Una Biennale non può far tutto
C’è anzitutto una questione strutturale. La Biennale di Venezia era stata concepita sul modello delle grandi esposizioni ottocentesche. “Internazionali” per quanto all’epoca possibile, e nutrite dallo spirito di competizione tra alcuni grandi imperi coloniali e un grappolo di nazioni dagli interessi affini.
Quel modello ha resistito abbastanza bene a due guerre mondiali e ai successivi riassetti postbellici. Salvo qualche giustificabile assenza (la Russia sovietica che si ripresenta solo nel 1924; Francia e Gran Bretagna che boicottano quella del 1940) la struttura ha tenuto dinanzi a significativi sommovimenti storici. Non ha tuttavia retto, e questo lo sappiamo solo ora, all’emergere di un’arte globale frutto delle aperture politico-commerciali degli anni novanta e all’inserimento della produzione artistica, così come di ogni altra merce, nel flusso del capitale globale.
Oggi i padiglioni nazionali che punteggiano i giardini di Sant’Elena sono il monumento alla loro stessa obsolescenza. Stanno lì, a memoria di un periodo storico in cui, per così dire, il macrocosmo delle potenze mondiali si poteva ritrovare pacificamente e uno accanto all’altro entro il microcosmo dei giardini. L’eclettismo degli stili di volta in volta prescelti andava confermando un processo di identità nazionale: il prediletto neoclassicismo del padiglione centrale, di quello tedesco, americano e britannico, il funzionalismo razionale di quello svizzero e dei paesi nordici, lo jugendstil ungherese, il brutalismo del Brasile, fino all’high tech nordcoreano.
Oggi questi costumi non si portano più, e gli artisti lo hanno capito da tempo. Primi sono stati i tedeschi, che hanno sempre odiato il loro padiglione nazi-classicista e che hanno fatto di tutto per cancellarlo fisicamente; purtroppo, è ancora lì in piedi. Poi si sono accodati tutti gli altri, e oggi vediamo le facciate coperte da pitturazioni etniche o saturate di videowall o invase di suoni e oggetti a voler negare il tradizionale setting espositivo in nome di una sconcertante porosità. Non esiste miglior referto, a mio modo di vedere, circa l’inattualità di padiglioni e partecipazioni nazionali.
C’è poi una questione museale. Da anni ormai la Biennale ha assunto una diversa ambizione curatoriale, orientata ad ampi progetti tematici, a indirizzo storico e retrospettivo. Certo, sin dalle primissime edizioni le antologiche degli artisti più o meno celebri e gli omaggi postmortem non si contavano. Ma quella era un’altra cosa. Si trattava di retrospettive che, anche quando affrontavano temi ormai storicizzati (ad esempio, la mostra della metafisica nel 1948) basavano tutto sul valore dei singoli autori (per restare nell’esempio, la triade De Chirico, Carrà, Morandi) anziché su tematiche trasversali intorno a cui raccogliere autori canonici accanto a impervi ripescaggi o “scoperte”. Né le mostre tematiche che hanno punteggiato gli anni settanta e ottanta (Arte e natura, Ambiente/arte, Arte allo specchio, Arte e scienza e così via) si sono allontanate dal riepilogo a volte piuttosto convenzionale a volte molto meno del Novecento storico. Si era cioè lavorato nello spirito della New Art History: studiare in modo diverso opere e autori non lontani dalla vulgata modernista.
Qui invece si tratta d’altro. Forse la prima torsione in tal senso venne data dalla biennale del centenario, quella che condusse Jean Clair a organizzare la mostra dal titolo Identità Alterità. Figure del corpo 1895/1995. È lì che si è iniziato a mescolare un po’ tutto: il dipinto o la scultura tradizionali con il documento di archivio, il reperto antropologico con lo strumento scientifico, lo scrigno con la mandibola, eccetera. Solo che lì a mettere ordine e ragionevolezza – peraltro non senza polemiche – c’era Jean Clair. E non c’era la deriva della Theory e il postcolonialismo di Homi Bhabha invocati a sostanziare, come accade oggi, percorsi intellettuali meno solidi.
Si può denominare a seconda dei casi e delle mode, Enciclopedia o Archivio o Capsule del tempo o chissà cos’altro, ma quella è l’intenzione. Shakerare passato e presente, impilare monumenti e documenti e ornamenti confidando nella tenuta di un discorso ideologicamente angolato, con l’obiettivo di accostare alla campionatura del presente una ricostruzione dei precedenti storici che hanno condotto alla situazione attuale. E in particolare modo, nei paesi rimasti sostanzialmente estranei alla narrazione del modernismo. Cioè quasi tutti quelli non «occidentali».
