Come abitare la natura in un mondo snaturato / Contro gli stereotipi. Leopardi e il pessimismo
Una premessa. La lettura di Leopardi ha per me, come per molti, risonanze che rinviano all’adolescenza, all’incantamento dinanzi ad alcuni versi, alla recitazione pubblica e privata di quei versi, quando usava ancora mandare a memoria molte poesie della nostra lingua e qualcuna delle lingue straniere che si studiavano. Leopardi era anzitutto il poeta lunare, e il poeta delle domande estreme affidate al canto del pastore errante. Era il poeta della ricordanza, del colloquio col “caro immaginare”, con le parvenze sottratte all’oblio, tra queste la Silvia dagli “occhi ridenti e fuggitivi”. Era il poeta del fiore che, sorgendo sulla lava, tra le rovine, con il suo profumo consolava il deserto. Mi accadeva anche di sentire rappresentati in quei versi bellissimi il senso dell’indefinito, una forte tensione immaginativa, lo stato di malinconia che apparteneva alla condizione di attesa e di desiderio privo di risposte proprio dell’adolescente. La frequentazione di Leopardi ha anche, però, un’altra origine, anch’essa scolastica: ho insegnato per nove anni nei licei, appena dopo la laurea, e quando lavoravo su Leopardi m’accorgevo che il testo, così com’era, libero dalle interpretazioni sopravvenute, era una fonte ricchissima di suggerimenti e di provocazioni, soprattutto era una messa in questione di un orizzonte culturale prestabilito e convenzionale. Insomma c’era più sovversione e insieme più energia immaginativa e morale nelle singole Operette, nei Canti, nei Pensieri e nelle pagine dello Zibaldone di quanto la critica, nei suoi diversi schieramenti, riuscisse a indicare, anche laddove parlava di materialismo o di protesta. Risale a quegli anni la questione che poi divenne per me un impegno, se cioè non fosse necessario riproporre una centralità dei testi leopardiani, una sorta di nuova e forte presenza della scrittura in quanto tale, e questo contro una dominanza, forte in quegli anni, del pensiero critico intorno ai testi, delle formule critiche divulgate dai manuali, che finivano con appannare la freschezza e la vitalità del domandare e ricercare e inventare leopardiano. Si trattava di ascoltare, insomma, la vita del testo, il respiro di una scrittura.
Tra le formule critiche di più elevata divulgazione e più ostinate c’era, e sopravvive ancora, quella del pessimismo. Essa impedisce, proprio per la sua astrazione e genericità e infondatezza, di cogliere la relazione profonda che c’è in Leopardi tra la teoresi e la poesia, tra l’interrogazione filosofica e l’interrogazione poetica. È una formula, questa del pessimismo, compendiosa e astratta che finisce con allineare Leopardi a tanti pensatori diversi tra di loro, ed è passata nella critica, anche la più avveduta, via via usata per indicare o la caduta delle illusioni e il passaggio alla scoperta dell’amaro “vero”, o la percezione di un’universale condizione dolorosa. Da qui il divulgato uso scolastico: dal pessimismo soggettivo a quello storico a quello cosmico, l’avventura di un pensiero era fissata con chiarezza, tre momenti progressivi, adattabili benissimo a una scuola d’impianto idealistico-gentiliano.
Occorre osservare da vicino il costituirsi in Italia della tradizione critica leopardiana, per vedere se è rintracciabile lì una genealogia della formula pessimismo. E poi vorrei dire più in particolare della natura, della sua rappresentazione in Leopardi, e questo perché è proprio su questo grande tema della natura che l’idea e lo stereotipo del pessimismo si sono radicati, con la convinzione diffusa in quasi tutti i manuali che dopo il 1824 la natura per il poeta coincida con un’immagine matrigna, violenta, aggressiva, dominatrice, distruttiva.
