Moda e consumo / Sai quello che indossi?
Nel 2018 un parka – giacca di origine eschimese ormai multiculturale per il suo uso intensivo – assurge a simbolo del menefreghismo occidentale di stampo colonialista. Il capo firmato Zara, probabilmente confezionato a basso costo in Bangladesh o in Marocco, assurge agli onori delle cronache mondiali perché indossato dalla first Lady americana Melania Trump durante una visita al centro di detenzione per bimbi immigrati. Il punto non è la solita solfa su donne possidenti che indossano capi economici, bensì il messaggio stampato in maiuscolo sulla tela verde militare del parka, cioè la domanda retorica: «I REALLY DON’T CARE, DO U?».
Un maiuscolo che perfora i timpani con le futili motivazioni accampate sulla scelta di quel capo, di certo non l’unico disponibile sul mercato. Non ci è dato sapere cosa non importasse davvero a Melania Trump, ma restando al parka in sé – definito da Dana Thomas, giornalista e scrittrice, autrice del libro-inchiesta Fashionopolis. The price of fast fashion and the future of clothes (Penguin 2019) “il capo di abbigliamento più esistenziale mai disegnato, realizzato, venduto e vestito” – si aprono le porte di un mondo dove ogni oggetto del sistema moda è intriso di sangue, sudore, pesticidi e peggiora l’emergenza ambientale in atto.
Partiamo dal tessuto del parka, il cotone, tra le colture più inquinanti del pianeta per cui, a quanto riportato da Thomas, si impiega un chilo di pesticidi ogni ettaro, tanto che si distingue tra cotone organico – sostenibile per umani e ambiente – e convenzionale, che richiede un quinto degli insetticidi e più del 10% di tutti i pesticidi utilizzati in agricoltura. Il cotone non organico potrebbe addirittura influire sulla domanda di acqua del globo, superando entro il 2030, qualora la produzione fosse sempre così intensa, l'offerta del 40%.
L’anallergico e apparentemente indifeso cotone ha al suo attivo anche modificazioni genetiche: nel 1997, per evitare di avere “perdite” nelle coltivazioni, la famigerata Monsanto ne ha lanciato un tipo OGM chiamato Roundup Ready Cotton, una varietà resistente a uno dei loro più potenti pesticidi a base di glifosato nonché il più utilizzato al mondo finché, nel 2015, l'agenzia internazionale per la ricerca sul cancro l'ha classificato come cancerogeno. Nel 2018 il cotone OGM continuava a essere usato da circa il 98% degli agricoltori americani, anno in cui Bayer ha comprato Monsanto e sostituito il Roundup con l’Aldicarb a base di carbonato, sostanza velenosa per flora, fauna e umani.
Il cotone domina la composizione dei jeans, probabilmente l’indumento più prodotto e indossato in tutto il pianeta, il cui processo di colorazione, come del resto accade per gli altri tipi di indumenti, richiede agenti chimici che una volta decomposti avvelenano la terra e le falde acquifere. I lavaggi dei jeans costano acqua e salute: a Xintang, la capitale mondiale dei jeans, dove ne vengono confezionati 800mila al giorno, gli scarti della produzione vengono smaltiti nel fiume Dong Jiang, affluente del fiume delle Perle, terzo in Cina per lunghezza, il cui letto contiene alti livelli di piombo, rame e cadmio. Le fibre e le polveri dei tessuti tingono tutto ciò con cui entrano in contatto, dai capelli degli operai alle strade di Xintang, e gli operai, costretti a inalarle, spesso soffrono di infezioni cutanee e respiratorie.
Ogni jeans confezionato dall’uomo richiede 70 litri d’acqua, 1,5 kilowatt di energia, 150 grammi di sostanze chimiche, mentre quelli realizzati mediante tecnologie all’avanguardia, come il sistema a laser Jeanologia di José Vidal e Enrique Silla o i robot Sewbot di Palaniswamy Rajan, permettono di risparmiare circa il 30% di energia e quasi il 70% di sostanza chimiche e acqua. Il problema rimane comunque il volume di indumenti prodotti, perché se da un lato permette i benefici finanziari e l’implementazione di tecnologie “salva risorse”, da un altro diventa sempre meno gestibile, in quanto ciò che si accumula viene sempre più difficilmente smaltito, avvelenando il pianeta. Tendiamo ad accumulare per significare, per lasciare una traccia visibile.
