Una storia naturale / Telmo Pievani, Imperfezione

24 Ottobre 2019

 

“Il tutto è precario perché non è perfetto, perché non è necessario e compiuto in sé, perché avrebbe potuto essere diversamente […], congiunzioni storiche… imprevedibili rispetto a quanto le precede… e decisive per quanto accade dopo. Dentro l’imperfezione…, il nostro piccolo quartiere non ha proprio nulla di speciale. Siamo a 27000 anni luce dal centro di una normale galassia a spirale, la Via Lattea, in mezzo a uno dei suoi bracci periferici, lo sperone di Orione. Con i suoi almeno 100 miliardi di stelle, la nostra galassia fa parte di un ammasso modesto di 50 galassie noto come Gruppo Locale, a sua volta uno dei cento che compongono il superammasso Vergine, ed entrerà in collisione con la galassia di Andromeda tra circa 400 milioni di anni.”

Un testo, quello di Telmo Pievani, per comprendere al meglio la teoria dell'evoluzione naturale alla luce delle nuove scoperte scientifiche. Il soggetto principale sono le leggi dell'imperfezione come ingrediente fondamentale dell'evoluzione: il cervello e il genoma, due tra i sistemi più complessi, sono anche l’evidenza evolutiva di combinazioni antiche e nuove imperfette: “sono reticolari, ridondanti, palesemente imperfetti, inutilmente complicati, figli di rabberci, aggiustamenti, accrocchi e compensazioni.”

 

Leggendo il testo di Pievani, i miei primi pensieri vanno al filosofo pugliese Vannini, che nel 1616 ipotizzò che l’uomo discendesse dalle scimmie e per questo fu arso vivo, o a Teilhard de Chardin, gesuita autore di Le phénomène humain, messo all’indice dalla Chiesa per idee sull’evoluzione inaccettabili. Meglio invece la sorte di La Mettrie che nel 1619 pose l’accento, con intuizione straordinaria, su come le differenze tra uomo e animale fossero solo di grado. Poi penso agli animali nelle fiabe e nei sogni, portatori per eccellenza di proiezioni e funzioni psichiche umane, identità arcaiche di stratificazioni evolutive che connettono, attraverso un’anatomia comparata, le tante specie veicolate da rappresentazioni simboliche e mitiche. E ancora al grullo delle fiabe come modello fondamentale evolutivo e creativo: il grullo, l’imperfetto per definizione, è anche il solo che sa risolvere l’enigma, vincere il mostro e diventare re. Il grullo è spontaneo e sa prendere il mondo così come è: imperfezione a contatto con la vita e con l’Eros, perché sa immaginare istintivamente atteggiamenti trasformativi e adattati all’ambiente.

 

 

“Gli arti superiori di un essere umano, di una talpa, di un cavallo, di un delfino e di un pipistrello sono utilizzati oggi per funzioni del tutto diverse (afferrare, scavare, correre, nuotare, volare), ma presentano lo stesso modello di base, cioè le stesse ossa sono nelle stesse posizioni reciproche: non sono perfette per i loro compiti, ma in compenso sono il segno certo di una discendenza comune.”, scrive Pievani. E i racconti più antichi e archetipici parlano di storie riguardanti esseri per metà animali e per metà uomini, immagini di omologie in cui il gatto parla con la lepre, la volpe con il topo. Il DNA, ci viene ricordato, è Giano bifronte, “noi possediamo ancora i resti archeologici di tre geni che negli antenati rettili permettevano la produzione del tuorlo delle uova”. Geni atavici e silenti, che il premio Nobel Sydney Brenner chiama spazzatura da conservare (junk), che ci legano indissolubilmente alla storia dei viventi.

 

Rita Levi-Montalcini, ci ricorda Pievani, sosteneva, con buona pace dei tanti narcisismi dilaganti nella società odierna, “che il cervello perfetto fosse quello degli insetti, così primordiale, piccolo come un granello di polvere eppure tanto abile nel far fronte stabilmente ai problemi ambientali da 600 milioni di anni”. Per non parlare del debito che abbiamo verso il mondo microbico “tra collaborazione e belligeranza, ne portiamo miliardi sulla pelle, in bocca, nel naso”. Edgar Morin del resto scriveva che “la chiave del batterio è nell’uomo, quella dell’uomo nel batterio […] che gli esseri unicellulari dispongono fondamentalmente e in modo inequivoco della qualità degli individui viventi […] della qualità dei soggetti”. Egli mostra un progetto di scienza che sappia unire e capace di riconoscerci come esseri viventi parte di un più vasto intero ecologicamente interconnesso. Già in Marx troviamo abbozzato questo progetto, compendiato nella nota frase della Introduzione alla critica dell’economia politica: “L’anatomia dell’uomo è chiave per l’anatomia della scimmia”. Il concetto di circolarità di Morin insegna questo, che la chiave dell’anatomia della scimmia è in quella dell’uomo e viceversa, e la deduzione straordinaria di questa circolarità è che ogni singola creatura ha la qualità di soggetto. Il soggetto biologico di Morin, che si differenzia dal discorso cartesiano che distingueva macchine inanimate dalle creature viventi, mi pare rappresentato benissimo nelle tante e chiare dimostrazioni di Telmo Pievani. Ma prima di Morin fu Gregory Bateson, antropologo inglese, il più importante e originale rappresentante di un sapere connesso, che dimostrò che la struttura che connette tutti i viventi, dall’ameba all’essere umano, è “una danza di parti interagenti”.