Il primo momento del costituirsi di una tradizione critica importante è, mi sembra, il saggio del Sainte-Beuve del ’44, Portrait de Leopardi, uscito sulla “Revue des Deux Mondes”, all’epoca prestigiosissima rivista. Sainte-Beuve non indugia sul pessimismo leopardiano, ma presenta Leopardi soprattutto come l’ultimo degli antichi, le dernier des Anciens, come l’esempio di un poeta che nel cuore della modernità ha sperimentato le virtù, le passioni, la sapienza stessa degli antichi. Questa prospettiva ha, certo, sullo sfondo una romanità e una grecità perdute e osservate dall’interno di una modernità che è già quella della Comédie humaine di Balzac. A parte la buona ricostruzione della formazione leopardiana, della biblioteca, della passione per la filologia, ricostruzione condotta sulla scorta delle notizie fornite al critico francese direttamente dal De Sinner, professore in quegli anni a Parigi, le traduzioni di alcuni Canti che Sainte-Beuve incorpora nel saggio, dislocano per così dire il verso leopardiano dalla parte di Lamartine e De Musset. Sainte-Beuve infatti usa un alessandrino rotondo, teatrale, evocativo, solenne. La traduzione trasforma l’interrogazione leopardiana – alla luna, al tempo fuggitivo, alle “care immagini”, alle parvenze che salgono da un tempo irreversibile – in un’elegia dolce, rammemorante, dispersa nella vaghezza malinconica. Dunque appare un Leopardi contemplativo, poeta del dolore. Ecco, questo è il mito critico che a livello europeo, per il prestigio di Sainte-Beuve, si costituisce presto.
Poi accade qualcosa quando si diffonde in Europa la conoscenza della filosofia di Schopenhauer. È allora, sullo sfondo della filosofia di Schopenhauer, che si comincia a delineare l’idea di un pessimismo leopardiano: è una sorta di trascrizione forzata, o di assimilazione, insomma, a Schopenhauer. Ma vediamo allora il Dialogo di De Sanctis, il dialogo tra due personaggi napoletani, uno di stanza già a Zurigo e l’altro che arriva da Napoli, in fuga, perseguitato dalla polizia borbonica. Il Dialogo su Schopenhauer e Leopardi è scritto a Zurigo nel 1858 per la “Rivista contemporanea”. Secondo De Sanctis, se per Leopardi la materia è principio e sostanza, per Schopenhauer la materia è l’apparenza. Insomma, ribadisce De Sanctis: “L’uno è materialista, e l’altro è spiritualista”. È dunque l’antispiritualismo leopardiano che De Sanctis sottolinea con forza. Per Leopardi il piacere è in scacco dinanzi al desiderio (definito come una sorta di pulsione organica, che “termina soltanto con la vita”), così come il piacere di Schopenhauer è in scacco dinanzi alla volontà. È vero che una volta – una sola volta – nel Dialogo desanctisiano si nomina la parola pessimista: “pessimista”, “anticosmico”, e si aggiunge: come Salomone, come Schopenhauer. Ma proprio da quel momento comincia tutto uno scarto nei confronti del cosiddetto pessimismo cosmico. De Sanctis sottolinea l’asimmetria e la distanza più che le affinità di Leopardi col filosofo tedesco.
