Atlante dei luoghi con storie dimenticate. Foglio 01 / Il bambino conficcato nella neve
“Vergine Santa! Dov’è il bambino?”.
Il carro avanza in silenzio nella neve che attutisce i rumori. Una luce plumbea lo avvolge illuminando le prime case di Gozzano e il colle sul quale sorge la basilica di San Giuliano, dove padrino e madrina portano il neonato dei coniugi Alliata per il battesimo. Il bambino in fasce è adagiato su un cuscino cerimoniale stretto ai lati da un nastro, come si usava nella seconda metà dell’Ottocento.
Dopo la cerimonia il gruppo fa ritorno, sostando ogni tanto nelle osterie del paese per scaldarsi e festeggiare. Tornati a casa, padrino e madrina si accorgono che il bambino non è più nel cuscino. Disperati tornano sui loro passi e lo ritrovano conficcato verticalmente nella neve. Era scivolato cadendo in piedi. Nel punto esatto in cui era caduto nella neve gli Alliata erigono una cappella votiva per grazia ricevuta.
L’infiggersi verticale nel cielo dal quale proviene la neve e al tempo stesso nella terra sulla quale si è steso il suo manto è un’immagine rara e insolita di un mito diffuso a ogni latitudine: la proiezione del cielo sulla terra lungo un asse. Il racconto del bambino caduto miracolosamente in verticale sul ciglio della Strada Provinciale 229 tramanda la memoria di una topografia mitica.
In quel punto esatto (45.73968664506187, 8.438756199242874)) il cielo cala sulla Riviera Inferiore del lago d’Orta, un lembo estremo della pianura padana confinante con le colline del Cusio. Come racconta Marco Belpoliti in Pianura, la centuriazione romana della valle padana proiettava sulla superficie terrestre uno schema ideale del mondo celeste. Il bambino caduto nella neve ricordato dall’edicola è un’immagine di questa proiezione, cancellata dall’industrializzazione insieme al paesaggio agricolo.
Le auto sfrecciano lungo la SP 229 sfiorando la cappella votiva assediata da supermercati, centri di abbigliamento e rubinetterie. La costruzione eretta a memoria dell’evento miracoloso è in rovina, ma il racconto dimenticato e ora ritrovato tra i documenti dell’archivio Mario Alliata restituisce all’edicola qualcosa che aveva perduto: il suo valore monumentale.
Il monumento eretto sul campo di battaglia accatastando le armi, gli scudi e le insegne del nemico vinto, o conficcando nel suolo delle pietre per ricordare il luogo di un evento memorabile ha fatto il suo tempo. Talvolta però sopravvivono i racconti che costituivano parte integrante dell’opera monumentale.
In Storia della scultura Leopoldo Cicognara porta l'attenzione sull'aspetto mnemotecnico di quest’arte: “Alcuni tra i segni che furono adoperati per affidare la conservazione e trasmettere alla posterità le cose memorabili furono le pietre nude di scultura”. Cicognara si riferisce alle dodici pietre che Giosuè tolse dal letto del Giordano e pose a memoria del passaggio del fiume, alla pietra sulla quale Giacobbe posò il suo capo durante la visione ricevuta in sogno e a quella sulla quale Apollo aveva posato la sua lira per aiutare Teseo a costruire le mura di Atene, la cui ubicazione era nota fino al tempo di Pausania. Queste pietre non raffigurano nulla, sono segni mnemotecnici il cui senso non può essere decifrato senza il concorso di quello che conosciamo, senza la lettura del Vecchio Testamento e dei classici.
Questo sistema integrato di pietre e scritture tenute a memoria (o racconti tramandati oralmente) assume per la collettività valore monumentale in quanto, appunto, svolge una funzione memorativa, come risulta evidente dall'etimologia del termine “monumento”, dal latino monumentum, formato da “monere - ricordare” e “mentum - atto, mezzo”. Solo attraverso il racconto del bambino caduto nella neve la costruzione eretta a lato della SP 229 acquista valore monumentale. Nel momento in cui si recupera e restituisce alla collettività il racconto, la cappella votiva ritorna ad essere monumento, illuminando il concetto di scultura di una luce nuova.
L’edicola, ora in corso di restauro, è una tipologia architettonica che conserva la memoria dell’erma, del cippo e della pietra di confine infissa verticalmente nel suolo, posta lungo le strade, agli incroci e ai confini. Il parallelismo tra il bambino conficcato verticalmente nella neve e l'erma conficcata verticalmente nel suolo per segnare un luogo in cui è accaduto o si è manifestato qualcosa di memorabile, colpisce perché questa è l'essenza della scultura prima che diventasse "lingua morta" (Arturo Martini).
