5 giugno 1927 - 5 giugno 2017 / Emilio Tadini, Picasso. L’immortale da vivo
La generazione degli anni difficili è il titolo di un volume del 1962 in cui Ettore Albertoni, Ezio Antonini e Renato Palmieri raccolgono i testi di un’inchiesta condotta tra il 1959 e il 1960 per la rivista «Il Paradosso». L’inchiesta era mossa dalla necessità di comprendere le scelte e le posizioni di fronte alla Storia da parte di «coloro che l’ultima guerra sorprese […] nell’età dei primi ripensamenti e delle maturazioni giovanili», e che alla fine degli anni Cinquanta si presentavano, volenti o nolenti, come «la spina dorsale della nazione». È la cosiddetta “generazione di mezzo” di cui fanno parte Italo Calvino, Oreste del Buono, Rossana Rossanda, Franco Fortini o Fulvio Papi: intellettuali nati negli anni Venti, che alla chiamata della Storia hanno risposto non con il ragionamento e la volontà di una scelta politica matura, ma sulla spinta degli “astratti furori” di gioventù. E alla fine della guerra si ritrovano troppo grandi per demandare ai fratelli maggiori le responsabilità della ricostruzione, ma anche troppo giovani per incaricarsi senza tentennamenti di tracciare la rotta per le generazioni a venire. Sono intellettuali che vivono con profonda sofferenza l’urgenza di ricostruire, senza però fare piazza pulita di quello che era stato fatto prima. Come scrive Calvino nella sua risposta all’inchiesta: «dovevamo trovare tra le idee dei nostri padri quelle cui potevamo riattaccarci per ricominciare, quelle che loro non erano stati capaci o non avevano fatto in tempo a rendere operanti». Niente avanguardia, quindi (che in Italia infatti fu cosa per chi nacque negli anni Trenta); semmai uno sperimentalismo attento.
Emilio Tadini appartiene a questa generazione. Nato nel 1927, egli sente forte il peso di una responsabilità storica e culturale. In una poesia del 1947, L’oratorio della pace, emerge chiaramente il senso di un dialogo tra chi, pur tra tante ingenuità, ha vissuto la guerra in prima persona e chi, venendo dopo, ne pretenderà una spiegazione, una sorta di eredità: «Ma per quelli dopo di noi / saranno soltanto parole, imprecise / parole che si disfano in aria – “una terribile e dura / guerra” – ed il senso resterà nascosto / e inascoltato il grido del naufrago / che dorme dove non è giunto lo scandaglio». Per Emilio Tadini non c’è impegno al di fuori dell’espressione artistica: è in questo campo che egli decide di concentrare la sua azione, assumendo la posizione di chi cerca di cogliere dalla tradizione quanto di più prezioso per farne rivivere la lezione anche nei decenni a venire. Gli anni della guerra sono stati per molti artisti italiani l’occasione per studiare la lezione di Pablo Picasso; Guernica era piombata nei loro atelier come una rivelazione. Se già nella sua prima produzione Picasso aveva mostrato la possibilità di coniugare realismo figurativo e rinnovamento dei paradigmi formali della rappresentazione pittorica, la grande tela dedicata all’eccidio della guerra civile spagnola dimostrava come tutto quello potesse corrispondere anche con un impegno deciso nella realtà storica e politica. Nel 1946 alcuni artisti, tra cui Ennio Morlotti, Alfredo Chighine e Gianni Testori, firmano il manifesto Oltre Guernica; Tadini è ancora troppo giovane, appunto. Il suo tributo lo realizzerà a partire dalla fine degli anni Cinquanta in veste di critico, dedicando saggi e articoli alla rivoluzione di Picasso, che insieme a quella di James Joyce, delinea un orizzonte di riferimento per chiunque voglia farsi promotore di una vera arte d’avanguardia, capace «dilatare le possibilità della ragione espressiva», di potenziare lo sguardo dell’arte sulla realtà attraverso nuovi valori formali e figurativi.
