Luca Barcellona, Massimo Carboni / La danza leggera dell’ornamento
Questo articolo lo sto scrivendo direttamente al computer; con la stilografica ricopio talvolta le citazioni che commentano qualche disegno; spesso la scrittura si inciampa, scrivo refusi che ripropongono quelli che solitamente mi capitano digitando sulla tastiera; certe volte ricorro alla penna a biro perché l’inchiostro della stilografica si è seccato e ho fretta, compromettendo naturalmente il risultato, la forma stessa delle lettere. Non so se questo capiti a tutti, certo però la scrittura a mano sembra aver assunto una funzione soltanto ornamentale.
Eppure il titolo del nuovo libro di Luca Barcellona, Anima e inchiostro, pubblicato da Utet, ha come sottotitolo: Scrivere a mano come pratica per migliorare se stessi. La tesi fondamentale dell’autore, moderno amanuense con una pratica di writer alle spalle, è appunto che la scrittura è una disciplina. Con i caratteri elaborati, a partire dall’italico, dalla sua prima insegnante di scrittura, Francesca Biasetton (attualmente presidente dell’Associazione Calligrafica Italiana), Barcellona scrive: «la calligrafia è maestria costante che si sviluppa nel tempo o con l’esercizio costante, come per i danzatori e i musicisti. Non la si può padroneggiare subito. Tutto il corpo deve sperimentare la pratica… Quando vi dedicate alla scrittura, cercate di essere consapevoli dello spazio che vi circonda. Tutto questo spazio non è vuoto, ma in attesa» (p. 22). La scrittura prevede questa disposizione attenta: raccontando un’esperienza di lavoro nel suo studio, Luca Barcellona ne descrive tutti gli aspetti. La luce calda illumina il tavolo inclinato da lavoro, sceglie la carta, la tocca, batte con le unghie sulla carta e sul tavolo ascoltando la differenza del suono, appoggia la carta su un cuscinetto di altri cinque o sei fogli, prende il pennino e un piccolo pennello per scaricare l’inchiostro, apre la boccetta dell’inchiostro. Rilassa poi le tensioni nella mano, nel polso e in tutto il corpo: la schiena è diritta, le gambe non accavallate e i piedi ben poggiati a terra. L’inchiostro è nero, ma di un «nero caldo», con riflessi quasi porpora. L’atto dello scrivere include poi l’impostazione della pagina, l’osservazione dell’angolo di inclinazione del pennino, lo studio del peso delle lettere (la proporzione cioè tra lo spazio bianco e il nero dei caratteri o viceversa o tra altri colori), lo scheletro e il ductus (il numero, l’ordine e la direzione dei tratti), la velocità. Insomma, una sorta di pratica zen che si ripropone anche prima nelle grandi scritte da writer e ora nelle performance dell’artista.
Le immagini che illustrano il libro ci distraggono spesso dalla lettura, le scritte dell’autore in italico, gotico fraktur e textura, cancelleresca e capitale romana, a penna, con pennello, con marker, su vari tipi di carta, su parete, su vetro, su metallo, attraggono con forza la nostra attenzione per la precisione del tratto e per l’eleganza delle lettere e delle grazie. La parte storica è dedicata agli stili di scrittura, alla loro origine ed evoluzione, ai manuali di calligrafia e ai più importanti calligrafi, da Rudolf Koch a Hermann Zapf, con qualche cenno alla storia della tipografia. La conclusione che ne possiamo trarre è che l’abbandono nel 1970 della calligrafia (chiamata dal 1938 “bella scrittura”) come materia di insegnamento nella scuola elementare, più che una vittoria della creatività appare piuttosto come l’abbandono di una pratica millenaria e di una disciplina che sviluppa il controllo di sé e della tecnica, senza la quale non è possibile alcuna attività artistica.
