Yokomizo, alfiere del giallo
Seishi Yokomizo nasce a Kobe nel 1902, lavora come editor, collabora a riviste e dal 1932 si dedica esclusivamente alla scrittura. Sulla facciata di una bottega a Tōkyō compare una foto di un gruppo di circa trentacinque persone accanto all’insegna «Hachimaki – Tempura». Costoro fanno parte del club degli scrittori di detective story e l’insegna è quella di un ristorante che confeziona frittura tempura, cioè quel piatto a base di verdura e pesce fritto con pastella.
Dopo aver raggiunto il picco di popolarità negli ultimi decenni dell’Ottocento, la narrativa poliziesca giapponese continua a prosperare, e gli anni venti e trenta sono un periodo fertile che vede presenti riviste come «Shinseinen» («Nuova gioventù») pubblicata fino agli anni cinquanta, che annovera autori di spicco come lo stesso Yokomizo che ne sarà il direttore, e pubblica anche traduzioni di racconti polizieschi stranieri. Alla fine degli anni trenta i cambiamenti politici, in direzione sempre più militarista e concentrati su un’aggressiva espansione, non giustificano opere basate su intrighi considerati immorali che celebrano perdipiù le morti di giapponesi e non quelle di avversari del paese. Quella letteratura si rifugia così nell’ angolo inoffensivo del giallo storico, il ‘torimonocho’, finché alla fine della guerra riprende con successo la scrittura “crime” creando le condizioni per quella che sarà definita la seconda età dell'oro del mistery giapponese. (cfr. S. Kawana, Murder Most Modern: Detective Fiction and Japanese Culture, 2008, D. Verzaro, Il mystery in Giappone, Literature Review 2016).
Yokomizo, già famoso prima della guerra, vedrà riconfermata se non accresciuta la sua popolarità e per quasi quarant’anni influenzerà il panorama culturale, specialmente quello audiovisivo. Rimane ancor oggi uno dei più famosi giallisti assieme a Seicho Matsumoto, definito il «Simenon giapponese», con all’attivo oltre trecento romanzi. Mentre gli scritti di Matsumoto portano il lettore in giro per l’arcipelago (i treni sono una costante nelle sue storie) e mostrano squarci del paese visto anche attraverso i ceti più bassi, le storie di Yokomizo invece si svolgono solitamente in un solo ambiente di cui vengono esplorati la storia e gli intrecci tra le famiglie, spesso altolocate.
Muore nel 1981 e solo un anno prima una casa editrice gli aveva intitolato un premio letterario con in palio milioni di yen, consegnandogli anche una statuetta della sua creatura, il detective privato Kindaichi Kōsuke. Comparso negli anni quaranta, protagonista indiscusso di varie decine di romanzi e di ben 24 film, tra cui i più noti Akuma no temari -uta (Ballata del diavolo) del 1977, Gokumon-to del 1977 (Isola degli orrori) e soprattutto Inugami-ke no Ichizoku (La famiglia Inugami) del 1976. Questi è un giovane malvestito, arruffato, apparentemente con la testa fra le nuvole, ma in realtà con un sesto senso superiore di fronte a casi in apparenza inestricabili. È un soggetto diverso, impacciato, anonimo, balbuziente, maniacale, pieno di tic, trasandato fino alla sciatteria tanto da venir scambiato talora per un mendicante e con un ufficio dal disordine costante. Una sorta di un anti-eroe lontano dagli stereotipi locali, un tenente Colombo della nota serie TV, alla giapponese. Lontano dal Poirot impomatato di Agatha Cristhie, dal Philo Vance inappuntabile di S.S. Van Dine, da Lord Whimsey nobile e snob di Dorothy Sayers, non vuole mostrarsi infallibile nel ricomporre i puzzle, ma ha la curiosità di scavare il lato umano, di sondare le ragioni delle azioni criminose.