La Banca Mondiale stima che il 20% dell’inquinamento dell’acqua è colpa dell’industria della moda, che rilascia il 10% delle emissioni di carbonio: 1 solo chilo di indumenti genera 23 chili di gas a effetto serra; una maglietta richiede mezzo chilo di fertilizzanti chimici e 25.3 kw di elettricità, più, a detta del WWF, 2700 litri d’acqua. Si può fare di meglio, andare oltre la produzione e passare al mantenimento degli indumenti: ogni volta che vengono lavati, i tessuti rilasciano milioni di microfibre plastiche che vengono riversate in laghi, fiumi e mari, dove vengono ingerite da pesci e molluschi e, a pensarci bene, in un secondo momento, anche dall’uomo.
Dal tessuto passiamo al comparto del sistema moda da cui proviene il parka, denominato fast fashion, o moda veloce, meglio conosciuto come il salvatore dei nostri guardaroba e dei nostri portafogli. Grazie a multinazionali come il gruppo Inditex – di cui fa parte Zara – possiamo variare outfit, essere al passo con i tempi, e andare a cena fuori più di una volta a settimana. Una salvezza apparente, che, parafrasando Roland Barthes, ha annebbiato la nostra coscienza contabile rendendoci incapaci di formulare la domanda “qual è il vero prezzo del mio risparmio?”. Siamo anestetizzati dall’abbondanza, non vogliamo vedere la verità perché sappiamo che la nostra vita dovrebbe cambiare per forza, costringendoci a scelte più consapevoli.
Ormai i Fridays For Future rappresentano una prassi consolidata e accettata (in alcune scuole l’assenza non viene neanche fatta valere), però, riflettendoci, risulta alquanto contraddittorio vedere orde di giovani che inneggiano al pianeta vestiti Zara, H&M, & co. I ragazzi non hanno ancora la consapevolezza di quanto costa davvero quello che indossano – in termini di dignità umana e di risorse ambientali –, non si impara a scuola o i sui social – perlomeno non ancora –, anzi gli influencer devono tenersi ben lontani da questa storia per questioni di mera sopravvivenza economica. Il Sistema della moda ha ben compreso che la conoscenza potrebbe nuocere al guadagno, tanto da spingere uno dei suoi maggiori rappresentanti, il magnate francese Bernard Arnault a sbilanciarsi sull’operato del personaggio simbolo dell’attivismo climatico contemporaneo, Greta Thunberg, definendola demoralizzante per i più giovani (28 settembre 2019).
Insomma, non basta optare per il compostabile e il riutilizzabile: chi è senza colpa scagli la prima borraccia, la plastica nuoce meno della moda. Come il parka di Zara insegna, il basso costo e la velocità della produzione incidono sul ciclo di vita dei capi e sul ritmo dell’acquisto, ormai considerato un modo di passare il tempo, una panacea dei vari mali della contemporaneità come l’ansia e la gastrite. I tempi della moda canonica sono quadruplicati: se i clienti, per necessità, entrano in un negozio “canonico” 4 volte l’anno – una a stagione – nel caso della fast fashion lo fanno 16-17 volte. Possiamo affermare con certezza che la moda non è solo veloce, ma è diventata praticamente instantanea: dalle passerelle si arriva subito in negozio, basta una foto scattata durante la sfilata e subito le fabbriche subappaltate dai mediatori della fast fashion sforneranno quel pattern firmato e irraggiungibile a soli 19.99 euro. Mesi di lavoro di valenti designer resi vani da Instagram.
La moda veloce supera le barriere della comunicazione e delle stagioni, e sa soddisfare i gusti del pubblico: quello che non piace va eliminato dagli espositori, mentre la produzione dei capi di successo va riconfermata. Il resto lo fa la prossimità spaziale con le grandi boutique – in centro città H&M e Zara sono sempre a due passi dai monomarca di lusso – che rappresenta un buon contentino per combattere l’amaro in bocca lasciato da quanto, per la maggior parte delle persone, può essere solo un’esperienza di window shopping. Tanto ormai si somigliano tutti, mica la gente controlla le etichette dei capi di vestiario?
Questa moda istantanea dà una nuova forma al pianeta e ai suoi abitanti.
È una macchina sempre più veloce, sempre più spedita, capace di travolgere persino chi l’ha governata a lungo, come lo stilista francese Jean Paul Gaultier, che ha lasciato il prêt-à-porter nel 2015, dopo quarant’anni di attività, perché stanco di realizzare capi di abbigliamento che nessuno indosserà mai: l’eccesso di indumenti comporta la loro distruzione.
Come rimediare?