Tutto questo va bene; ma tutto questo costituisce anche un problema. Anzitutto perché il Padiglione Italia e le Corderie non sono un museo: non ne hanno struttura e percorso, illuminazione e apparati, personale e servizi. A qualcuno può far piacere vedere opere ammassate senza troppo criterio in vasti ambienti con mura sbrecciate o travi annerite. A me no. Sono magnifici spazi di architettura industriale d’insuperata abilità costruttiva (e d’altra parte, li hanno tirati su secoli fa i capimastri veneziani…), ma questo non basta a garantire un adeguato standard. Soprattutto per opere concepite in tempi, luoghi e per pubblici assai diversi dagli odierni. Incontrare gli stalli bifacciali progettati da Lina Bo Bardi per il Masp di San Paolo in una sala scrostata e male illuminata delle Corderie è una mancanza di rispetto: per l’architetto che li ha disegnati, non una qualunque, e per lo spazio, non uno spazio qualunque, cui erano e sono destinati.
Non diversamente, se davvero volessimo rispettare il lavoro degli artisti di Yrkkala e di Dehli, di Accra e di Cujanicuilapa dovremmo concedere loro un respiro e un passo diverso. Dovremmo costruire narrazioni certo meno accattivanti rispetto allo spettacolare quanto banale accumulo sulle pareti, ma un po’ più coraggiosamente concepite. Accettando il fatto, per fare qualche esempio, che una certa irradiazione figurativa in Argentina, in Uruguay o in Cile è anche emanazione del gusto del Novecento portato lì (piaccia o meno, l’orgoglio nazionale non c’entra per nulla) dalle mostre della Sarfatti. O che la fortuna di autori come Max Ernst o Bernard Buffett, oggi smarrita nelle coscienze di non pochi addetti ai lavori, si era riverberata anche lì dove meno ce lo saremmo aspettati: nell’Indonesia di Fadjar Sidik, nel Libano di Samia Osseiran Junblatt, nell’India di – nome meraviglioso – Francis Newton Souza.
Ecco il problema: è tollerato, è consentito, o semplicemente è necessario riconoscere che dentro la pittura di Jewad Selim e di Ezekiel Baroukh si agita la linea del Picasso di Antibes? Che i deserti di Aref el Rayess non distano troppo da quelli ove s’aggirava perplesso Yves Tanguy? Che la Neue Sachlickeit rifulge ancora negli stupendi dipinti di Miguel Covarrubias, o che c’è stato un Armando Reveron (Caracas, 1889) che ha visto e rivisto l’Album Pascin? Oppure ci accontentiamo di qualificarli, come di volta in volta si legge, artista indigeno, militante femminista, attivista, emigrato/a e, come indicato nei cartellini, personalità che “espone per la prima volta alla Biennale”, suscitando così la più immediata quanto irriguardosa delle risposte (se è la prima volta, ci sarà pure stato un motivo, no?).
E se davvero volessimo capire qualcosa di più delle opere di interessanti pittori come Mohamed Melehi, Rafa al-Nasiri o Mohamed Hamidi dovremmo metterli a confronto con le illustrazioni di “Cercle et Carré”, dei “Cahiers d’art”, di Abstraction et création, insomma di tutte quelle esperienze che tra anni trenta e anni cinquanta hanno istituito una lingua franca internazionale fondata sull’astrazione geometrica, e di cui la Scuola di Casablanca resta esempio eccellente. Insomma, sarebbe il caso non solo di testimoniare o denunciare l’egemonia dei codici del modernismo europeo ma di provare a comprendere il fenomeno nella sua complessità. Qualcuno obietterebbe che così si replica l’errore di eurocentrismo. Ma invece affiancarli, come è stato fatto, ad artisti messicani o pakistani con cui condividono nulla, o affastellandoli senza alcun criterio (se non, appunto, il loro status di “stranieri”) che errore è?
Poiché infine voglio porre anche un problema di qualità, a scanso di equivoci lo faccio sull’opera di un autore italiano. Si tratta di un atroce Tobiolo del peraltro non indimenticabile Aligi Sassu. Opera che difficilmente avrei desiderato incontrare in una Biennale (d’accordo, si è visto anche di peggio) e che mai avrei pensato di veder accompagnato dal seguente testo (in catalogo, p. 294 ma anche online): “interpretazione di una classica scena biblica rinascimentale – che raffigura il memorabile incontro tra il giovane pescatore Tobia e l’arcangelo Raffaele – riecheggia la scultura in bronzo di Arturo Martini del 1934 dedicata allo stesso tema”. Difficile mettere tanta sciatteria e tanti errori in così poche righe.
Ecco, tale questione è quella che secondo me emerge più forte: soprattutto se accantoniamo le pretese curatoriali e accettiamo sino in fondo la sfida, e cioè provare a comprendere e a storicizzare seriamente i fenomeni culturali. Il fatto stesso che la mostra principale sia ordinata per sezioni assai generiche (Nucleo contemporaneo; Nucleo Storico; Ritratto; Astrazioni) per poi ordinare gli autori in ordine alfabetico, a guisa di pagine gialle dell’arte globalizzata, è una maniera elegante di eludere il problema, anziché risolverlo.
Certo, c’è da tempo una Global art history incaricata di spiegarlo, e naturalmente nemmeno una Biennale può far tutto. In fin dei conti è importante che Pedrosa abbia posto il problema, e sperare che la discussione possa andare avanti, magari senza troppo vergognarsi di aver letto da giovani Centro e periferia.
In copertina, Bamboo dell'artista brasiliana Ione Saldanha.