Fiabe, film, fiction e favolacce / Far paura ai bambini
Mentre guardavo Favolacce, il film dei fratelli D’Innocenzo, vincitore dell’Orso d’Argento per la Migliore Sceneggiatura alla Berlinale 2020, mi sono venute in mente diverse cose. All’inizio, quel filone cinematografico e letterario dei bambini fantasma, strani ibridi fra il mondo dei morti e quello dei vivi, che stanno in una paurosa prossimità con il mondo adulto, anzi, meglio, con le nefandezze del mondo adulto. Perché questi ectoplasmi infantili sembrano scesi in Terra, prima sotto forma di bambini poi di loro spoglie, unicamente per annunciare la disfatta morale di uomini e donne, per rivelarne i miserabili e atroci segreti: dai piccoli di The Turn of Screw di Henry James a quelli di They di Kipling, dai fratellini di The Others, del 2001, di Alejandro Amenábar, al piccolo Cole Sear di The Sixth Sense, di M. Night Shymalan, del 1999, per fare qualche esempio noto. Una categoria di bambini che appaiono come messaggeri ultraterreni di un giudizio per colpe inemendabili.
I bambini di Favolacce sembrano già tutti morti dall’inquadratura numero uno. Della prima di loro, in ordine di apparizione, la bambina autrice del diario di cui parla la voce narrante, lo spettatore sospetterà subito la morte. Il suo diario scritto a penna verde, infatti, termina bruscamente e senza spiegazioni, cosa che fa presagire il peggio.
Oltre a essere pallidi e terrorizzati, i bambini di Favolacce sembrano dominati da un’unica preoccupazione: passare il più possibile inosservati, scivolare fra le cose in assoluto silenzio, se possibile scomparire, diventare invisibili. In una parola, scamparla a costo della morte in un regime di disperate e inutili cautele. Dire che non si fidino di quello che hanno intorno, è un eufemismo. Sarebbe come dire che quello di Pollicino o di Hansel e Gretel nei confronti della strega o dell’orco, è un problema di fiducia. Viene da ridere solo a pensarlo, e nessun protagonista delle fiabe dei Grimm è stato mai salvato da uno psicoterapeuta.
Si potrebbe sospettare, facendo ricorso a strumenti psicoanalitici, che la visione terrifica che i bambini hanno degli adulti in Favolacce, perché è loro il punto di vista sul mondo, sia quella distorta provocata dal senso di colpa indotto da fantasie omicide sul padre. Ma qui altro che tramonto del padre. Siamo a un Olimpo di spostati, una parterre di divinità in grado di perseguire unicamente i propri istinti, i propri ciechi destini, come accade in certe favole ovidiane dove i corpi si mescolano e si perdono nella corrente violenta della vita. L’unica figura materna è una specie di dea bianca diventata terrea: una coatta gravida che si propone sessualmente a un bambino di dieci anni per 15 euro, uscita a sua volta da non si sa quale inferno familiare.
La disposizione criminale che domina le vite nel luogo in cui i bambini di Favolacce vivono, è conclamata. E, ci dice, le favole, o per meglio dire, le fiabe, sono sempre state favolacce, altrimenti non sarebbero degne di questo nome. Se si sono trasformate in imbarazzanti storielle di unicorni arcobaleno è a causa della cattiva coscienza degli adulti. Lo annuncia, fra le altre cose, una voce radiofonica, all’inizio del film, che riporta un fatto di cronaca: una neonata assassinata dai genitori prima che si togliessero la vita. Non una notizia poi tanto lontana dalle cronache quotidiane a cui siamo abituati (e peraltro gli infanticidi sono delitti antichissimi).
Sessantacinque anni fa, con irraggiungibile forza, la stessa cosa ha affermato quel capolavoro che è La morte corre sul fiume (The Night of the Hunter, 1955), prima e unica regia di Charles Laughton: avventura di terrore, morte, sopraffazione e resurrezione che delle fiabe ha il passo di piombo, l’oscurità oracolare, il contrasto di luci e ombre, la nitidezza di trama e la crudeltà di dettato che allo spettatore non risparmia un solo secondo di apprensione, angoscia, disagio e appassionata ammirazione, partecipazione. La fiaba, cioè, in tutto il suo intramontabile splendore, la cui ambiguità è quella stessa del cuore umano, che da sempre mette sotto pressione le cattive coscienze e la pervicace vocazione umana alle false verità. In Favolacce esemplare in questo senso è il ribrezzo di Elio Germano per i corpi dei figli, maschio e femmina, toccati dalla morte, compostamente seduti al tavolo, chini su compiti eterni, come si conviene a due bambini che in pagella hanno solo dieci.
