Un libro di Maria Pace Ottieri / Addio gloria
Gloria, vanagloria, onore, vergogna, splendore, prestigio, lode: sembra di aver come sbagliato secolo, a leggere alcune delle parole/concetti di cui si occupa Maria Pace Ottieri, intervenendo con dotta sagacia e condendo il tutto con un pizzico di gender (la gloria non ama le donne, un po’ come il jazz, mi vien da dire. Ha un debole invece, ricambiato, per gli uomini). Gloria è una parola obsoleta, «bandita dall’immiserita vita contemporanea», che trova un succedaneo, un surrogato immiserito, in concetti quali visibilità, celebrità, protagonismo e reputazione o, per dirla con linguaggio arcaico, nella vanagloria. E come non è più tempo di gloria, non è nemmeno più tempo di eroi, della gloria vessilliferi. O per meglio dire gli eroi hanno cambiato casacca e sono diventati le vittime passive.
La gloria degli eroi e la passione delle vittime
Cominciamo dunque da qui, da uno dei molteplici spunti di riflessione, tutt’altro che banali, presenti nelle pagine di Ottieri; cominciamo dallo spunto che nota che nei nostri giorni bizzarri l’attenzione, e contemporaneamente il conferimento di qualcosa di simile alla gloria, si è spostato dall’eroe attivo alla vittima passiva. Ottieri vi legge soprattutto una pericolosa sottrazione di responsabilità e una incapacità ad articolare e proporre, detto con San Tommaso, un bene positivo. A sua volta Adriana Cavarero, nel suo seminale studio sulla dignità ontologica della vittima, per il quale coniò anche il termine specifico di «orrorismo» (Adriana Cavarero, Orrorismo ovvero della violenza sull'inerme, Feltrinelli, Milano 2007), riservava invece un’attenzione speciale proprio all’azione violenta verso la persona mirante al disfacimento del corpo e delle sue forme, alla soppressione dell'unicità della sua figura, e dove la vittima non è il tiranno o la testa coronata bensì chiunque si trovi nel luogo dell'attentato. E dove il rapporto di gender si capovolge, giacché anche le donne compaiono in veste di attentatrici, aguzzine e torturatrici. Cavarero si chiede quale sia il senso della «violenza sull'inerme che, attraverso la potenza figurale, si tramanda da secoli come peculiarmente femminile».
Come possono convivere le madri di Amburgo, che trascinavano nella valigia i cadaveri dei figli «cotti» dalle bombe, con Medea, con Progne che uccide e taglia a pezzi il figlioletto Itis imbandendolo alla tavola di Tereo, con le torturatrici di Abu Ghraib e le ragazze islamiche che si offrono come detonatori umani? È dunque un passo avanti dell’etica il fatto che ci si concentri sulle vittime, o è un passo indietro dato dal convertirsi all’inazione, alla mancanza d’opera, al declino della responsabilità individuale? O proprio il passaggio alla passività rappresenta invece il passo avanti dell’etica nella democrazia che – ce lo insegnava tra gli altri Remo Bodei – non è tempo di eroi e di passioni rosse e infuocate ma di persone normali e di passioni spente, grigie, fors’anche tristi? Tempo nel quale rientra anche il fatto che gli eroi che si coprono di gloria non sono più le persone eccezionali, dei e semidei quali Eracle e Gesù, ma, osserva Ottieri, le persone normali che svolgono bene il proprio dovere (che poi è quello che tutti dovremmo fare), soprattutto se svolgono una professione di cura o di protezione, medici, infermieri, pompieri, militari.
Gloria e onore
Alla nozione di gloria è spesso accoppiata quella di onore: insieme esse condividono la richiesta di riconoscimento – diremmo piuttosto oggi – o di premio – si sarebbe detto in passato – di una virtù, di una eccellenza: l'onestà. Come un dottorato honoris causa, che riconosce una prestazione eccellente e la premia con un titolo. Honor, diceva la tradizione romana, est praemium virtutis; la stessa tradizione che affermava che anche gloria è ricompensa di una virtus che di per sé impone solo fatiche e sacrifici. Non tutta la gloria tuttavia, soltanto la vera gloria; e nemmeno la vana gloria, e soprattutto non la gloria popularis, ovvero il favore e il plauso che il popolo corrotto manifesta verso il potente e il vincente, sulle quali si interroga Manzoni nel 5 Maggio 1821. La gloria conquistata con azioni virtuose è quasi sinonimo dell'onore raggiunto con attività oneste e di beneficio alla comunità.