Siamo convinti di mettere a tacere i sensi di colpa con le etichette Made in Italy, ma non basta, lo dimostra quanto accaduto a Melito di Napoli il 16 novembre 2019, quando le forze dell’ordine hanno scoperto 43 operai – tra cui una donna incinta e due minorenni – segregati in un sedicente laboratorio senza finestre né servizi igienici, dove assemblavano oggetti in pelle per griffe internazionali di alta moda, note proprio per la produzione italiana. Nulla di nuovo nel sistema moda, solo l’ennesima dimostrazione che le garanzie di una moda etica e sostenibile non coincidono con la localizzazione geografica. Vale per l’Italia, per gli Usa flagellati dagli sweatshop dove vengono sfruttati gli immigrati per un salario mensile inferiore al costo di una maglietta di loro produzione. Già, lo sfruttamento del lavoro non avviene solo in Asia, in Cina, Vietnam, o in Bangladesh, teatro dell’eccidio del Rana Plaza, avvenuto il 23 aprile 2013, giorno in cui l’edificio è crollato lasciando sotto le sue macerie 2.500 feriti e 1.134 morti, di cui alcuni non sono mai stati ritrovati. E pensare che il Rana Plaza aveva dato segni di cedimento il giorno prima, quando, dopo un’esplosione, un muro, probabilmente portante, si era crepato in due, ma a nessuno degli operai era venuto in mente di saltare il lavoro, per paura di incorrere in decurtazioni di quei 38 dollari mensili fondamentali per il loro sostentamento, per noi una cifra iniqua, ma necessaria a soddisfare la brama di rotazione quotidiana del guardaroba. Insomma, la mancanza di norme su lavoro e sicurezza è servita a garantire i bassi costi di brand a grande distribuzione, a scapito della vita di decine di persone.
Non è stato mai chiarito chi effettivamente stesse producendo capi di abbigliamento al Rana Plaza per via dei subappalti – pare anche Benetton –, ma appena accaduta la tragedia, colossi come H&M – all'epoca il maggior esportatore di indumenti prodotti in Bangladesh – tennero a specificare che si trattava di un problema di infrastrutture locali non dell'industria tessile mondiale. In realtà il problema è di tutti noi, perché oleiamo di continuo un ingranaggio malato dove gli unici a non trarre beneficio dei loro sforzi sono gli operai. Il governo bangladese viene inondato da continui flussi di denaro, soprattutto perché i suoi membri sono soci delle fabbriche tessili o parenti dei proprietari, mentre i brand occidentali, dal canto loro, si nascondono dietro gli intermediari, che hanno piena autonomia operativa, soprattutto perché i costi bassi servono a mantenere negozi e impiegati nei paesi dove le leggi non si possono eludere. Il denaro risparmiato da produttori e consumatori è quello che non è stato speso per mettere in sicurezza persone e strutture.
Dopo il Rana Plaza, però, il troppo brusio mediatico ha fatto sì che le multinazionali cedessero alla sottoscrizione Bangladesh Fire and Building Safety Agreement, accordo stilato già da qualche tempo, ma fino a quel momento completamente ignorato. Secondo Dana Thomas, che ha visitato alcune fabbriche bangladesi nel 2018, la situazione è sicuramente migliorata – lo stipendio, ad esempio, è raddoppiato – ma finché sussisteranno gli interessi governativi le garanzie saranno sempre minime.
Ciò che resta è sicuramente il terrore di aver indossato o di avere nel guardaroba un capo prodotto al Rana Plaza, intriso del sudore di qualcuno forse neanche più su questa terra sofferente e vessata.
Sin qui i reati commessi dal sistema moda si sono accatastati come un mucchio di stracci sporchi: inquinamento, mancata osservanza della sicurezza sul lavoro, furto di salari, schiavismo. Lo stesso Karl Marx, come ricorda Thomas, ha affermato che “senza schiavitù non ci sarebbe cotone, senza cotone non ci sarebbe l'industria moderna” e, aggiungo io, senza industria non ci sarebbe il Manifesto del Partito Comunista visto che Friedrich Engels era figlio di un ricco imprenditore tessile e giunse alle sue teorizzazioni proprio dopo aver visto con i suoi occhi le pessime condizioni lavorative degli operai di Manchester.
Siamo testimoni di una storia che si ripete da due secoli, il cui epilogo sembra coincidere anche con quello del nostro pianeta. Se non cambieremo abitudini di consumo, a consumarsi saranno le nostre possibilità di sopravvivenza e quelle non si producono in serie.