La poetica del «realismo integrale» elaborata a partire da queste considerazioni offrirà a Tadini un pavimento teorico su cui poggiare le proprie prime prove come pittore e romanziere, opere notevoli di un artista purtroppo dimenticato del nostro Novecento.
Da Emilio Tadini, Quando l’orologio si ferma il tempo ritorna a vivere. Scritti 1958-1970, a cura di G. Raccis, il Mulino, Bologna 2017.
Nella vita di Pablo Picasso c’è un fatto che sembra addirittura un luogo comune. Anche suo padre, Josè Ruiz Blasco, era pittore. Fu lui ad insegnare al figlio qualcosa del mestiere. Ma si accorse presto che Pablo non aveva bisogno di maestri. «Quel giorno» racconterà poi Picasso «mio padre mi diede i suoi colori e i suoi pennelli, e da allora non dipinse più». Don Josè doveva confrontare a quella giovane forza piena di promesse che gli si spiegava davanti la propria grigia storia di modesto insegnante di Belle Arti – a Malaga, dove Pablo era nato, e a La Coruña e infine a Barcellona – la mediocrità dei suoi «quadri da sala da pranzo» (sono ancora parole di Picasso). Forse fu questo a fargli rinunciare di dipingere. Non abbiamo molte notizie sugli ultimi anni della vita di don Josè. Resta qualche disegno eseguito da Picasso giovanissimo, dove la figura del padre è sempre rappresentata in atteggiamento malinconico e pensieroso, il volto appoggiato ad una mano. Nel 1900 Pablo Picasso, diciannovenne, alla vigilia del suo primo viaggio per Parigi, disegna un autoritratto. Intorno alla testa, come una aureola, scrive più volte «Yo, el rey», io, il re, la formula con cui firmavano gli antichi re di Spagna.
Picasso è il cognome della madre di Pablo. È molto probabilmente di origine italiana, ligure. Il pittore fece fare più tardi qualche ricerca in Italia, a questo proposito. Ardengo Soffici, suo grande amico, scoperse che un pittore a nome Matteo Picasso aveva vissuto a Genova nell’800. Ben presto Pablo lasciò cadere dai suoi quadri il cognome del padre, Ruiz, e firmò solo così. Maria, la madre, passò la vita ammirando e adorando suo figlio. È morta nel 1939. Nel 1936 gli scriveva: «Per te, io credo tutto possibile. Se un giorno mi diranno che hai cantato messa, ci crederò subito».
Parigi, ai primi anni del ’900 è ancora la capitale della Belle époque. Ma il paesaggio gli ambienti e i personaggi che ispirano i primi quadri di Picasso non sono quelli dei grandi impressionisti, dove la luce fluiva in ogni grano della materia a celebrarne tutto lo slancio vitale. Sono piuttosto quelli già incisi dall’acido segno di Toulouse-Lautrec. Ma c’è dell’altro. Quando chiedono a Picasso quale fu il pittore che più lo impressionò al suo arrivo a Parigi, egli risponde: Van Gogh. Basta osservare la tecnica delle sue opere di quegli anni per rendersene conto. Certi temi possono essere simili a quelli di Toulouse-Lautrec, ma il colore è completamente diverso. Tenacemente separato in piccoli tocchi e insieme fuso in accostamenti violenti. Van Gogh dovette essere presente al giovane pittore spagnolo soprattutto per la forza espressiva che reggeva le sue immagini, per l’intensità emozionale che animava fisicamente ogni sua forma. E non bisogna dimenticare le sollecitazioni culturali che Picasso portava con sé dall’ambiente dell’avanguardia di Barcellona.
Nella capitale catalana lavorava in quegli anni un architetto come Gaudì, oscillante tra il simbolismo e la più sfrenata fantasia. Se Picasso non fosse diventato quello che è le sue prime prove parigine si confonderebbero probabilmente con quelle di molti altri pittori dell’epoca, resterebbero a testimoniare di un certo gusto poetico. Alla luce del suo sviluppo successivo possiamo vedervi i primi appassionati tentativi di un giovane pittore che intravede, per quanto confusamente, la sua necessità fondamentale. Quella di superare la forma statica di una immagine reale per farle esprimere una somma sempre più ampia di contenuti interiori.