E qui risiede la grande differenza con la nozione di celebrità perché a differenza degli eroi, le celebrities, attori, cantanti, sportivi, nulla fanno per il bene degli altri, se non forse regalare loro qualche momento di svago con le loro frivole performances: «Perduti la gloria e l’onore – osserva Ottieri – tra le mani ci resta la reputazione, triste, modesta, la bava misurabile e miserabile che tutti lasciamo perfino oltre la morte» (p. 118). Celebrità e reputazione che sorgono e cadono nell’immediatezza, mentre la gloria per essere duratura richiede tempo, pazienza, umiltà; reputazione e celebrità illuminate da polvere di stelle e lustrini da cabaret. Mentre la gloria, nota ancora Ottieri, è accompagnata da fulgore luminoso.
Gloria, grazia e luce
Per quella gloria che è immortalità ottenuta con i propri meriti e le proprie azioni la lingua greca antica aveva il suo termine specifico, kléos, ma anche il termine charis, grazia, presente in una folta schiera di contesti, soprattutto in letteratura: lì lo ritroviamo, oltre che nello splendore delle giovani donne, nella gloria che i soldati valorosi in battaglia conferivano al loro comandante; charis era un marchio di nobiltà e di splendore e coronava il momento della gloria suprema anche nella vittoria olimpica, calando leggera dall'alto.
Nell’Odissea, (XVII, 192-193) Ulisse appare vecchio a cencioso a Telemaco presso il porcaio Eumeo, per poi splendere come un dio dopo che Atena avrà versato la chàris, la grazia, sul suo capo; infine quando, terminato il massacro dei pretendenti, Ulisse si lava e si cosparge d'olio, indossa una tunica e un manto, e dopo che la grazia gli viene versata sulle spalle esce dal bagno splendente e luminoso, glorioso come gli immortali e riprende il suo seggio (XXIII, 193-194). In una delle odi dedicate ai vincitori dei giochi olimpici il poeta Pindaro invoca le grazie tutte insieme, perché è soltanto in virtù della loro benevolenza che l'atleta vincitore, Asopico, è divenuto un uomo illustre e splendente di gloria.
Gloria, individualismo, collettivismo
Sostiene Ottieri, nel suo stimolante saggio, che la celebrità, la «gloriola» dei nostri tempi, sia individualista. Dove individualista, nella sua analisi, suona quasi come un’offesa, un disvalore, soprattutto nell’esasperazione contemporanea di incontinenza dell’io o edonismo totalitario. Si leggono sempre più spesso valutazioni di questo genere, nelle quali si attribuisce all’individuo individualista la pecca di essere degenerato, di aver assunto una configurazione estrema ed esasperata, di culto di se stesso: la cosiddetta io-latria. Sovrasta il mondo la forza negativa e distruttiva dell’illimitatezza dell’individualismo di massa e della sua montata galoppante. E qui la critica assume toni sempre più moraleggianti: siamo malati di autocompiacimento e tendiamo a investire nella nostra identità personale in chiave narcisista; nel nostro modo di vivere si sarebbero insinuati una ipertrofia dell’io, una privilegiata affermazione di se stessi, un patologico egocentrismo che si rifletterebbe anche nella disperata ricerca di notorietà e reputazione.
Eppure proprio la concezione individualista ha portato una straordinaria spinta nella direzione dell’autonomia, dell’eguaglianza, della democrazia e dei diritti. Anzi, l’inflessione in questa direzione ebbe il grande vantaggio di inserire le libertà individuali in un perimetro collettivo di scelte condotte in nome del benessere di tutti. È questo un punto che si è perso nell’epoca della tarda modernità e che agita la dimensione etica contemporanea. Non credo tuttavia che la soluzione sia il ritorno alla condizione umana olista-collettivista come quella di epoche passate nelle quali l’insieme dei membri non godeva certo di una condizione di parità ma era gravemente subordinato al signore, al padrone, al padre, e nel quale la sua libertà ed autonomia si scioglieva nella libertà e autonomia non di tutti ma, avrebbe detto Hegel, di uno solo.