La legge del desiderio maschile / Tutti vogliono qualcosa di Richard Linklater
Nel 1984 Bruce Springsteen – in quegli anni una vera e propria icona della mascolinità americana – include in quello che diventerà il suo album di più grande successo commerciale, Born in the U.S.A., una canzone che può essere considerata un paradigma per le descrizioni di amicizie maschili. Il pezzo, che si intitola Bobby Jean, è una specie di lettera d’amore indirizzata al suo chitarrista di allora, Stevie Van Zandt, che poco prima dell’uscita dell’album lasciò la band per intraprendere una propria carriera solista. La lingua inglese, rispetto all’italiano, presenta però una differenza decisiva: quando indirizza un discorso alla seconda persona singolare – dato che gli aggettivi non vengono modificati a seconda del genere – è pressoché impossibile stabilire se l’interlocutore sia un uomo o una donna. Springsteen, non sappiamo se consapevolmente o inconsciamente, non solo dà al destinatario della canzone un nome che potrebbe essere indifferentemente sia maschile sia femminile – Bobby Jean appunto – ma non dà nessun elemento descrittivo che possa chiarire quest’ambiguità. Sarà soltanto grazie a degli elementi extratestuali – interviste o dichiarazioni dello stesso Springsteen – che si verrà a sapere che questa canzone in realtà era stata scritta per un uomo e non per una donna.
Tuttavia la tensione erotica del testo rimane, e anzi la frase finale – un “I miss you babe” che non può non far pensare a un registro che va ben al di là della semplice amicizia – continuerà a ingannare numerosi interpreti springsteeniani. Ancora oggi si possono trovare nelle librerie dei volumi di traduzioni di testi di Springsteen in italiano che continuano a tradurre Bobby Jean al femminile. E sarebbe sbagliato definirlo semplicemente un errore: quell’inganno coglie in forma invertita – cioè eterosessuale – quella che è una reale tensione (omo)erotica che esiste effettivamente nella canzone. La questione va ben al di là della semplice grammatica. Normalmente siamo abituati a pensare che le relazioni tra uomini eterosessuali siano automaticamente evacuate da ogni possibile sottotesto omoerotico. Tuttavia la psicoanalisi ci insegna che la sessualità non è mai là dove vorremmo che fosse, ma che anzi investe l’interezza del campo sociale. Niente è di diritto escluso dal dominio della sessualità, nemmeno quando di mezzo c’è quella norma eterosessuale che vorrebbe dividere rigidamente quelli che sono gli oggetti degni di investimento erotico da quelli che non lo sono.
Che Tutti vogliono qualcosa, il nuovo bellissimo film di Richard Linklater che racconta i tre giorni prima dell'inizio del college di una squadra di baseball universitario del Texas nel 1980, abbia una macroscopica tensione omoerotica è cosa talmente plateale che stupisce che pressoché nessuna delle recensioni del film ne abbia fatto alcun cenno. Forse perché come accade ne La lettera rubata di Edgar Allan Poe, le cose sono così apertamente in bella vista che finiscono per essere invisibili persino di più di quelle che vengono astutamente nascoste. O forse perché c’è qualcosa del nostro sguardo che questa tensione omo-erotica non la vuole a tutti i costi vedere. Fatto sta che la gayness del film di Linklater almeno ad alcuni non è sfuggita: ad esempio al magazine on-line americano Vulture (che ha intitolato la sua recensione Why Everybody Wants Some!! Is Accidentally One of the Gayest Movies of the Year) che analizza una scena in cui la macchina da presa del regista texano si sofferma a guardare i muscoli di uno dei protagonisti del film – McReynolds, il capitano della squadra – in un modo così poco “innocente” da non poter nascondere un certo investimento erotico.
Che un luogo con così tanto testosterone come quello di una squadra di baseball di un college possa venire investito di una tale tensione omo-erotica potrebbe sembrare non così scontato. Come viene spesso ripetuto dai diretti interessati, apparentemente ci sono soltanto due cose che interessano i personaggi del film: il baseball e le ragazze. Tuttavia questa patina ipertroficamente eterosessuale e testosteronica – una delle prime scene del film mostra i ragazzi che vanno in giro in macchina per il campus facendo apprezzamenti espliciti alle ragazze che vedono – mostra ben presto le prime crepe. Molti dei personaggi del film – ma questo è vero soprattutto per alcuni, quelli fisicamente più prestanti, come il protagonista Jake, ma anche Roper, McReynolds e Finnegan – possono essere visti nello stesso tempo come soggetti od oggetti di uno sguardo erotico. Se da un lato li vediamo andare costantemente alla ricerca di ragazze e parlare di getting laid (lo slang per “fare sesso”) dall’altro lato la macchina da presa di Linklater, come notato da Vulture, si sofferma insistentemente a guardare i loro muscoli e i loro corpi in movimenti atletici mentre giocano a pallacanestro, fanno pesi, ballano in discoteca, si guardano allo specchio.