Le affinità sono solo tematiche, riguardano gli orizzonti dell’interrogare: la vita, la morte, l’infelicità, il piacere, il dolore. Ma per il resto, secondo De Sanctis, il pensiero di Leopardi è sostanzialmente lontano da quello di Schopenhauer, soprattutto per una relazione particolare che il poeta italiano ha con la vita, con il desiderio di rapportarsi a un’idea complessa, forte, di vita. Di questo Dialogo bisogna infatti ricordare il passaggio: “Perché Leopardi produce l’effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto.” Certo, De Sanctis è dentro un orizzonte “progressivo”, nel suo entusiasmo. E tuttavia coglie in Leopardi una mobilità del pensiero, un pensiero in stato di contraddizione, in stato di vitale contraddizione. L’“effetto contrario” è possibile perché Leopardi è per così dire in stato di desiderio (senza voler caricare questa parola della cultura desiderante degli anni Settanta) e ha del desiderio una visione per così dire biologica, insomma fa coincidere il desiderio con l’esistenza stessa. La pulsazione del desiderio corrisponde al respiro dell’uomo: infatti, come il respiro, dice il poeta, “nasce e muore con l’uomo”. Nel confronto con Schopenhauer, dunque, De Sanctis scorge la decisa differenza leopardiana situandola in particolare nell’elemento vitale e in quella che si potrebbe chiamare induzione al desiderio, a tenere aperto il desiderio. L’esito della lettura desanctisiana non è allora confinabile nel recinto del cosiddetto pessimismo.
Prendiamo ora uno dei tanti punti di confronto su questo terreno del pessimismo, quello della natura, e cerchiamo di muoverci secondo una percezione dei testi libero da convenzioni, da schemi prestabiliti, da quell’idea di natura benigna contrapposta, a partire dal ’24, alla natura considerata matrigna. Se consideriamo insieme i testi dello Zibaldone, delle Operette e dei Canti, e li guardiamo anche cronologicamente, vediamo che c’è una mobilità incredibile, c’è una compresenza di temi analoghi, sia nel ’20-’21, sia nel ’23-’24, sia nel ’26-’27 e ’28. Posizioni che precedono il famoso ’24 tornano dopo e posizioni ritenute caratterizzanti la fase successiva al ’24 sono presenti prima. Dunque Leopardi presenta sulla natura un pensiero in continuo movimento. Un pensiero che non sancisce mai una persuasione una volta per tutte, ma quella persuasione la riprende, la sfuma, la reintegra, la ribalta, la approfondisce. Il suo è un pensiero in costruzione, aperto verso integrazioni, riprese, ripensamenti, aggiustamenti, come del resto è tutto lo Zibaldone. Altro che salto e conversione e passaggio radicale!
E allora, brevemente, la conclusione che mi pare di poter trarre da questa lettura testuale ravvicinata e ordinata è che in Leopardi l’idea di natura si dispiega in un ventaglio amplissimo di situazioni, in una costellazione di forme visibili innanzitutto, ma anche di forme invisibili: la natura come fato (su questo Timpanaro ha scritto pagine molto interessanti), e qui c’è il rapporto con l’idea di natura degli antichi, la natura come necessità, come principio di conservazione, come bios, come circuito di produzione e distruzione (ovvio, qui, il riferimento alle Operette Morali). Ancora, la natura come vivente. L’orizzonte del vivente, la singolarità del vivente: una costante presenza teorica, questa. Corporeità e singolarità del vivente in rapporto con gli altri viventi. E questo in opposizione, in scarto, con un’idea di civiltà che è quella che Leopardi definisce come “spiritualizzazione delle cose umane, e dell’uomo”. La civiltà, progredendo, spiritualizza, scorpora, astrae, e invece la natura vivente è lì con la sua singolarità pulsante e desiderante. Il singolo uomo è vivente tra i viventi e per questo la sua presenza è in rapporto con la vita dell’universo. Non c’è pensatore, poeta, più cosmologico di Leopardi nella nostra tradizione. Fin dalla adolescenziale Storia dell’Astronomia, che ha pagine bellissime, la cosmologia leopardiana ha un forte senso del vivente. E del singolo in rapporto al cosmo. Un’idea alla quale via via si opporrà l’astrazione di una civiltà spiritualizzata, e per questo violenta, fondata sulle ideologie, sul conformismo, fatta di anonimia. Pensiamo all’ironia di Tristano sul tema delle masse, “questa leggiadrissima parola moderna”.