Riemerge così, insieme al racconto, la funzione mnemotecnica della scultura monumentale nell’epoca in cui l’approccio critico al concetto di monumento ha ispirato il lavoro contro-monumentale di alcuni artisti, al quale James Young ha dedicato uno dei primi studi. Nel 2007 il New Museum di New York ha organizzato la mostra Unmonumental: The Object in the 21st Century. L’idea che la scultura non monumentale sia espressione di un presente instabile e precario, rappresentato in Unmonumental da opere tremanti e degradate, “non eroiche e [perciò] chiaramente non monumentali”, mostra il rovescio di una concezione convenzionale, riconducibile grosso modo all’idea che il monumento sia un’espressione della retorica visiva in forme iperboliche e celebrative, come erano le Twin Towers per il capitalismo neoliberista, per esempio.
Il progetto Twin Towers: A Theoretical Monument di Gerard Kruunenberg e Paul van der Erve, con il quale i due architetti proponevano lo scavo di due pozzi gemelli al posto delle torri crollate l’11 settembre 2001, è stato qualificato anti-monumentale, così come altri esempi della “contro-monumentalità contemporanea”, definiti “memoriali” anziché “monumenti”. Tra questi l’opera Aschrott Brunnen realizzata da Horst Hoheisel a Kassel, ricostruendo una fontana distrutta dai nazisti nel 1939, che ha poi sotterrato capovolta nello stesso luogo in cui era stata eretta, o anche la colonna di piombo Mahnmal gegen Faschismus, Krieg, Gewalt für Frieden und Menschenrechte di Jochen Gerz ed Esther Shalev Gerz, che s’inabissa progressivamente nel suolo. Young attribuisce ai Gerz l’intuizione originaria del contro-monumento. Questo volgersi o affondare nel suolo, interpretato come un aspetto della “contro-monumentalità contemporanea”, tradisce un aspetto della scultura monumentale, che si presenta per la prima volta in forma di pietra squadrata affondata nella terra (la parte che affonda è importante tanto quanto, se non di più, di quella che affiora).
Un’altra forma di contro-monumentalità è quella delle recenti aggressioni alle sculture abbattute o imbrattate con colori e scritte dagli attivisti del movimento Black Lives Matter. Se nel 1936 Robert Musil affermava: “non c’è niente in questo mondo invisibile come un monumento” ora il monumento è tornato ad essere visibile. Se siamo nell’età della frattura e della discontinuità che autorizza l’anacronismo storico, come dimostrano le recenti proiezioni del presente sul passato, possiamo rovesciare i termini e interpretare il presente attraverso il trattato ottocentesco di Cicognara, per esplorare un lato ancora in ombra del monumento: il suo rapporto con le parole dette e scritte, che peraltro commentano anche le statue indesiderate fornendo narrazioni alternative. Ci si riappropria dello spazio pubblico (e della memoria storica riferita al luogo) attraverso una narrazione.
Può la circolazione di un racconto restituire all’edicola Alliata valore monumentale, si chiede il progetto di arte pubblica speaking stones promosso da Riss(e) nel contesto della piattaforma dedicata all’arte contemporanea R+S/AK? La risposta si trova lungo la strada provinciale che da Borgomanero porta a Gozzano, dove abitano Lucia Leoni Alliata, che sarà lieta di raccontare la storia del bambino caduto nella neve, e Francesco Ruga, autore del libro Gozzano. Ottocento e dintorni, che sarà lieto di fornire tutte le informazioni richieste.
La visita all’edicola segnalata da questo Foglio 01 dell’Atlante dei luoghi con storie dimenticate merita una sosta a Gozzano. Il paese ha un bellissimo lido. L’acqua del lago è limpida e i pesci più piccoli nuotano a riva. Da Gozzano, in pochi minuti, si raggiunge il Sacro Monte di Orta dal quale si gode una vista impareggiabile del lago con l’isola di San Giulio al centro.
Dall’imbarcadero situato nei pressi dell’albergo Leon d’Oro, che ha dato ospitalità a stranieri illustri (Balzac, Goethe, Nietzsche, che sotto i secolari pini del Sacro Monte ha passeggiato con Lou-Andreas von Salomè), si raggiunge l’isola di San Giulio con un efficiente servizio di barche. L’isola si può raggiungere in battello anche dal lido di Gozzano.