Il dottor Jung, lo psicanalista, ha scritto qualcosa sui quadri di Picasso del «periodo blu», dipinti dal 1901 al 1904. Sono quadri che rappresentano povere figure di vagabondi, di bevitori, scene ed ambienti di malinconia e di miseria. Jung ha visto nel blu che predomina in quelle opere «il blu della notte, del chiaro di luna o dell’acqua, il blu del mondo infernale egiziano». In quelle immagini lo psichiatra ha creduto di distinguere in una «espressione schizofrenica», «la forza d’attrazione demoniaca del brutto e del male». È una lettura meccanica, poco obbiettiva e scarsamente realistica. Il poeta Apollinaire era più semplice ma probabilmente più vicino alla verità quando diceva che in quei quadri Picasso aveva dipinto «gli azzurri cieli delle nostre malinconie». Il gusto dell’epoca per una poesia dei diseredati diventava umanamente concreto nell’ispirazione di Picasso.
I più grandi amici di Picasso sono sempre stati poeti. Il primo di questi è Max Jacob, da lui conosciuto nei primissimi anni di vita a Parigi. Picasso parla soltanto lo spagnolo, Jacob solo il francese. Ma per una notte intera il pittore si fa leggere i versi del suo nuovo amico, affascinato dalla musica delle parole. Quando, all’alba, se ne va, Max Jacob si sente «incoraggiato per tutta la vita». «Credevo in lui più che in me stesso», egli dirà più tardi. Jacob comincia da allora a seguire da vicino il lavoro di Picasso. Vivono anche insieme, in uno studio squallido di Boulevard Barbès. Una sera d’inverno si trovano senza un soldo per il carbone. Le tele messe contro le finestre non bastano ad impedire che entrino i soffi d’aria gelida. Allora, per fare un po’ di fuoco, Picasso incomincia a bruciare nella stufa i suoi disegni. Qualche tempo dopo riesce a vendere un acquarello che gli consente di comprare il biglietto per ritornare in Spagna. Fa un rotolo dei suoi quadri e lo affida a un amico. Questi lo butta su un armadio e se ne dimentica. «Se quel rotolo si fosse perduto» dirà Picasso più tardi «non ci sarebbe stato più niente del periodo blu. Tutto quello che avevo dipinto fino ad allora era là dentro».
Quando Picasso rientra a Parigi, nel 1904, sistema il suo studio nell’edificio della «Rue Ravignan» che diventerà poi famoso con il nome di Bateau-Lavoir. Per qualche anno è ancora la miseria più pesante. Lo scultore Paco Durio, suo amico, che conosce bene la sua situazione, lo aiuta di tanto in tanto lasciando davanti alla sua porta un po’ di cibo. La donna che viveva in quei giorni con Picasso ha lasciato scritto che egli «accettava come un omaggio dovuto tutto quanto i suoi amici cercavano di fare per aiutarlo». E intanto lavora furiosamente, dipingendo anche due o tre grandi tele in un giorno. Quasi bruscamente i suoi quadri cambiano. Comincia quello che è stato definito il suo periodo rosa. I toni si alleggeriscono, i colori diventano più brillanti e più freschi. I soggetti che tornano più frequentemente rappresentano ora saltimbanchi, giocolieri, ballerine di circo. Nella vita di Picasso entrano ora due donne. Fernande Olivier è il suo primo grande amore. È bella e indolente. Non riesce a seguire da vicino la fatica creativa del pittore, lascia a lui anche le cure della casa. Ma la sua presenza, certo, deve portargli una specie di calma e di agio psicologico indispensabili. E poi, Fernande vive con Picasso gli anni di miseria senza lamentarsi e senza farsene un problema. Non esce di casa per mesi interi perché è senza scarpe. Resta a letto quando non c’è carbone per riscaldare la casa. (E certi amici intellettuali di Picasso si stupiranno poi, durante gli anni di ricchezza, perché Fernande parla solo di pellicce e cappellini). La seconda donna è Gertrude Stein. È americana, diventerà la scrittrice moderna più rivoluzionaria. Vive a Parigi col fratello e acquista quadri. È lei ad intuire subito la genialità del giovane pittore spagnolo. La sua amicizia e la sua comprensione intellettuale accompagneranno Picasso per anni e anni.