Cosa sono le masse se non composte da individui? Ecco, da una parte, l’idea di una certa modernità che annulla, tenta di annullare, il vivente, la singolarità del vivente. E dall’altra parte l’idea della natura come vivente. Ma anche l’idea di un’anteriorità lieta, solare: l’antico, il fanciullo, l’animale, tutto quello che spesso Leopardi chiama il naturale. E il naturale è anche proprio della poesia degli antichi. La poesia degli antichi è una poesia vicina alla natura. Ricordiamo la giovanile polemica leopardiana con i romantici milanesi che pretendono di imitare la natura in un’epoca in cui essa è incrostata dall’incivilimento, è lontana da noi. Gli antichi invece erano prossimi alla natura, e quindi bisogna leggere la poesia degli antichi per sentire questa prossimità alla natura.
Il naturale per Leopardi è, nella civiltà, in stato di oblio, di dimenticanza: è qualcosa che è stato rimosso, ma può tornare attraverso la poesia, per via della poesia. Il richiamo alla natura non ha la funzione di invito a un ritorno, a un nostos, ma è una soglia per la critica di ciò che la civiltà non vuole che sia naturale; una critica della “matematizzazione” dell’esistenza, una critica della ratio, che vuole conoscere tutto, tutto vedere, e finisce col non vedere nulla.
Torniamo a declinare ancora un po’ il ventaglio della rappresentazione della natura. C’è, ancora, in Leopardi, un’idea di natura come physis, che mostra, nell’arco mutevole delle apparenze, il ritmo delle stagioni ma anche il ritmo del nascere e del morire, in accordo con tutto ciò che è vivente. Un’altra idea di natura coincide con l’idea di esistenza, intesa in generale. L’esistenza per Leopardi è la vita che ama la vita, la vita che genera vita e quindi è il naturale fiorire delle cose, sia sensibili che non sensitive.
E c’è ancora un’idea della natura come una violenza che annienta gli individui, i popoli e le epoche. “Or dov’è il suono de’ popoli antichi?”. Nella Ginestra appare questa forza distruttiva della natura che abolisce ogni escatologia, ogni sogno, ma anche ogni memoria.
Ma c’è anche un’idea di natura come protezione del vivente e allo stesso tempo come insidia del vivente. Cura, e insieme corrosione, maternità dolce ma anche perversa, crudeltà di fanciullo: la natura come fanciullo che si trastulla con il vivente.
E ancora, la natura come creaturalità che si riconosce nel breve respiro, nella fragilità, ed è questo che unisce gli uomini e le cose. Questa creaturalità è presente in Leopardi anche con una sua funzione ironica nei confronti delle idee e dei comportamenti prevalenti in società. In un passaggio del primo dei Pensieri il poeta chiama “quasi creature d’altra specie” quegli uomini che, diversi dai “birbanti” che sono egemoni, non si accordano col pensiero della contemporaneità, cioè con quel pensiero che ruota attorno a due elementi centrali: il denaro e l’opinione. Un pensiero, questo, attualissimo. E sentiamo che il poeta appartiene a questa fragile e appartata creaturalità, non toccata dal cinismo e dalle mitologie dell’epoca.
La natura è anche l’orizzonte di una suprema sparizione, che attrae ogni cosa, la terra, i corpi celesti, le galassie. Sparizione cui può anche seguire una rinascita. Pensiamo sia al finale del Cantico del gallo silvestre sia a quello del Frammento apocrifo. Direi insomma che in Leopardi c’è, sia sul piano della teoresi sia sul piano del verso, da una parte una indagine sul sistema della natura – secondo l’uso settecentesco di indagare sul sistema della natura – dall’altra parte la preoccupazione, che nello Zibaldone è espressa in maniera molto esplicita, di non dimenticare il “poetico” della natura. In una pagina dello Zibaldone, Leopardi dice che i filosofi smontano il sistema della natura, e lo rimontano dimenticando il poetico, il meccanismo del poetico.