La basilica di san Giulio conserva il famoso ambone scolpito in marmo serpentino grigio-verde di Oira, un capolavoro della scultura romanica. Su un lato del parapetto san Giovanni artiglia il suo Vangelo. Il codice è un blocco di pietra squadrata scura e lucente fermato dagli artigli, come le griffe fermano una gemma nel castone. In questo dettaglio è raccolto il Medioevo con i suoi codici e le sue pietre scolpite o sfaccettate, che riflettono, assorbono, diffondono la luce emanata dal Verbo. La forma del pulpito ricorda una navicella che scende dall’alto sui fedeli, esattamente come era concepito nella liturgia del tempo. Sollevato da quattro colonne portanti, l’ambone naviga nell’aria umida che riempie le navate, come i battelli che portano all’isola navigano nell’acqua che colma il bacino di origine glaciale. L’isola che prima ho visto dall’alto del Sacro Monte e l’ambone che ora vedo dal basso si combinano nella mia mente in un tempo che la memoria, intrecciandosi con la percezione e l’immaginazione, differisce suscitando l’immagine di una navicella che approda all’isola vista da quaggiù e che, al tempo stesso, si dirige verso l’isola vista da lassù. Questo viaggio alla scoperta dei luoghi con storie dimenticate e ricordate (una di queste è anche la leggenda di san Giulio che raggiunge l’isola navigando sul suo mantello) non si svolge solo nello spazio ma anche nel tempo.
Motore di questa visione dell’ambone scolpito in marmo serpentino è lo sguardo che Leonardo da Vinci raccomanda all’artefice: “lo scultore nel condurre a fine le sue opere ha a che fare per ciascuna figura tonda molti dintorni, acciocché di tal figura ne risulti grazia per tutti gli aspetti; e questi tali dintorni non son fatti se non dalla convenienza dell'alto e basso”. Lo stesso consiglia anche Auguste Rodin: "L'importante è guardare i profili dal di sopra e dal di sotto, dall'alto e dal basso, [...] cioè rendersi conto dello spessore del corpo umano" (H. C. E. Dujardin-Beaumetz). Rodin usava delle scale sulle quali saliva e poi scendeva per confrontare le vedute dei profili, ma spesso basta anche un solo contorno per gettare lo sguardo aldilà, dalla parte opposta lungo lo stesso asse visivo. Sovrapponendo a un punto di vista quello diametralmente opposto assegniamo spessore non solo a ciò che vediamo attraverso il contorno ma anche a ciò che pensiamo attraverso il linguaggio, come rivela Diogene Laerzio in Vite dei filosofi. Il proiettarsi con lo sguardo aldilà restando qua, con i piedi a terra (o conficcati nella neve), è un’acrobazia che il pensiero esegue in equilibrio su un asse.
Lo sguardo adottato dallo scultore “nel condurre a fine le sue opere”, che il visitatore può far suo per ammirare al meglio il pulpito, sembra svolgere una funzione trasversale, traghettando il pensiero dalla sponda visuale a quella proposizionale e viceversa. Molto è stato detto da specialisti e ricercatori su questi transiti tra immagine mentale, processi cognitivi e linguaggio nella pratica dalle arti visive (Ruggero Pierantoni) e anche le pietre scolpite hanno qualcosa da dire.
La scultura è in rapporto con il linguaggio sin dalle sue origini di pietra parlante: “Io sono la pietra / immagine. Mi ha posto / Seikilos qui / segno duraturo / di ricordo immortale. / Fino a quando vivi, manifestati, / nulla interamente ti / affligga. Vicino al nulla / è il vivere, / il tempo / esige la fine. / Seikilos figlio di Euterpe / vive.” recita l’epigrafe della Colonna funebre di Seikilos (Paola Mola). Il testo è accompagnato da segni musicali identificati e trascritti dal papirologo austriaco Carl Wessely nel 1891. Come l’edicola votiva, che conserva la memoria di queste pietre infitte in un punto dove la vita incontra la morte, anche l’ambone parla o canta sottovoce una storia conservata nel codice artigliato da san Giovanni evangelista. Come la cappella votiva anche il pulpito scolpito in un marmo grigio-verde sussurra qualcosa.
Nota di lettura
Marco Belpoliti, Pianura, Einaudi, Torino, 2021, p. 12.
Leopoldo Cicognara, Storia della scultura, Prato, 1823.
H. C. E. Dujardin-Beaumetz, Entretiens avec Rodin, Parigi 1913, p. 81.
James Young, The Counter-Monument: Memory Against Itself in Germany Today (Critical Inquiry 18, 1992, pp. 267-296.
Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 51.
Arturo Martini, La scultura lingua morta. Pensieri, Mardersteig, Verona, 1948.
Paola Mola, Scultura e antiscultura alle origini del Novecento. I casi Wildt e Medardo Rosso, Accademia Belle Arti Macerata, Macerata, 1994.
Ruggero Pierantoni, Verità a bassissima definizione. Critica e percezione del quotidiano, Einaudi, Torino, pp.20-39.
Francesco Ruga, Gozzano. Ottocento e dintorni, Eos editrice, Novara, 2007.
Leonardo da Vinci, Trattato della Pittura, Parte Prima, 32, Differenza tra la pittura e la scultura.