Gran parte dell’energia erotica di questo gruppo di maschi sempre horny più che essere rivolta verso l’esterno viene invece “scambiata” tra di loro, all’interno del gruppo. Del resto, siamo nel momento storico più adatto per rendere evidente l'omosessualità che soggiace a questo tipo di rapporti: si pensi ai baffoni à la – non a caso – Freddy Mercury, le canottiere e le camicie scollate che mettono in mostra bicipiti e pettorali, i pantaloni attillati a evidenziare natiche e attributi, fedelmente al corto circuito secondo cui l'esibizione eccessiva della mascolinità si ribalta inevitabilmente nell'ipervirilità feticizzata in ambiti omosessuali (un discorso che non trova il suo ribaltamento speculare nell'immagine tipica che abbiamo della femminilità, in cui le lesbiche cosiddette lipstick, o “tradizionalmente” femminili, sono una rarità poco nota nell’immaginario collettivo).
Questo meccanismo non è certo nuovo. Come ricorda Federico Zappino la gran parte dei maschi passa il proprio tempo in gruppi sociali dove si sta “tra maschi”. La si chiama omosocialità: la possiamo vedere negli eserciti, nelle squadre sportive, nei dopolavoro, nei pub, negli stadi, nelle palestre di pugilato e arti marziali etc. Si tratta di dimensioni collettive dove l’identità di genere dei propri membri è rigidamente definita. La tensione erotica che caratterizza questi gruppi – tutti luoghi dove il godimento del corpo gioca un ruolo fondamentale – dev’essere a un tempo alimentata ed esorcizzata. Tutti vogliono qualcosa in questo senso è interamente giocato sul filo di quest’ambiguità: questi ragazzi che a 18-20 anni vivono insieme in una casa e condividono tutto della propria vita devono costruire insieme il proprio essere maschi. Un essere maschi che può andare indifferentemente sia nella direzione di un essere soggetti di un discorso erotico (nel quale a essere erotizzate sono le ragazze), sia nella direzione di essere oggetti (nel quale a essere erotizzati sono loro stessi).
Un momento esemplare di quest’ambiguità è quando, durante il secondo giorno, la squadra prima di andare in discoteca si prepara per uscire. Linklater si sofferma lungamente a guardare questi corpi che, in una scena che ricorda l’incipit de La febbre del sabato sera, costruiscono la propria mascolinità per andare “a caccia di ragazze”. Tuttavia la scena ha una plateale dimensione omo-erotica. I ragazzi si guardano tra di loro, commentano la bellezza delle proprie natiche allo specchio; alcuni si mettono a fare esercizi coi pesi allo specchio guardandosi i muscoli; uno si fa la piega ai capelli, un altro si taglia i baffi; i più esperti come McReynolds, il capitano della squadra, insegnano alle matricole a mettersi la colonia (“Ma cosa fai?! Cos’è, la prima volta che metti la colonia? La devi mettere sotto le braccia, sul petto, non solo sul collo. Dai! Fidati di me, le ragazze ne vanno pazze”), altri si scambiano i vestiti. Il centro della scena è proprio la dimensione collettiva e maschile del gruppo nel momento in cui viene costruita insieme la propria mascolinità, basata sia sull’identificazione sia sul desiderio reciproco.
Tuttavia l’omosessualità del gruppo non deve essere nominata. I gruppi omosociali pur fondandosi su un legame tra soli maschi devono continuamente esorcizzare il palesarsi di un’esplicita relazione omo-sessuale. Non è un caso che quando il terzo giorno Jake, il protagonista del film, inizia una relazione con una ragazza, quest’evento finisca per provocare le prime scissioni nell’unità del gruppo. È qui che emerge per la prima volta l’altra faccia del legame omo-erotico, questa volta non più interno ma esterno: il fatto che la costruzione dell’identità sessuale si basi sulla differenziazione dall’altro. Nel frammento 24 dei Minima Moralia, intitolato (in originale in inglese) Tough Baby, Theodor W. Adorno spiega come la costruzione della mascolinità tradizionale, che lui definisce come sadica, passi attraverso un masochistico apprendistato alla fatica, alla sgradevolezza, alla durezza, insomma alla violenza. Adorno identifica questa durezza nel gusto del whiskey e dei sigari, di primo acchito sgradevoli, al quale il palato deve essere abituato. Non ci sarebbe niente di naturale, dunque, nella preferenza per un certo tipo di durezza nel nascere maschi, quanto piuttosto un training sociale calcolato che mira a fare dei maschi una classe di dominatori che deve essere educata a distinguersi da coloro che sono destinati a essere sottomessi (nel testo di Adorno, gli intellettuali, intesi come effeminati e dunque inevitabilmente equiparati con il gentil sesso).
