringe «a fissarli per distinguerli bene e per intenderne la forma. Difficili come persone, richiedenti la riflessione». Il racemo, con le campanelle tutte pendule nel verso interno dell’arco, spunta tra due foglie radicali che, avvolte a sigaro, si svolgono in lamine ellittiche dall’apice acuto, glabre, d’un verde tenero con riflessi glauchi e finemente tessute da nervature parallele. Le candide corolle, dalla mezza all’intera dozzina per gambo, dondolano da un peduncolo ricurvo con brattea opalina: vezzose nel lembo inciso da sei cappette ripiegate all’indietro. La loro fragile grazia è ben resa dalla felice analogia con cui Giuseppe Ungaretti chiude una poesiola apparsa nel 1915 sulla rivista «Lacerba», poi rifiutata forse perché un po’ crepuscolare:
Mughetto fiore piccino
calice di enorme candore
sullo stelo esile
innocenza di bimbi gracile
sull’altalena del cielo.
Non inganni l’aspetto mite di quest’erbacea perenne, dal rizoma che si allunga vieppiù mettendo ad ogni stagione radici e fusti avventizi: è una delle numerose specie officinali tossiche che popolano i nostri boschi. Ma, dal momento che sottile è il confine tra venefico e medicamentoso, in dosi e modalità consigliate molte sono le proprietà (cardiotoniche, sedative, diuretiche) sfruttate dalla farmaceutica e dall’erboristeria.
La facilità di propagazione, la delicatezza del fiore e del suo profumo lo rendono adatto a tappezzare il piede di faggi e carpini, gli orli in penombra di aiuole o cespugli. Prospera anche su terreni rocciosi purché freschi.
I mughetti – appena colti in mazzolini o distillati in flaconi – fanno tanto (come le violette) vecchia zia in veletta e sollecitano il nervo scoperto del patetico sentimentale. Ben venga dunque l’usanza francese di farne il fiore del primo maggio e, se non proprio di lotta, di promessa felicità. Potremmo anche noi sfilare oggi in corteo sfoggiando un «brin de muguet» e canticchiando questa strofa del Discours des fleurs di George Brassens:
Le premier Mai c’est pas gai,
je trime a dit le muguet,
dix fois plus que d’habitude,
regrettable servitude.
Muguet, sois pas chicaneur,
car tu donnes du bohneur,
pas cher à tout un chacun.
Brin de muguet, tu es quelqu’un.
(Mica è allegro il Primo Maggio:
io, dice il mughetto, sgobbo
dieci volte più del consueto,
deplorevole servitù.
Mughetto, non fare il pignolo,
tu doni felicità,
a buon mercato e a chiunque.
Tu sei qualcuno, stelo di mughetto.)