Fratello e sorella sono anche i protagonisti di La morte corre sul fiume: John e Pearl, inseguiti dal delinquente nonché falso predicatore evangelico Harry Powell, genio del Male e simulatore del Bene, che sulle dita della mano destra ha tatuata la parola Love e su quelle della mano sinistra la parola Hate. La caccia è finalizzata a impadronirsi della refurtiva che il padre dei bambini ha nascosto e rivelato solo ai figli. Prima di morire, in carcere, parlando nel sonno, questi rivela a Powell che i due piccoli sono a conoscenza del segreto, citando il verso della Bibbia: "e un bambino li condurrà" (Isaia 11:6).
Vi sento sussurrare. So benissimo che siete lì. Sento che sto per diventare veramente cattivo. Ho perso la pazienza, bambini, e ora vengo a tirarvi fuori” mormora Powell ai due fuggiaschi.
In Favolacce l’ambiguità dell’amore adulto, love e hate, non è più questione psicologica, individuale, ma, così si ha l’impressione, un tratto sociale, politico. I genitori sui figli qui hanno acquisito il diritto di vita e di morte senza che nessuno possa intervenire. A icona del bene che dovrebbe contrassegnare le relazioni familiari è rimasta la spaventosa location: un villaggio di villette unifamiliari con prato, sdraio, barbecue e piscina, confinanti con una malefica terra di mezzo dove prosperano male erbe, baracche e rifiuti ingombranti.
In L'ubicazione del bene, racconto che dà il titolo all’omonima raccolta, uscita nel 2009, Giorgio Falco così descrive la vita dei bambini a Cortesforza, immaginaria e realistica villettopoli suburbana, versione lombarda di quella romana di Favolacce, un luogo in cui gli abitanti si muovono come “sopravvissuti di una pubblicità immobiliare”:
Nei giorni di festa i bambini più piccoli, costretti nei seggioloni, rifiutano i bavaglini, muovono le braccia come croupier alienati scontenti per le mance. Le madri urlano frasi ricattatorie, i bambini piangono, gli adulti tentano una mediazione imbarazzata e discreta.
I bambini non vogliono mangiare le verdure cotte e i pesci.
Le verdure cotte rilasciano acqua che cola mista olio verso i bordi sbeccati dei piatti. I pesci dei bambini sono ripuliti, perfetti, senza lische, solo polpa, ma gli occhi morti degli altri pesci fissano i bambini dai piatti dei grandi.
Le nonne propongono un'alternativa ai pesci. I figli lasciano fare. Le nuore non gradiscono l'interferenza, trattengono l'irritazione appallottolando la mollica di pane. Le nonne propongono ai nipoti la ciccia. La ciccia è la bistecca. I nipoti preferiscono la ciccia impanata, ma adesso mangiano la ciccia al sangue, masticano lentamente, custodiscono la carne nell'ombra della bocca, la carne gonfia le guance, prima di finire sputata nel tovagliolo di carta o sotto il tavolo. Le madri esasperate sollevano i bambini dai seggioloni. Dopo il caffè, le madri aprono i vassoi dei pasticcini, i bambini abbandonano i divani, corrono goffi con le mani protese verso l'alto, si attaccano alle tovaglie, quasi sparecchiano, accecati dal dolce.
A Cortesforza gli abitanti spiano dalle finestre i giardini delle case adiacenti, vagheggiando telefonate per invitare a grigliate sul prato, feste, conviti. Sono le feste, le grigliate e i conviti che si realizzano in Favolacce, in una sorta di coerente epilogo sociologico sullo stato della famiglia negli anni Venti del Duemila.
Non si può dire che Favolacce persegua la fiaba attraverso effetti speciali. E questo è un merito vero.
Se un difetto è riscontrabile, è un eccesso di rigore formale, forse ascrivibile alla necessità di distanziare una materia tanto incandescente dallo spettatore, impedendogli ogni slancio empatico.