 

 

Concetto confermato dalla paleoantropologia che sa portare alla luce reperti che, nonostante abbiano una differenza di età anche superiore ai ventimila anni, mostrano la permanenza e la costanza di alcune forme. Probabilmente qui si nasconde, più che altrove, l’idea di archetipo.

E a proposito di imperfezione, nonostante Pievani sottolinei una certa uguale importanza nel funzionamento dei due emisferi cerebrali, in campo neurologico capita che la creatività si associ a menomazioni e preluda (questo è più un mio auspicio) a futuri aggiustamenti evolutivi. John Hughlings Jackson, il fondatore della neurologia moderna, ha dimostrato come l’emisfero sinistro del cervello, deputato ad applicazioni logiche-razionali, inibisca l’emisfero destro che, come sappiamo, sa connettere e fare sintesi creative: un danno, un’imperfezione, all’emisfero sinistro potrà forse aiutarci a evolvere creativamente. Kandell in La mente alterata, ci mostra come Chuck Close, dislessico e prosopagnosico (non sa riconoscere i volti) ha trascorso buona parte della sua vita ad ingegnarsi per trovare un metodo che sapesse ovviare a queste imperfezioni, sino a diventare uno dei più interessanti e vibranti ritrattisti al mondo. Già il neuroscienziato Damasio ci aveva avvertito con grande acume che l’evoluzione dipese prevalentemente dai sentimenti per definizione imperfetti e complessi e “dallo strano ordine delle cose”. Non solo sentimenti di piacere, ma soprattutto di dolore (imperfetti), sono stati i catalizzatori dei processi che ci hanno motivato a interrogarci e a risolvere i problemi con gamme di risposte sempre più complesse, evitando così l’estinzione.

 

Chuck Close, Self portrait, 2010.


Che poi somiglia molto a ciò che scrisse Leopardi nello Zibaldone: “la perfezione di un essere non è altro che l’intera conformità colla sua essenza primigenia”. Gli esseri umani hanno in sé la saggezza delle piante che crescono in tutte le direzioni e non dovrebbero sviluppare solo le funzioni perfette e apparentemente capaci. Jung ricordava che il divenire accade solo dove siamo più sguarniti.

 Il cervello degli invertebrati risulta perfetto sin dall’inizio, mentre il nostro cervello selettivo e parziale è soggetto a continui rimodellamenti che, a differenza della progenie degli esseri perfetti, può portare a soggetti quali Hitler e Einstein. Senza dimenticare poi la nostra coesione sociale che pare veramente banale se confrontata a quella delle api, delle termiti e formiche. Tra le tante ipotesi sull’evoluzione del nostro encefalo, che Pievani spiega in modo molto chiaro, scientifico ed approfondito, resta in piedi l’idea che sia cresciuto in parallelo con la complessità delle relazioni sociali (per definizione imperfette) e con la lentezza dello sviluppo che avrebbero favorito plasticità, apprendimento e creatività. Gli ingredienti magici sembrano essere: la complessità delle relazioni, il fatto che raramente buttiamo via il vecchio per sostituirlo da capo, l’utilizzo di vecchie strutture facendo evolvere nuove funzioni che sanno sovrapporsi e mutare in relazione al contesto e alla società.

 