Dalla necessità di un ordine sociale basato sull’asimmetria di potere (ancor prima che sulla differenza) nasce anche il desiderio omosociale. Se è vero che la mascolinità tradizionale richiede poi un’eterodirezione del desiderio, questo desiderio deve restare in una qualche misura predatorio, come si vede nelle scene in cui i ragazzi girano in macchina nel campus apostrofando le ragazze in modo arrogante, dunque non basato sul mutuo riconoscimento, come accade secondo Adorno invece nei club per soli uomini.
Questa dinamica di accettazione come pari solo tra persone dello stesso sesso si ritrova in tutte le organizzazioni omosociali che spesso, per esorcizzare il legame omosessuale sul quale si fondano, esprimono il desiderio omoerotico tramite il linguaggio della violenza. Questo linguaggio può anche essere espresso in forme ludiche e non sfociare in vere e proprie pratiche di sopraffazione, ma va costantemente riprodotto (anche in forme depotenziate o parodiche) per ribadire la sostanziale appartenenza al gruppo dei dominanti e non dei dominati. Tutti vogliono qualcosa mostra anche quest’altro aspetto dei gruppi omosociali. Le dinamiche di nonnismo a cui le matricole si sottomettono volentieri, consapevoli del fatto che si tratta di un passaggio obbligato per entrare a far parte del branco, sono un riflesso “istituzionalizzato” e socialmente accettabile di questa violenza che pervade la formazione della mascolinità nel nostro ordine simbolico. Solo attraverso la sottomissione a questa messa in scena della violenza è possibile poi instaurare un rapporto cameratesco, anche se poi l’allusione alla gerarchia non può mai permettersi di svanire completamente.
Già in La vita è un sogno questa violenza era evidente negli slogan dei ragazzi durante l’iniziazione delle matricole (“The juniors are dead meat!” o “Only the strong survive!”) o nella scena delle umilianti percosse ai danni di un ragazzino trascinato via di peso dal suo date al centro ricreativo. Mentre la divisione tra i generi era già palesata nella scena iniziale, in cui una ragazza chiede con fare allusivo a uno dei protagonisti se vuole vederla quella sera e lui tergiversa dicendo che sarà “in giro coi ragazzi” e scappa dai suoi amici. La separazione tra i sessi in Tutti vogliono qualcosa invece è già dall’inizio inscritta nelle norme sociali: i ragazzi della squadra hanno una loro casa, le ragazze stanno in un dormitorio, e all’interno della casa le esibizioni di mascolinità aggressiva non mancano: dall’agonismo spietato al ping pong alla gag sulla “bitch stick”, dalle vessazioni del compagno di squadra di provincia, alle brusche interruzioni di solidarietà maschile per impedirsi a vicenda di portarsi in stanza una ragazza, fino alle ambiguissime pacche sul sedere reciproche come modo per salutarsi. Il confine tra erotismo e violenza è strutturalmente ambiguo, così come quello tra complicità e dominio. Tuttavia non si può non notare come nel gruppo dei protagonisti di Tutti vogliono qualcosa la cooperazione e il supporto siano roba da pussies e la tenerezza aperta (e stucchevole) sia riservata esclusivamente al rapporto eterosessuale - che infatti viene avvertito dagli amici di Jake e anche dallo spettatore come una sgradita invasione di campo, una sorta di attestazione che, con l’ingresso reale delle donne intese non solo come oggetto sessuale, “game over”, come si legge su una t-shirt per addii al celibato.
