Choman Hardi / La crudeltà ci colse di sorpresa
Della poetessa curda Choman Hardi è uscito per la prima volta in Italia un piccolo ma importante libro di poesie curato e tradotto da Paola Splendore, dal titolo molto evocativo La crudeltà ci colse di sorpresa (edizioni dell’asino, 2017). In questa raccolta, realizzata anche grazie al sostegno di scrittori ed artisti quali tra gli altri Gad Lerner, Toni Servillo, Matteo Garrone, Sandro Veronesi, compare come in un caleidoscopio in movimento il nome e il suono di città entrate di diritto nelle pagine di tanta letteratura ed ora invece nella pagina come inghiottite in un vortice di violenza e irreversibile oscurità. Halabja, Anfal, Sulaymaniya, eccole le città del kurdistan irakeno sopraffatte dal regime di Saddam Hussein, affacciarsi nel fuoco della memoria poetica e di un amore per una terra durato troppo poco, anche per tante generazioni di bambini che non hanno conosciuto giochi ma solo atrocità, deportazioni: “Non c’è quiete a Halabja, anche se dovrebbe esserci./ Ritorno dalle montagne insieme a tutti gli altri./…// Dappertutto urla e lamenti/ di chi ritrova i corpi dei suoi cari –/…// Sono qui che guardo, piango e non riesco a piangere./…”. Torna in mente, a leggere questi tragici versi, quasi soffocati da una polvere cancerosa, che annienta corpo e spirito, la domanda archetipo di Holderlin: “perché i poeti in tempo di miseria?”; forse perché, proprio nei tempi di barbarie, hanno il compito di conservare la traccia dello spirito, che è quello poi di una comunità.
E Choman Hardi lo fa in maniera magistrale evocando l’indicibile della tragedia secolare del popolo Curdo, “distillando dal mare delle possibili parole”, come diceva Calvino nelle sue lezioni americane, quelle essenziali perché i suoi testi appunto non divengano una mera pubblicistica di guerra ma in sé condensino il senso muto e attonito di tutta la misera violenza fatta dall’uomo all’uomo in ogni spazio e tempo. Le parole difatti non dicono ma evocano, e quando un libro riesce in questo, il testo prende forma e vive nell’immaginario del lettore che diviene miracolosamente altro da ciò che era, più accorto alla questione esistenziale, forse più consapevole della sua stessa precarietà: “…//Poi venne Anfal e qualcuno sopravvisse./ Tra i sopravvissuti alcuni/ sono tornati e costruito le loro case./…/ Altri non se la sono sentita di tornare./ Sono partiti per destinazioni ignote/…// Ma a volte nei giorni più caldi/ quando la terra aveva un certo odore/ ascoltando la musica/ ricordavano Anfal”.
Certo le visioni di Hardi riguardano, quasi in chiave escatologica, le cose ultime dell’uomo: i tempi della vita, come quelli delle relazioni amorose, filiali, paiono sassi sul declivio di un fiume sempre pronti a rotolare giù, sparire; tutto può esserci tolto, non solo dalla volontà di un singolo individuo, o voluttà della natura, ma anche da quella di stati totalitari che muovono ferocemente contro l’autodeterminazione di interi popoli. E in quest’ultimo caso la tragedia forse è superiore perché si cancellano non una ma intere relazioni, intere memorie costruite nel tempo lungo delle generazioni. Cancellazione quindi, per i sopravvissuti, ha voluto significare non solo essere testimoni disperati di un paesaggio tremendamente mutilato e per sempre altro da sé, ma anche patire amaramente da esuli la propria riduzione culturale. Sembra Choman Hardi, tutt’uno con la sua scrittura della lontananza, l’Angelus Novus di Klee; la poetessa vola via in Inghilterra nel 1993 ma con lo sguardo rivolto all’indietro, alle alte montagne del kurdistan e quel territorio-mondo, rimpicciolito dalla lontananza, acquisisce sempre più nelle pagine per contrappasso una nitidezza ed eloquenza senza pari anche per il lettore: “Lo porto con me in borsa ogni giorno/ nei libri sul genocidio – / foto di fosse comuni, di leader impiccati,/ bambini sfigurati da armi chimiche./…// Canto il mio paese per il silenzio che lo circonda./ Ricordo un paese che tutti gli altri/ hanno dimenticato”. E sappiamo quanto taluni spiriti abbiano la capacità di render parlante simultaneamente ogni tempo della vita, cosa che la poetessa ha fatto dall’Inghilterra con le due raccolte Life for us del 2004 e Considering the Women del 2011, entrambe confluite appunto in questo aureo libriccino dove nella seconda parte, le parole in prima persona dei sopravvissuti ai campi di sterminio di Saddam Hussein a Topzawa, Dibs, con la loro struggente forza, piane, basse nel tono, mai abbandonate alla retorica del pianto, rendono compresenti tutti i tempi dolorosi di questo territorio.
Il tempo dei fugaci amori incantati lotta con quello di intere popolazioni sterminate, il tempo delle canzoni lotta con quello di un silenzio svuotato: “...// Ce le portammo nei nostri ricordi/ le cantavamo alle riunioni di famiglia/ per ricordare i giorni in cui tutto cominciava/…/ quando eravamo innamorati, follemente innamorati/ senza sapere di chi”. Fioriscono nella pagina queste aporie, queste antinomiche presenze. La scrittrice è la confluenza di tragiche ferite mai più rimarginate ma anche la collettrice di dimensioni parallele sapendo della essenzialità della vita nel kurdistan ma anche a volte della sua inessenzialità nel libero mondo occidentale del sovraconsumo, della sovresposizione mediatica: “Non hai capito perché ho lasciato/ te, la nostra casa, le strade eleganti, sono partita di notte…/ per un posto dove tutto è razionato –/ acqua, potere, ricchezza, amore”. Choman Hardi è in questo precario equilibrio tra l’occidente, fatto di tante figurine l’una all’altra sostituibili forse sovrapponibili e il kurdistan comunità costellata di poche visioni: libertà, speranza, attaccamento alla vita, che da un secolo si guarda, ci guarda sbigottita ma che oggi invasa da nuovi autoritarismi, ancora continua a resistere, anche per noi.