Sappiamo bene che per natura noi esseri umani siamo altamente sociali. Il nostro adattamento evolutivo è in parte frutto di questa nostra capacità a costituire comunicazioni e contatti sociali. E sappiamo anche che non possiamo crescere e svilupparci senza l’interazione con adulti e accudimenti adeguati. Analogamente necessitiamo di interazioni sociali per mantenere in forma il nostro cervello in età avanzata. La storia clinica dei traumi è anche una storia di deprivazioni sociali e sensoriali. Gli ormai classici studi cognitivi sulla Teoria della mente (la capacità di attribuire stati mentali a noi stessi e agli altri), hanno ampiamente confermato questa nostra abilità naturale e alcune patologie, come l’autismo, hanno dimostrato ciò che significa l’assenza di queste capacità sociali. Telmo Pievani ci rende però consapevoli di un altro aspetto di questa nostra abilità sociale. “Nostalgici dei piccoli noi protettivi, ricerchiamo le comunità primitive persino nel grande oceano della rete. In modo del tutto irrazionale, specchiandoci in chi la pensa già come noi cerchiamo ostinatamente conferma di ciò in cui vogliamo credere”. L’esempio sperimentale che suggerisce Pievani riguarda il nostro cervello esposto alla visione dei volti di persone estranee appartenenti a popolazioni diverse: se a un bianco si mostra un afroamericano o viceversa, si attivano prioritariamente regioni subcorticali profonde come l’amidgala, che segnalano pericolo e minacce, “il cervello sembra dire: chi è questo? Non fa parte della mia comunità… non è uno di noi”. Quindi animali sociali sì, ma solo con il nostro gruppo. Sono quindi gli strumenti della cultura e dell’educazione che possono potenzialmente smussare pregiudizi e stereotipi e interferire sulle nostre preferenze implicite, per favorire la relazione e l’accettazione dell’Altro: “Nel tiro alla fune della nostra mente sbilenca, quel noi può affascinare, ma anche spaventare, e allora torniamo a rifugiarci nella vecchia e insana tribù, reale o digitale che sia (Cavalli Sforza, Padoan, 2013). Come notiamo da molte notizie di cronaca, mentre progettiamo di andare su Marte il sistema limbico che dirige il nostro universo emozionale è ancora quello dei primati. Lo sanno bene i pubblicitari e i capipopolo”.

 

(da National Geographic).


Saper riconoscere i costi evolutivi di alcune caratteristiche acquisite da quelli assolutamente inutili e senza contropartita è uno dei nostri compiti più importanti. Se il bipedismo, la neotenia e il linguaggio sono portentose imperfezioni umane, ma con contropartite evolutive di efficacia indiscussa, ve ne sono altre non più in armonia con l’ambiente, che si associano al rischio di tramutarsi in disadattamenti. Non abbiamo più il tempo di riconfigurarci e ci troviamo in ritardo, fuori tempo, dissonanti. Spesso sono le attività tecnologiche ad aver trasformato l’ambiente attorno a noi. Prometeo, forse, era proprio da condannare. 

Alcune patologie come l’obesità, il diabete, le cardiopatie, le allergie, le miopie e le sindromi autoimmuni, sono l’effetto di un disadattamento ambientale perché, ad esempio, i processi metabolici si evolvono molto lentamente rispetto a quelle bombe caloriche fast food tipiche del nostro mondo, facendo impazzire i nostri microbiota e microbioma. Anche alcuni aspetti del piacere umano stanno assumendo modalità adattive dissonanti e disancorate dalle funzioni originarie: “non ci siamo certo evoluti per stare ore davanti al televisore, per giocare d’azzardo, per rimanere incollati notti intere a uno schermo di computer”, confermando l’ipotesi della Regina rossa, nome del personaggio di Lewis Carroll, che corre sempre più veloce per restare nello stesso identico punto. Sembrerebbe che il nostro apparato desiderante edonistico ci stia portando proprio lì, al punto zero di imperfezione rispetto all’ambiente in cui viviamo: ogni successo sembrerebbe contenere il seme della sua disfatta con un ambiente che corre più di noi esasperando lo scarto tra tempi biologici e tempi di frenesia culturale. Forse così deve procedere l’evoluzione, o forse “una prorompente evoluzione culturale si è innestata su quella biologica… quindi si potrebbe ipotizzare che gli artefatti e le invenzioni tecnologiche (queste sì: progettate e intenzionali, dunque potenzialmente perfette) siano il modo attraverso cui sopperiremo alle nostre limitazioni biologiche innate”. Del resto Giacomo Leopardi nella Ginestra sollevò, con sarcasmo e malinconia, la questione delle “magnifiche sorti e progressive” che arrestano, se polarizzate, l’immediatezza del gesto istintivo e naturale, favorendo invece l’egoismo che “cura puramente le cose sue”, il calcolo culturale illusorio ignaro del fanciullo e dell’animale, la finitudine e il nulla. 

 

Tenere insieme il dialogo unendo il sapere della natura con la lingua della ragione moderna, sembrerebbe essere la dieta più interessante e giusta e forse la più urgente. “Noi cambiamo il mondo, e il mondo presenta il conto. Si chiama trappola evolutiva e non è facile uscirne. […] la biodiversità sta crollando, anche quella di animali che pensavamo resistenti a tutto come gli insetti e altri antropoidi, da cui dipende una fetta consistente delle coltivazioni umane”. Ci stiamo magistralmente organizzando per la nostra prossima estinzione, ignari di quel progetto di scienza, come scrisse Morin, che sappia riconoscerci come esseri viventi parte di un più vasto Intero ecologicamente interconnesso guidato da leggi casuali, compromessi e vincoli naturali. Mi pare proprio lontana questa consapevolezza, segno inconfutabile di amplificazione dell’imperfezione umana. Pievani ci ricorda che “la Terra è un pianeta spietato, che periodicamente può dare mazzate tremende alle fragili forme di vita che la abitano”.