«Copiare gli altri è necessario. Ma copiare se stessi, che pietà!», ha scritto Picasso. Queste parole possono aiutare a capire le ragioni profonde di certi bruschi cambiamenti nella sua pittura, di certe nuove «maniere» che hanno tante volte sconcertato critici e ammiratori. I quadri del periodo blu e del periodo rosa hanno fruttato a Picasso una solida fama. Il suo successo incomincia ad affermarsi anche sul mercato. Ma con il 1906 Picasso inizia una vera rivoluzione nella sua pittura, anzi, in tutta la pittura contemporanea. I giovani artisti che vivono a Parigi in quegli anni tendono a reagire all’eredità degli impressionisti. Da una parte c’è Matisse e tutti quei pittori che impostano la loro reazione sull’incandescenza più diretta del colore, su una luce violenta e precisa. Dall’altra parte c’è Picasso. Nel 1907 egli dipinge le Demoiselles d’Avignon. I colori sono gravi ed essenziali, appena l’indispensabile per formare la forza evocativa delle immagini. Negli anni successivi egli dipinge i primi paesaggi «cubisti», direttamente ispirati da certi paesaggi spagnoli. Poi, negli anni che precedono la guerra, verranno le grandi opere del cubismo classico, dove l’immagine della realtà si disfa per ricostituirsi in una nuova oggettività profondamente significativa.
Se si guarda un quadro di Matisse vicino ad un quadro impressionista si vede che l’immagine sostanziale, la figura dei personaggi e degli oggetti, non cambia. Cambia un certo modo di vederla. Il colore e la struttura, nel quadro di Matisse, subiscono una deformazione: il che vuol dire che è sempre una certa forma a venire piegata in nuovi aspetti. Le Demoiselles d’Avignon rappresentano un’altra cosa. È un tentativo di mutare la sostanza stessa dell’immagine delle cose e dei personaggi. Matisse investiva la realtà data con una nuova carica di emozioni. Picasso non deforma affatto: costituisce una nuova forma della realtà. Tutti i rivoluzionari della storia dell’arte hanno fatto esattamente questo. Nell’Autobiografia di Alice Toklas, Gertrude Stein racconta che allora c’erano veri scontri tra matissiani e picassiani. E Picasso si ricorda di quando mostrò le Demoiselles d’Avignon a Matisse e questi si mise a ridergli dietro le spalle.
«L’arte negra? Non la conosco!», ebbe a dire Picasso una volta. Si parlava troppo dei suggerimenti formali che potevano essergli derivati dalle statuette negre che in quei tempi passavano nelle mani degli artisti parigini. Effettivamente il discorso era mal posto. Il problema di Picasso non era certo di imitare certi lineamenti esotici per un effetto di gusto nuovo. Le suggestioni dell’arte negra ci furono, ma in profondità. La voga parigina delle statuette negre non era che un episodio minore dell’interesse che parte dell’alta cultura di quel momento portava a manifestazioni d’arte di pensiero primitive, dove il significato della realtà era espresso in tutta una vasta serie di relazioni interiori. L’arte negra poté suggerire a Picasso una ragione profonda di rompere l’immagine reale per renderla più sottilmente espressiva, più intima. L’arte negra non è realistica perché si pone certe funzioni «religiose»: perché vuole rappresentare una oggettività completa, interiore ed esteriore, secondo una certa ideologia. Che ne fosse completamente cosciente o no, Picasso realizzava la sua rivoluzione di fronte alla realtà per motivi analoghi. Una forma agitata dalle emozioni non gli bastava più. Egli voleva costituire una struttura di tutto ciò che si oggettiva sui vari piani dell’essere (fisici e spirituali). In certe stilizzazioni di quei nuovi volti che apparivano nella pittura europea con i suoi quadri potevano restare tracce dei suggerimenti formali dell’arte negra. Ma questa non era che l’indicazione di una ricerca più profonda, perché una nuova magia animasse la figurazione pittorica.
