Fantasmi / Roger Ballen. La fotografia come esplorazione della mente
La fotografia mostra un interno dimesso. Le pareti sono rovinate dal tempo. Sul pavimento sono distese alcune corde nere che disegnano una porzione di scacchiera elementare. L’unica pedina presente è un gatto bianco che guarda un uomo che a sua volta osserva un disegno appeso alla parete: un abbozzo di scarabocchi in cui tra cancellazioni e linee fragili campeggia la sagoma di un fantoccio sorridente. La teatralità dell’incontro allude forse al fatto che l’uomo contempla sé stesso in uno schema che mima il contesto in cui si trova e di cui egli non è che una pedina?
La foto si intitola Scrutinizing. È un’opera che Roger Ballen ha realizzato nel 2000 e contiene tutti i tratti del suo stile: il degrado dell’ambiente, l’animale come specchio dell’uomo, l’irruzione dell’inconscio nella dimensione quotidiana. È uno scatto prodotto in un momento molto importante per il fotografo, una sorta di spartiacque nella vita artistica dell’autore che dal 2002 smetterà di ritrarre volti umani e cercherà di integrare l’immagine con la scultura e con disegni vicini all’art brut di Jean Dubuffet.
L’immagine appare nel libro intitolato The Earth Will Come To Laugh and Feast, da poco pubblicato dal powerHouse Books, una casa editrice indipendente di Brooklyn. Il volume è composto da una selezione di fotografie realizzate tra il 1995 e il 2016 a cui vengono accostate le poesie di Gabriele Tinti ispirate dagli scatti, in cui lo stile del fotografo e la storia dei suoi soggetti fanno da cassa da risonanza alla scrittura del poeta di Jesi. Il volume nasce in seguito al loro incontro a Roma in occasione della sua mostra Asylum of the birds (2014) al Museo Macro, che entrambi raccontano nella doppia intervista che chiude il libro.
Come per le parole di Tinti, la fotografia per Ballen è un mezzo per esplorare la psiche umana. Il suo percorso è singolare. Dopo essersi laureato in psicologia a Berkeley viaggia quasi sempre a piedi attraverso Asia e Africa. Nel 1981 si trasferisce a Johannesburg dove il lavoro da geologo lo porta ad attraversare le zone periferiche e meno conosciute del paese. Dal 1982 sceglie di viverci stabilmente ed è qui che emerge la visionarietà del suo sguardo. Appaiono i suoi mostri e i fantasmi, i “Poor Whites”, le cui vite vengono mostrate in una dimensione ambigua dove lo stile documentario si fonde con l’immaginario freak che ricorda le immagini di Diane Arbus. Alcune fotografie tratte da Outland (2000), che ha segnato il passaggio di Ballen dalla fotografia documentaria a quella visionaria, vengono incluse in questo volume.
Sono scatti analogici dove la realtà corrisponde a una deriva nella mente del fotografo. Non si comprende sino in fondo se le sue immagini raffigurano soggetti che sono realmente esistiti, o al contrario sono invece ricordati, sognati o immaginati. Animali, oggetti e persone appaiono più come ombre, simulacri e riflessi. L’immagine a cui si può fare riferimento è proprio quella della mente intesa come luogo da esplorare.
Con la sua fotografia Ballen ci trasporta in un mondo nel quale vacilla ogni certezza. Lo stile è inconfondibile tanto da indurre l’autore a coniare una sorta di marchio identitario: “Ballenesque”, che è anche il titolo di una monografia pubblicata da Thames and Hudson nel 2016. Il caos della vita umana viene espresso attraverso la presenza inquietante di esseri umani disorientati e frammentati, di animali che sembrano provenire da un’altra dimensione, di oggetti completamente privi della loro funzione originaria. Guardando la fotografia Driesie and Casie, Twins, Western Transvaal (1993) è impossibile non pensare a Identical twins, Roselli, NJ (1967) di Diane Arbus.
È proprio il termine freak ad aver fatto da cassa da risonanza al successo di Ballen, quando nel 2012 esce I Fink U Freeky un brano del gruppo hip hop sudafricano Die Antwoord. Il video della canzone ha come direttore della fotografia lo stesso Ballen, e porta l’autore ad avere un seguito globale da parte di un pubblico giovane e vicino alla scena techno e zef (termine dispregiativo per indicare la classe operaia bianca sudafricana, diffuso tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso). Maschere, manichini, bambole, topi, cavi elettrici e disegni stilizzati, che contraddistinguono le fotografie di Ballen, sono sparsi negli ambienti fatiscenti dove viene girato il video.
Le poesie di Gabriele Tinti sono il doppio testuale delle immagini. Ne ripercorrono le ossessioni, le duplicano, ne ampliano certi dettagli come nel caso di Toenail, affiancata all’immagine in cui Ballen ritrae le gambe magrissime di un uomo sdraiato a terra:
“La cancrena dall’unghia scala il tuo corpo molle.
I giorni sfanno tutto quel che hai costruito.
La notte rovescia a terra ogni cosa.
Soltanto una parte resta da fotografare”.
La fotografia scelta per chiudere il volume è Fragments (2005). Sono numerosi gli interrogativi che nascono guardando il suo soggetto: due piedi che fluttuano nell’aria. Sono piedi giovani e sporchi, forse di grafite, forse di polvere. Stanno a pochi centimetri da terra, fermi, come quelli di un impiccato. Sotto i piedi c’è un piatto sulla cui superficie è disegnato un volto che ci guarda, una maschera. Vicino al piatto è posata una forchetta disposta in senso contrario allo spettatore, come se fossimo seduti a tavola con qualcuno e fra noi ci fosse un suicida galleggiante nell’etere come un fantasma. Perché quella sagoma ci sta fissando? E perché la mela è stata tagliata ma non c’è accenno di alcun morso?
Le immagini di Ballen sono ambigue e violente, capaci di indurre chiunque a guardarle come uno specchio in cui ritrovare soprattutto i propri fantasmi.