Lo aveva già fatto, secondo stilemi d’oltreoceano, Robert Altman in America oggi (Short cuts, 1993), altro memorabile film, ispirato a nove racconti di Raymond Carver, in cui l’infanzia ha un posto d’onore. In uno degli episodi più noti, un bambino, investito da un’automobile il giorno del compleanno, muore in ospedale. Il pasticcere incaricato di realizzare la torta trash di rito per festeggiarlo, scelta e ordinata dalla madre, perseguita i genitori al telefono perché si sono dimenticati di andarla a ritirare. Nel film il pasticcere sembra uno di quei matti alla Stephen King che, tutte le volte che si festeggia qualcuno o qualcosa, spuntano vestiti da clown da un tombino, pronti a seminare abiezione e cadaveri. Nel racconto di Carver Una cosa piccola ma buona (A Small, Good Thing, in Cathedral 1983), alla fine il pasticcere si riscatta in quello che Carver suggerisce essere un monologo degno di uno shakespeariano re senza eredi:
Annuirono quando il fornaio cominciò a parlare della solitudine e della sensazione di dubbio e di privazione che gli era venuta con l’età. Spiegò loro cosa aveva voluto dire essere senza figli tutti quegli anni. Un susseguirsi di giornate con i forni eternamente pieni ed eternamente vuoti. I dolci per le feste, le celebrazioni per cui aveva lavorato. Le glasse, le marmellate. Le piccole coppie di sposi ficcate sulle torte. Centinaia, no, migliaia ormai. I compleanni. Immaginate un po’ tutte quelle candeline che ardono. La sua era un’attività indispensabile. Era un fornaio. Era lieto di non essere un fiorista. Molto meglio dar da mangiare alla gente. C’era un odore senz’altro migliore di quello dei fiori.
Detto fra noi: i forni eternamente pieni ed eternamente vuoti è un’immagine fortissima, che mi ha fatto pensare che se mai la strega di Hansel e Gretel dovesse pronunciare un’arringa a sua discolpa, potrebbe tranquillamente far ricorso a una visione del genere. Ed è quantomeno singolare che in alternativa al mestiere di fornaio, a quest’uomo venga in mente quello di fioraio, contrassegnato dall’odore tipico dei cimiteri.
Torte trash per feste di zombie figurano, appunto, anche in Favolacce: anche qui gli abitanti si trovano a festeggiare i bambini con lo stesso spirito leggero di chi fa cerchio intorno al morto a una veglia funebre (Immaginate un po’ tutte quelle candeline che ardono). I festini di compleanno con palloncini e regali si tengono in villette a schiera, identiche a quelle viste in tante fiction tv: una per tutte quella della romanissima e caciarona famiglia Martini, ovvero Un medico in famiglia. Tutte le volte che Scarpati entrava in casa per chiamare a raccolta i congiunti, gridava «Famiglia!». E chissà se mentre gli autori scrivevano la sceneggiatura, ipotizzavano che agli spettatori sarebbe sembrato normalissimo, simpaticissimo. Di certo erano interpreti, forse inconsapevoli, di quel fenomeno che nella sociologia che si occupa di nuove culture infantili e famigliari si chiama privatizzazione dell’infanzia. I figli come massimo bene affettivo, tesoro prezioso da proteggere e crescere, in competizione con altre agenzie educative, temute e sospettate. I figli come performance genitoriale in un’epoca in cui la dimensione collettiva e politica è sempre meno frequentata e quella emotiva individuale sempre più esaltata; la famiglia come luogo di gratificazione e di identificazione, ma che per definirsi come tale ha bisogno di pubblico riconoscimento. In questa condizione, i bambini, sempre meno autonomi, sempre più cresciuti in spazi circoscritti e sempre meno liberi, aperti, trascorrono il loro tempo in attività quasi esclusivamente decise e controllate da altri adulti. Love e hate, insomma, in un’escalation di ambiguità che, da tempi immemorabili a oggi, a quanto pare, fra adulti e bambini ancora non è stata risolta, e che di epoca in epoca si manifesta secondo modalità e narrazioni diverse.
Favolacce sembra una fiction tv degli ultimi due decenni scivolata nell’orrore senza soluzione di continuità, ho pensato osservando quelle villette di Lego senza ombra di povertà, ma abitate da disoccupati senz’arte né parte, affondati in una miseria morale, come i fuorilegge dei western affondano nel deserto fino alla testa, in attesa delle formiche rosse. Una miseria riferita al materialismo bieco e astratto, senza materia, di oggi: di chi, avendo tutto, non ha più niente, nemmeno se stesso.
Le cose non si possono più perdere, nemmeno quando hai perso ogni cosa: ti stanno attaccate come cozze, ti vampirizzano. Non a caso l’unico omicidio, liberatorio, nel film, è quello agito da Elio Germano che accoltella la piscina (e dà la colpa agli zingari). Favolacce è lo storytelling televisivo degli italiani su se stessi finalmente sfuggito di mano alle fiction tv, a raccontare la disfatta di un Paese che va matto per i bambini e non paga la carta igienica nelle scuole.
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