Quindi, se questa è la scena, se questo è un possibile lessico della rappresentazione della natura leopardiana, sviluppare un paradigma, una formula, uno svolgimento che vada dal bianco verso il nero, dalla maternità più rosea verso quella crudele, può avere qualche cosa di artificioso. Allora bisogna stare, a mio parere, nel frammento della pagina leopardiana, stare nella fisicità concreta del testo, di volta in volta, pur sapendo che Leopardi tende verso una costruzione; però questa costruzione non è mai sistematica, nel senso che la filosofia intende per sistema. Si tratta, quindi, di stare all’ombra, ogni volta, di un singolo testo, per vedere questo iter naturalis di Leopardi. Un iter naturalis che sempre ha presente sia la conoscenza filosofica e poetica della natura sia il libro naturale dell’universo. Fin da adolescente, nella scrittura della Storia dell’Astronomia, ha mostrato di avere costantemente presenti due libri: il libro degli uomini (la biblioteca) e il libro dell’universo. Da qui la sua passione cosmologica, e la sua attenzione a Galileo.
Per concludere, vorrei ricordare alcuni passaggi per così dire interrogativi della scrittura leopardiana (in un pensiero così complesso ci sono a volte delle domande che paiono rivolte a noi, a noi oggi). Per esempio, nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica a un certo punto, dopo aver polemizzato con la pretesa di rappresentazione mimetica della natura propria dei romantici milanesi, Leopardi si chiede come abitare la natura in un mondo snaturato, in questo mondo, cioè, in questa civiltà, che ha negato la natura, che s’è allontanata dalla natura, e per questo non la può più riconoscere (oggi aggiungeremmo: che ha inquinato, deturpato, stravolto la natura). Come abitare la natura in un mondo snaturato: una domanda all’altezza della nostra epoca.
Un altro passaggio che rimbalza verso il nostro tempo è nella pagina dello Zibaldone datata 7 giugno 1820, dove Leopardi dice che “la nostra rigenerazione dipende da una, per così dire, ultrafilosofia, che conoscendo l’intiero e l’intimo delle cose, ci ravvicini alla natura”. Questi, dice, potrebbero essere i frutti dei “lumi” del nuovo tempo, una conoscenza dell’intiero e dell’intimo. Cogliere, dunque, l’invisibile delle cose, e il loro legame col tutto. La stessa civiltà, per Leopardi, può avere, come effetto contrapposto alla spiritualizzazione e all’astrazione, la funzione di spingere verso una conoscenza che vada al di là del visibile. La civiltà, certo, spiritualizza, astrae, scorpora, ma induce anche a una conoscenza che può andare al di là del visibile perché affina il sentire e anche il vedere, e questa dovrebbe essere un’altra lezione dell’Illuminismo.
Ecco che Leopardi non piega la lezione conoscitiva dell’Illuminismo verso l’analisi o verso il sistema e neppure verso un’ideologia, ma la porta verso una conoscenza altra, nuova, verso la conoscenza dell’intiero e dell’intimo delle cose.
Altre due citazioni si possono ricordare che mettono profondamente in questione il pessimismo. La prima è dai Canti: “Natura umana, or come / Se frale in tutto e vile, / Se polve ed ombra sei, tant’alto senti?”. Come è possibile, in questa condizione di finitudine, di fragilità, in questa esposizione al declino, al vuoto, il sentire alto? Domanda aperta. E certamente non c’è ideologia che possa rispondere a questa domanda.
E l’altra citazione è quella di un passo dello Zibaldone (1 febbraio 1829) che mi ha sempre colpito. Si tratta di un pensiero in cui Leopardi dice della poesia come di un sorriso. E questo citando Sterne, una frase della lettera dedicatoria del suo Tristram Shandy. Ecco il passo leopardiano: “Dalla lettura di un pezzo di vera, contemporanea poesia, in versi o in prosa (ma più efficace impressione è quella de’ versi), si può, e forse meglio, (anche in questi sì prosaici tempi) dir quello che di un sorriso diceva lo Sterne; che essa aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita”.