La ricerca della perfezione nelle scritte di Luca Barcellona si iscrive poi nella storia della scrittura fin dall’antichità, che diventa, in Oriente e nel mondo arabo, raffinata arte calligrafica, tanto che nell’arte europea viene a volte riproposta come elemento decorativo senza riferimenti semantici. La scrittura si trasforma in un fregio che declina il pattern all’infinito, sviluppando talora, nella ripetitività della scansione, le diverse possibilità contenute nello schema iniziale. Il carattere ornamentale ne costituisce l’essenza e la scrittura diventa spesso metafora stessa dell’ornamento. Del resto il tema dell’ornamento ha una ben precisa collocazione nel dibattito dell’estetica contemporanea, sulla scia delle riflessioni maturate tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo scorso nella cosiddetta Scuola di Vienna, e recentemente riproposte nella mostra What a wonderful world. La lunga storia dell’ornamento di Palazzo Magnani a Reggio Emilia, tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020 e nel ricchissimo catalogo a cura di Claudio Franzoni e Pierluca Nardoni che l’ha accompagnata.
Massimo Carboni ci ripropone questo tema in un libro appena pubblicato da Jaca Book, L’ornamentale. Un percorso filosofico tra arte e decorazione, riedizione parzialmente rinnovata di testi precedentemente dati alle stampe, con un bellissimo apparato iconografico.
Nella parte centrale di questo impegnativo itinerario teoretico Carboni cerca di rielaborare il concetto di Kunstwollen di Alois Riegl, che aveva permesso a questo autore di ridare dignità estetica alla decorazione, all’ornamento, alle arti applicate, considerate minori, in particolare nello studio dell’arte tardo romana, che non viene più considerata come un momento di decadenza e di imbarbarimento, ma viene indagata come evoluzione della concezione dello spazio rispetto al mondo classico. Carboni si propone di riutilizzare questo concetto rendendolo più flessibile e meno idealistico. Per fare questo ne sottolinea «l’impostazione sobriamente descrittivo-fenomenologica» (p. 105) e richiama alcune pagine di Husserl del 1906, nelle quali la funzione estetica viene colta non nell’oggetto, ma nella costituzione da parte del «soggetto-intenzionante con un atto che “riempie” l’oggetto di significato» (p. 106). Ma è soprattutto al testo di Henri Focillon, Vita delle forme (1943, ristampato più volte da Einaudi) che Carboni fa riferimento per riformulare il Kunstwollen, nel quale l’Ornamento, scritto con la maiuscola, diventa centrale come esempio più alto del rapporto tra le forme che si generano l’una dall’altra secondo leggi proprie che procedono a rizoma (cfr. p. 130-131). Prima di procedere in questa breve analisi, va però notato che la valutazione del pensiero husserliano nel primo capitolo del libro era sostanzialmente diversa: basandosi sulle pagine delle Idee che indagavano l’intenzionalità sul piano conoscitivo, Carboni aveva affermato che non è possibile l’utilizzo dell’analisi fenomenologica per elaborare un’estetica dell’Ornamento perché l’epochè fa perdere all’oggetto, inteso come noema, «ogni concreta qualità materiale» (va notato che Husserl afferma esattamente il contrario: certo il noema, a differenza dell’oggetto, non brucia, ma mantiene tutte le sue caratteristiche sensibili), e conferisce parimente al soggetto una funzione a priori slegata dalla complessità dell’esperienza (p. 36). Nell’Ornamento non c’è, ribadiva Carboni, né soggetto, né oggetto e nemmeno significato, esso va considerato al di fuori e contro la tradizione filosofica razionalistica occidentale.
