Una storia ancora da raccontare / Le donne delle avanguardie
C’è una rinnovata attenzione per le storie delle donne, evidente nel numero crescente di pubblicazioni che ruotano attorno a figure femminili più o meno note. Grazie all’apporto fondamentale del femminismo e ai women's studies, che negli anni hanno posto al centro del discorso l’autonarrazione delle donne, oggi sono visibili i frutti di un lavoro tenace e continuativo che ha riportato nella storia ufficiale vicende ingiustamente trascurate, restituendoci la ricchezza del lavoro di scienziate, pensatrici, politiche e artiste.
Le ricerche della studiosa e collezionista Claudia Salaris si collocano in questo percorso: da tempo impegnata in una paziente opera di recupero delle vicende delle artiste coinvolte nelle sperimentazioni del futurismo, torna con un volume intitolato Donne d’avanguardia, edito da Il Mulino, nel quale traccia i ritratti di circa trenta figure che hanno animato i decenni corsari dell’avanguardia, attraverso documenti e testimonianze, spesso di prima mano.
Le donne evocate da Salaris (per lo più italiane ma non solo) hanno dei tratti comuni, pur nella loro specificità: anticonformismo, indipendenza, dedizione totale al progetto artistico, multiculturalismo, ascendenze borghesi, più raramente proletarie (è il caso della Modotti) e il desiderio di affermare attraverso la propria esperienza di vita un nuovo modello femminile che superi gli archetipi in cui la figura della donna, all’inizio del secolo, è cristallizzata. In questa prospettiva, arte, amore e politica si fondono in un’unica pratica esistenziale, con la quale le artiste scelgono di testimoniarsi in totale interezza nel teatro del mondo. Anticipando molti dei portati delle arti visive ben al di là da venire, come i linguaggi performativi, la body art, l’autofiction, le donne raccontate da Salaris si calano nella temperie del proprio tempo con un’energia che scompagina il dibattito e porta idee tanto originali quanto problematiche.
Malgrado la sorprendente attualità delle vicende raccontate, è bene avere chiaro il contesto nel quale le eroine avanguardiste si muovono, ovvero quello di un secolo agli albori pienamente investito dal primo femminismo, all’interno di un travagliato scenario geopolitico europeo, innervato da tensioni culturali spesso confliggenti e dove le donne cercano faticosamente legittimazione. Sono gli anni di Sibilla Aleramo, Ada Negri, Alessandrina Massini Ravizza, Maria Montessori, per citare alcune tra le donne di cultura che maggiormente si spendono per la questione dell’emancipazione femminile; anni in cui in Italia si stagliano figure gigantesche come quella di Anna Kuliscioff (che si spegne nel 1925) ma anche quelli in cui emerge Margherita Sarfatti, l'intellettuale che contribuisce a definire in maniera decisiva la trasformazione del giovane Mussolini in quello che sarà il Duce, che ne delinea la figura e lo sostiene economicamente, vera e propria deus ex machina dietro la propaganda fascista fino alla tappa esiziale delle leggi razziali. Donne di eccezionale caratura intellettuale il cui pensiero modella letteralmente i processi storici, cambiando per sempre il destino dell’Italia e del mondo e che dimostrano quali traguardi possa raggiungere una donna che abbia accesso a istruzione e risorse economiche.
Nei decenni d’inizio Novecento l’immagine della donna oscilla tra la figura angelicata, custode del focolare, fragile e bisognosa di protezione, e la femmina vicina alla natura, in preda a forze irrazionali e pericolose. Filippo Tommaso Marinetti, cardine dell’esperienza futurista e punto di raccordo di quasi tutte le vicende rievocate nel libro, nel Manifesto Futurista del 1909 stila i punti programmatici del movimento, tra cui si cita a chiare lettere il “disprezzo della donna” (9. Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.): si tratta evidentemente di una provocazione, mirata a disconoscere quell’idea dell’eterno femminino addomesticato da una cultura sentimentale che ne ha spento lo spirito più autentico, un istinto primordiale, ferino, ma è un passaggio che innesca subito le polemiche. L’oggetto degli strali di Marinetti è il sentimento d’amore con il suo carico di romanticismo esausto, non la donna in sé, un punto che vede le futuriste sostanzialmente concordi, determinate a rifiutare un modello ormai considerato irricevibile. Le futuriste però non si accontentano delle istanze proposte dagli uomini del movimento e, coerenti con lo spirito che anima il movimento, si attivano per diventare protagoniste in prima persona della rivoluzione promessa dall’avanguardia. Tutt’altro che silenti, si muovono nell’orbita della rivista L’Italia futurista, animata dalla cosiddetta “pattuglia azzurra” o secondo futurismo fiorentino, formando un vero e proprio cenacolo, al quale partecipano Maria Ginanni (che godeva della stima intellettuale dello stesso Marinetti), Marj Carbonaro, Mina della Pergola, Fanny Dini, Rosa Rosà, Irma Valeria e molte altre, tutte presenti nel volume di Salaris; ben presto rivendicano la parola attraverso scritti teorici e interventi, moltiplicano le attività pubbliche e l’impegno politico, sperimentano in ambito artistico forme nuove dove i confini tra le discipline vengono a cadere.