I suoi quadri sono discussi da tutto il mondo artistico parigino. Alcuni li disprezzano, ma molti ne capiscono la portata rivoluzionaria. Picasso sta diventando famoso. Un giorno un gruppo di giovani pittori tedeschi lo riconosce per la strada, lo attorniano, lo portano in trionfo. Urtato dalla platealità di quel gesto, Picasso leva di tasca una pistola e spara un colpo in aria. In un attimo la strada si fa deserta e Picasso se ne va, da solo. Il suo lavoro procede. Le Demoiselles d’Avignon non sono che un inizio. Con esse Picasso ha incominciato decisamente a infrangere l’aspetto reale delle cose per scoprirne la tessitura più intima. Ora si tratta di dare un corpo sempre più preciso a quella nuova entità che egli ha scoperto. Cézanne ha già fondato una nuova visione delle cose. Nei suoi quadri la luce non è più quella specie di forza panica che fluisce nelle forme degli impressionisti. È uno scheletro di oggettività che struttura la successione degli aspetti materiali. Picasso va avanti dove Cézanne si è fermato.
È strano come moltissimi critici – quasi tutti – parlino del cubismo come di una specie di procedimento tecnico per rendere più dimensioni in un ordinamento geometrico. È come se si parlasse della prospettiva quattrocentesca come di una trovata tecnica. È chiaro che i pittori del Quattrocento che «inventarono» la prospettiva lo fecero perché la loro visione del mondo li spingeva a rappresentare uno spazio nuovo dove potesse collocarsi logicamente l’interiorità dell’uomo quale essi lo concepivano. Lo stesso avviene nei quadri cubisti di Picasso e di coloro che lo seguirono. Nel suo periodo detto «analitico» egli non scompone un oggetto per renderlo visibile da tutti i punti di vista. Sostituisce piuttosto ad una sostanza fissa e immutabile dell’oggetto, del reale, una serie di sue apparizioni, di suoi fenomeni. Così un oggetto finisce con l’essere formato da una serie di relazioni: prima di tutto con lo spazio. Con i quadri del cubismo analitico lo spazio non è più un luogo dove certe cose avvengono. È la dimensione stessa dell’accadere. Entra in relazione con l’oggetto: prende parte alla sua stessa forma. La nuova magia dell’immagine che Picasso ha incominciato a cercare nei primi quadri cubisti, con quelle figure simili ad idoli negri, si risolve qui nella immagine di ogni oggetto.
Non si può in uno spazio limitato fare la storia di tutta la pittura di Picasso, non si possono seguire tutte le peripezie delle sue inesauribili scoperte. Quello che importa stabilire è il suo gusto appassionato fino a diventare accanito per la realtà, per tutta la realtà, per tutti i suoi significati. Perché si può dire che ogni apparente deformazione che appare nei suoi quadri è un altro significato che di quella forma egli ha portato alla luce.
Per molto tempo, fino a questi ultimi anni, Picasso ha alternato viaggi a Parigi con lunghi soggiorni sulla Costa Azzurra. La sua villa di Cannes ha visto fiorire i quadri sereni e pieni di luce della sua vecchiaia, i ritratti degli ultimi figli, delle donne che gli sono state vicine. Ora Picasso ha acquistato, per settanta milioni di franchi, il castello di Vauvenargues, in Provenza. Qualche tempo fa Picasso è andato a visitare la sua mostra al museo Cantini, di Marsiglia. Molti quadri sono usciti per la prima volta da collezioni private, e possono definirsi assolutamente «inediti». Picasso ha ritrovato qui alcuni dei quadri dipinti nei primi anni della sua attività.
«Quando dipingevo questo», ha detto indicandone uno, «era di notte. Avevo molta fame. Con una mano dipingevo e con l’altra portavo alla bocca un pezzo di pane».