Eppure più volte l’autore ritorna alla storia della filosofia e, in particolare, ad alcune pagine della Critica della facoltà di giudizio di Kant. In un primo momento esamina la distinzione kantiana tra bellezza pura – che non implica alcun concetto di ciò che l’oggetto deve essere – e bellezza aderente – condizionata al suo concetto e allo scopo; solo il primo tipo di bellezza può dare adito al giudizio puro di gusto (§ 16). Inizialmente Carboni vede in questa impostazione una prospettiva logica che pone l’Ornamento in secondo piano, ma nel terzo capitolo sembra disponibile a riconsiderare la distinzione kantiana che conferisce alla bellezza libera la purezza del giudizio. Sulla scorta di Derrida (La verità in pittura, trad. it. Newton Compton, Roma 1981) propone una dialettica tra ergon, l’opera, e parergon, l’Ornamento. Kant aveva portato come esempi dei parerga i colori, i suoni di uno strumento, le cornici, i drappeggi nelle statue, i colonnati attorno ai palazzi, ma era stato ben attento a distinguere il piano che rende possibile il giudizio estetico dalla mera attrattiva, tanto da affermare che nella percezione dei colori potrebbe già esistere un’unificazione formale (§ 14). Questo però, secondo Carboni, ne trasforma il senso, toglie con la materia il colore stesso. Si sofferma invece sul panneggio sul quale anche Derrida aveva sollevato dei dubbi, chiedendo quale fosse il limite della decorazione: dove inizia e dove finisce la decorazione del corpo? ogni abbigliamento è ornamento? come la mettiamo con il velo trasparente della Lucrezia di Cranach? (cfr. La verità di pittura, p. 58). Carboni ne deduce ora l’essenzialità dell’Ornamento. Destino analogo, ma rovesciato, sembra attribuire l’autore all’Ornamento quando si lega agli aspetti strutturali, come nel caso, osservato da Hegel nell’Estetica (trad. it., Einaudi, Torino 1963, II, pp. 777ss.) a proposito delle chiese gotiche in cui l’ornato “ripete” la struttura dell’edificio conferendole un significato quasi liturgico. In questo modo però l’Ornamento perde, secondo Carboni, la sua funzione autonoma e si nega in quanto tale, si cancella (cfr. p. 245).
Non potendo dar conto, nello spazio di una recensione, di tutti gli altri riferimenti, mi sembra però necessario accennare al rapporto che Carboni stabilisce tra la tradizione dell’Ornamento e la ricerca artistica del primo Novecento nell’Intermezzo che l’autore dedica a Klimt, alla Secessione e, soprattutto, a Matisse, alla sua capacità di integrare figura e decorazione. L’analisi prende avvio da una citazione del pittore che mostra a un intervistatore una serie di disegni di un dettaglio, un colletto di pizzo femminile che via via diventa sempre più astratto, senza perdere «il suo carattere di pizzo, anzi di questo pizzo determinato» (p. 175). Questa affermazione e l’analisi di alcune pitture importanti di Matisse propongono un ruolo nuovo alla decorazione, che si dilata disegnando lo spazio in una sorta di «scrittura plastica» (p. 182) nella quale il segno non rappresenta l’albero, ma ne è, per così dire, l’ideogramma, il geroglifico, in un processo di astrazione molto diverso dall’astrazione del concetto, perché mantiene l’unicità dell’oggetto nella trasposizione immaginativa.
In questo senso il percorso filosofico di Carboni, che spesso ribadisce di collocarsi completamente al di fuori della tradizione estetica occidentale, deve poi ricorrere ad alcune categorie che sono state elaborate proprio all’interno della storia dell’estetica da Kant a Hegel, da Husserl a Focillon e oltre, con qualche oscillazione nel giudizio, forse dovuta ai tempi diversi della stesura del testo. In particolare Carboni sembra accentuare, a scopo polemico, il carattere astratto dell’apriori e del trascendentale nel percorso che da Kant giunge alla fenomenologia attraverso il neokantismo, mentre la critica contemporanea mette l’accento piuttosto sul fatto che la soggettività, già in Kant, si costituisce non come qualcosa che non preesiste agli oggetti, ma si va costituendo insieme ad essi. Nell’analisi estetica di Carboni il rapporto soggetto – oggetto appare invece irrigidito in una contrapposizione che impedisce la realizzazione di una nuova estetica che possa spiegare la danza leggera dell’Ornamento.