Ilaria de Pascalis ha osservato come sia spesso nel registro della commedia che i rapporti omosociali emergono con maggiore evidenza ed entrano a far parte della dialettica tra adolescenza e crescita, dove la crescita viene vista come una resa all’ordine della “normalità”, una necessaria ma sgradita sottomissione all’ordine borghese della vita adulta. Tutti vogliono qualcosa ci mostra quella fase della vita dove la costruzione dell’identità come compiutamente eterosessuale o omosessuale (così come dell’identità tout court, come si evince dal dialogo tra Finnegan e Jake al concerto punk) è ancora in fieri e dove complicità e dominio sono indistinguibili l’una dall’altro. Qui trae la sua origine la dimensione malinconica che molte college comedies non riescono a nascondere. Proprio come accade in Tutti vogliono qualcosa, la cui apologia di questo momento “indistinto” della vita la si vede anche nell’unico personaggio femminile, Beverly: creativa, brillante, determinata e attraente, non si discosta dallo stereotipo di femminilità che compare in questo tipo di film “solo per permettere di delineare forme complesse di mascolinità in risposta”.
Linklater infatti si concentra esclusivamente sulle dinamiche del gruppo dei maschi. Mette in scena, mostrandone fragilità e debolezze, il punto di vista di quelli che per anni hanno popolato l’universo di high school e college-movies nel ruolo di “cattivi” o tutt’al più di “scemi” (si pensi solo a Grease): vale a dire i jocks, cioè i campioni sportivi, ammessi all’università solo in virtù delle loro abilità atletiche e tendenzialmente popolari con le reginette di bellezza della scuola (coerentemente con una narrazione incentrata invece su quelli che erano considerati all’ultimo gradino di questa gerarchia sociale, ovvero i nerds). Il modo con cui interiorizza il loro punto di vista è quello che ha da sempre contraddistinto il suo cinema. Linklater, esattamente come accadeva in Boyhood, guarda le cose dal punto di vista della loro fine: è anche per quello che nel suo cinema incombe un senso così forte di malinconia. Ma se in Boyhood il tentativo era quello di rappresentare il continuum del tempo (e dunque il morire delle cose) partendo da eventi apparentemente marginali (e la cui importanza simbolica veniva dunque “redenta” dal film stesso), in Tutti vogliono qualcosa la prospettiva è rovesciata: ciò che vediamo è una sezione di tre giorni della vita di alcuni ragazzi nel momento in cui “sta per” succedere qualcosa.
Quello che “sta per” succedere è solo apparentemente l’inizio delle lezioni (lo vediamo sullo schermo con un countdown che conta le ore e i minuti che li separano dall’inizio della prima lezione), in realtà la vera posta in palio è la messa in forma della loro identità, a partire dalla risposta alla domanda su che cosa voglia dire diventare un maschio, prima forma di individuazione richiesta dal nostro ordine sociale basato sulla differenza di genere. È per quello che Tutti vogliono qualcosa racconta il passaggio dall’indistinto del gruppo omosociale al distinto dell’adultità (che vuol dire soprattutto della coppia etero-sessuale) partendo dal punto sensibile per eccellenza di ogni percorso di crescita o di maturazione: cioè, l’identità sessuale. La costruzione della mascolinità, con tutto ciò che questo comporta in termini di tensione omo-erotica tra pari o di scelta di un oggetto etero-sessuale; di costruzione di un corpo e di una certa fisicità, è l’enigma al quale i protagonisti della squadra di baseball devono rispondere. Linklater, nel suo classico modo effortless e subliminale, ci racconta anche di chi invece questa passaggio non è mai riuscito a farlo, e si mette lui stesso non a caso nella posizione di chi è ancora nostalgico di quando questa decisione non l’aveva ancora presa. Se Jake, il protagonista, inizierà una storia d’amore con Beverly, Finnegan proverà ad adattarsi camaleonticamente alle situazioni nella quali si trova (siano esse una festa con degli artisti – una sorta di serata hipster ante-litteram –, un concerto punk o una serata a ballare Cotton-eyed Joe), ci sarà anche chi, come l’hippy Willoughby, sarà costretto di punto in bianco a abbandonare la squadra perché si scopre che in realtà ha già più di 30 anni e sta tentando da anni di passare da una squadra di college baseball a un’altra falsificando i proprio documenti per continuare il più possibile la sua vita universitaria.
Tutti vogliono qualcosa è infatti un film che parla di passaggi, passaggi della vita che vengono a te e tu te li trovi lì davanti. Lungi dall'essere un film minore all'interno della poetica del regista, o un semplice divertissement come purtroppo a molti è sembrato, è invece un'opera magistrale quanto sottile sulle strategie che il soggetto può assumere di fronte alle frontiere che, come recita la lavagna della prima lezione a cui Plummer e Jake andranno alla fine del film, are where you find them, sono là dove le trovi.