 

Le ingegnerie e le protesi tecnologiche non sono quindi la perfezione e soprattutto non possono nasconderci l’imperfezione. Franco Vaccari lavorando sull’inconscio tecnologico scriveva che “non è importante che il fotografo sappia vedere, perché la macchina fotografica vede per lui”. Nonostante si cerchi di controllare i segni, di rassicurare il discorso con verità tecnologiche feticiste, truccate e “belle” dentro una logica mercantile, l’inconscio rovescia l’ordine esistente e conquista il campo di frammenti taglienti come schegge di vetro (Pino Bertelli) per una vera estetica dell’esistenza. Penso a Diane Arbus che con la sua iconografia del dissidio ha saputo meravigliosamente e mostruosamente rappresentare i folli, gli insorti, i drogati e i maledetti della terra. L’arte è il coraggio di vivere con l’umana imperfezione. Creazione e imperfezione sanno rompere l’identico, l’uniforme e falso perfetto tecnologico, per andare alla ricerca del soggetto e della sua differenziazione dentro un’erotica dell’irregolarità: “il senno di poi è il peggior nemico per la comprensione dell’evoluzione, perché tende a sottostimare tutti gli innumerevoli esiti alternativi che sarebbero stati possibili a partire dalle stesse condizioni. Il senno di poi fa apparire necessario e compiuto, cioè perfetto, ciò che non lo è per nulla”.

 

Diane Arbus, A jewish giant at home with his parents in the Bronx NY 19.


Se pensiamo a ciò che scriveva Aristotele: “la natura passa gradatamente dagli esseri inanimati agli animali in modo che a causa della continuità la linea di demarcazione che separa gli uni dagli altri è sfumata e non è possibile determinare a quale dei due gruppi appartenga la forma intermedia. Così dopo la classe degli inanimati viene subito quella delle piante e fra esse una specie differirà dall’altra perché sembra partecipare maggiormente dei caratteri della vita. L’intero mondo vegetale, se lo si paragona ai corpi inorganici, appare in qualche modo dotato di vita, mentre paragonato agli animali appare inanimato”, possiamo dire che l’odierna concezione naturalistica della vita si discosta molto dalla progressiva linearità evolutiva, più nell’ordine invece della sincronicità.

Ma se torniamo all’inizio, proprio all’inizio degli inizi, qualcosa di imperfetto lo avevamo incontrato. Il vuoto. Quel vuoto quantistico pieno di tutto e il contrario di tutto, compiuto e perfetto in sé, ma senza tempo. Ecco, fu necessaria quell’asimmetria primordiale, quell’anomalia madre di tutte le imperfezioni, per dare l’abbrivio alla storia dell’universo. Del resto anche la psicoanalisi a partire dalla Klein ci suggerisce che il processo creativo dialoga con il vuoto e non con il pieno. “Ruth Kajar non aveva mai spremuto il colore da un tubetto, non aveva mai preparato una tela o impastato i colori su una tavolozza […]. In attesa che arrivasse quanto aveva ordinato al telefono si mise davanti al vuoto della parete stringendo tra le dita un carboncino e cominciò a disegnare dei tratti a caso come le venivano in mente”. Probabilmente, a parte tutto, qualcosa che ha che fare con l’arte e con la capacità di immaginarla interiormente, ci ha salvato la vita. Pievani, in questo suo importante testo, traccia conclusioni dal sapore filosofico con la consapevolezza che l’imperfezione, oltre ad essere una caratteristica evolutiva inconfutabile, è soprattutto la consapevolezza e la gestione dei nostri fragili limiti umani, primo tra tutti la caducità e la morte. Nonostante le alchimie della scienza che sanno allungare e accorciare la vita, la selezione naturale dopo l’età riproduttiva porta soprattutto dolori, acciacchi e angosce. Stiamo sfidando nuovamente l’evoluzione? A che prezzo? 

 

Attenzione però, Pievani non ci porta dentro l’anestesia nichilista senza speranza, non significa che tutto è frutto del mero caso e che le nostre azioni sono irrilevanti. C’è molto da fare nel mondo dell’imperfezione. Potremmo per esempio trasfigurare il disincanto in ironia, ritagliarci un rifugio, ribellarci almeno alle imperfezioni umane rimediabili, quelle che per ingordigia e vanità di pochi generano futilmente ingiustizie e disuguaglianze per molti. Ma soprattutto “bisogna coltivare il nostro giardino” come Voltaire fa dire due volte a Candide in chiusura dell’opera. Se per giardino intendiamo quello terrestre, non lo abbiamo mai fatto e sarebbe ora di cominciare.

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