Tra le figure più interessanti, vale la pena citare Valentine de Saint-Point, autrice nel 1912 del Manifesto della donna futurista. Risposta a F.T. Marinetti. Considerata la prima futurista, De Saint Point è una figura singolare per l’alone di scandalo che suscita con il suo atteggiamento provocatorio e disinibito, che per molti versi rimanda alla vicenda della coetanea Colette (che però ben altra fama raggiunse nella più emancipata Francia, tanto da ottenere i più importanti riconoscimenti letterari e i funerali di stato).
Anne Jeanne Valentine Marianne Desglans de Cessiat-Vercell nasce a Lione nel 1875: allieva e modella di Alphonse Mucha e Auguste Rodin, dopo due matrimoni diventa amante di Ricciotto Canudo, romanziere, poeta e teorico del cinema. Grazie a lui entra in contatto con l’ambiente culturale della Parigi di inizio secolo e collabora con la rivista di Marinetti Poesia. De Saint-Point “propone un modello di donna sessualmente liberata” e nella sua produzione letteraria prende a modello di riferimento le Amazzoni, Giovanna d’Arco, le Erinni, Messalina, Cleopatra e tutte quelle figure in grado di esercitare il potere; un modello archetipico che quasi cento anni dopo, dopo la stagione del MeToo, sembra aver acquisito nuova legittimità e che trova spazio nei racconti seriali, nel cinema, nei romanzi e nei fumetti grazie a protagoniste forti, contradditorie e non pacificate, ma che al tempo appariva inedito, soprattutto se accostato all’idea di una donna per la quale “la lussuria è una forza” e “godere, equivale a esprimersi” (da Una donna e il desiderio, romanzo del 1914), slogan che sarebbero capaci di attirare critiche e scandalizzare ancora oggi.
Dall’incontro tra la sulfurea de Saint-Point e Marinetti nasce una relazione intellettuale e amorosa e il Manifesto della donna futurista, dove la scrittrice polemizza con lo stesso per la sua visione della donna, sostenendo che perpetrare distinzioni tra i generi sia privo di senso, mentre ne accoglie la critica verso il femminismo, ritenuto troppo normativo. De Saint Point arriverà a scrivere il Manifesto futurista della lussuria, con il quale rivendicherà la libertà sessuale per tutti, anticipando le battaglie del femminismo degli anni ‘70 e della comunità LGBTQ+, e a celebrare la figura della prostituta in antitesi alla donna borghese, ma non riuscirà mai ad abbandonare una serie di scorie concettuali legate all’ideologia guerresca e al primato della forza che ne renderanno più fosco il pensiero.
Scorrendo le storie recuperate da Salaris – che si leggono come una appassionante controstoria dell’avanguardia italiana, una ricostruzione dettagliata delle performance, delle pubblicazioni, degli interventi pubblici e dei progetti realizzati dalle artiste – appare più chiaro l’apporto delle donne al movimento futurista: in un momento storico in cui le istanze del fascismo, dell’anarchismo, del socialismo si mescolano in maniera caotica a fascinazioni per l’occultismo e per il pensiero esoterico alimentano un’avanguardia colta, disposta anche a percorrere sentieri di ricerca scivolosi, le futuriste sono in prima linea sia nel dibattito intellettuale sia nella pratica artistica e politica. Sono donne disposte a pagare personalmente per le posizioni controcorrenti assunte rispetto a una società che le vuole irregimentare in ruoli predeterminati e che stenta nel riconoscere un valore alla loro produzione intellettuale e alle loro rivendicazioni. Lo stesso Marinetti e altre figure del futurismo come Volt o Mario Carli sono chiamati in causa, contestati, contraddetti nelle loro affermazioni, posizioni che per de Saint-Point, Enif Robert, Rosa Rosà, Eva Kühn risultano essere non sufficientemente innovative o portatrici di una vera liberazione.
“Per essere futurista bisognava avere molto coraggio, era come agitare un panno rosso davanti a un toro” afferma Fulvia Giuliani, prima attrice nel Teatro sperimentale degli Indipendenti di Bragaglia, e la battaglia delle futuriste sembra doppia, rivolta alla società benpensante e borghese ma anche a quella culla in cui trovano nutrimento vitale che è il futurismo stesso, movimento che offre loro, forse per la prima volta, uno spazio di espressione libero, ma che è contemporaneamente orientato da personalità maschili carismatiche come Marinetti e D’Annunzio e sedotto da istanze guerresche, ultraomistiche e maschiliste che mal si conciliano con l’idea di un’autodeterminazione femminile, slegata da ruoli e funzioni specifiche (come nella perenne coppia simbolica di madre e/o amante che torna in maniera dialettica a occupare i manifesti e i testi redatti dalle artiste).
La rottura con la tradizione che le futuriste invocano non interessa solo il ruolo della donna, seppur centrale a tutte le riflessioni delle protagoniste – ma è rivolta anche a tutte quelle istituzioni considerate costrittive come il manicomio. È il caso di Eva Kühn, figura tra le più importanti del gruppo, moglie di Giovanni Amendola, giornalista, parlamentare liberale antifascista e a seguito delitto Matteotti, protagonista dell’“Aventino”, e madre di Giorgio, esponente di spicco del Partito Comunista Italiano. Intellettuale di origini lituane, scrittrice e traduttrice, Kühn alterna una vita indipendente, segnata dalla ricerca artistica e dalla frequentazione del mondo intellettuale – passando dal futurismo al dannunzianesimo fino all’anarchismo – a una fragilità psichica che la porta a vivere una dolorosa parentesi nel manicomio di via della Lungara a Roma, tra il 1904 e il 1905 e a successivi, ricorrenti ricoveri nel corso dell’intera vita nei luoghi dedicati alla sanità mentale. Da quell’esperienza Kühn riemerge convinta dell’inutilità e della dannosità del manicomio, tanto da scrivere La pazzia e la riforma del manicomio, testo redatto tra il 1913 e il 1916 a cui consegna le proprie riflessioni sulla malattia mentale e sulla psicoterapia, che ritiene sia l’unica chiave per permettere al malato di reagire contro quella che definisce “la morte nel corpo vivente”. Anche in questo caso, le riflessioni dell’artista precorrono i tempi e hanno una certa eco sulla stampa del tempo, ma troveranno accoglimento solo molti anni dopo con la riforma Basaglia, grazie alla legge 180 del 1978.
Scorrendo le vicende di Ol’ga Rozanova, Mina Loy, Frances Simpson (artiste), Fulvia Giuliani (attrice), Natal’ja Goncarova (artista), Giannina Censi (ballerina, scultrice e motociclista), Marietta Angelini (cameriera di Marinetti e poetessa “parolibera”) Fiammetta (legionaria dannunziana), Elena Ferrari (spia e poetessa), Barbara (aeropittrice e aviatrice), Benedetta (moglie di Marinetti, pittrice, ideatrice del tattilismo e memoria storica del futurismo), Wanda Wulz (fotografa), Paola Masino (scrittrice e traduttrice, compagna di trent'anni più giovane di Massimo Bontempelli e autrice di quello che diventerà un libro di culto: Nascita e morte di una massaia), Maria Ginanni (scrittrice), Irma Valeria (scrittrice) fino ad arrivare agli astri antitetici di Luisa Amman, più nota come la marchesa Casati, con i suoi travestimenti e gli animali selvatici al guinzaglio, performer e “rock star” ante litteram, o Tina Modotti, fotografa e rivoluzionaria votata al “mondo diseredato”, sembra di poter credere alle parole di Rosa Rosà, che dice “le mura del gineceo sono saltate in aria”.
Con i loro nome de plume, le donne dell’avanguardia si sono fatte portatrici di una propria via al futurismo e alla sperimentazione attraverso le arti. Le documentate, fitte relazioni con i protagonisti della scena artistica d’inizio secolo ci raccontano di una storia parallela, in gran parte obliata, nella quale le artiste hanno prodotto un capitale intellettuale che è stato messo a rendita per tutto il secolo ma di cui non hanno mai potuto riscuotere il profitto, in parte anche per l’ostracismo che ha colpito il futurismo a causa della compromissione del movimento stesso con il fascismo. Quasi tutte dimenticate, liquidate come accessorie o marginali rispetto alla storia ufficiale – fatte salve Casati e Modotti, più spendibili come icone di immediata presa popolare –, le donne di Salaris non hanno solo incarnato il fiammeggiante esprit du temps interpretandone le istanze più radicali: hanno avuto il dono della visione, che mai viene perdonato. Né dagli dèi, tanto meno dagli uomini.