Recentemente è uscito un romanzo di Yakomizo, Il detective Kindaichi e la maledizione degli Inugami (Sellerio, 2024), peraltro già tradotto dal francese con il titolo L’ascia, il koto e il crisantemo (Giallo Mondadori n 1969 del 1986), dopo il successo editoriale di altri titoli (Teatro fantasma, Fragranza di morte, Il detective Kindaichi, Locanda del gatto nero, tutti editi da Sellerio). La trama è intricata. Terminata la seconda Guerra Mondiale, l’illustre famiglia Inugami vive in una villa a Nasu sulle rive di un lago, quando Sahee, il grande vecchio, muore lasciando un vuoto di potere. Entra così in scena lo stazzonato detective Kindaichi per dipanare il garbuglio familiare sorto a causa dell’eredità. Secondo l’avvocato che lo ha convocato il testamento “contiene tutto ciò che serve per fare scoppiare un putiferio fra tutti gli eredi, scontri in cui il sangue non potrà che essere lavato con altro sangue”. Arrivato a Nasu, Kindaichi scopre che questo avvocato è stato ucciso, forse avvelenato, e ben presto si accorge che l’eredità è il motore di intrighi tentacolari. Il vecchio Sahee è morto lasciando tre figlie e quattro nipoti di cui tre maschi. In seguito compare avanzando pretese anche il figlio dell’unica donna veramente amata da Sahee, cui questi aveva regalato gli emblemi della famiglia (un’ascia, un crisantemo e la tradizionale cetra, il koto) e chi li avesse avuti avrebbe avuto titolo per amministrare il patrimonio familiare.
La donna però era stata costretta a disfarsene per sventare il pericolo che il figlio venisse eliminato come potenziale erede. Ad aumentare l’astio e la lotta di potere influisce il testamento secondo cui l’erede della maggior parte del patrimonio è la giovane e bella Tamayo, nata dall’ennesimo rapporto extramatrimoniale di Sahee, e quindi chi tra i nipoti l’avesse sposata avrebbe ereditato l’impero industriale. Compare poi, di ritorno dalla guerra con una maschera di gomma perché sfigurato da una granata, un altro nipote che si conferma tale grazie alle impronte digitali. La convivenza nel Palazzo è turbata dall’uccisione di svariati giovani, uno decapitato con la testa posta su un manichino tra i crisantemi mentre il corpo verrà rinvenuto nel Lago; un altro legato a una sedia e strangolato con una corda; un altro ancora collocato a testa in giù nel lago gelato con le gambe divaricate a simboleggiare un’ascia. Ma chi è quel soldato congedato dalla identità sconosciuta che si aggira nei paraggi della casa dimostrando di sapere forse troppe cose? Perché quel nipote mascherato rimane così indefinibile? Perché Tamayo ha uno strano comportamento quando lo vede? Perché qualcuno, dopo aver decapitato una persona, ne ha fatto sparire il corpo rischiando di essere visto? Chi si nascondeva nella casa di Sahee lungo il canneto lavandosi e mangiando nel bagno, unica stanza non visibile dall’esterno? Il romanzo ha la caratteristica di rimescolare continuamente le verità. Tamayo è una sfortunata donna oppure un’astuta calcolatrice? Si è sicuri dell’identità dell’uomo con la maschera di gomma? Come mai costui aveva esitato a lasciare le sue impronte per poi agire proprio per essere riconosciuto? E perché la madre di Tamayo assume le sembianze di una maestra di musica, saltuariamente in visita agli Inugami per fornire lezioni, così mostrando capacità di mascherarsi?
Gli osservatori non giapponesi hanno notato che quel Paese da sempre mostra due volti non sovrapponibili. Da un lato la maschera fragile e sottile, come una carta dipinta, del Giappone reale e dall’altro quella occidentale con i suoi stili e i suoi prodotti di consumo. Queste osservazioni valgono anche per la produzione poliziesca, pervasa da queste duplici linee di ispirazione, con relativi modelli narrativi che derivano dalla complessità del paese e dall’influsso esterno.
Il romanzo in esame è disperato come disperata era la situazione del Giappone di quegli anni devastati dalla guerra, con la famiglia Inugami che ne diventa una metafora come ricorda lo stesso Yokomizo (“dietro la storia c’è sempre un legame con la storia del Giappone”). Nelle pagine il giovane sfigurato in battaglia rientra a casa come i tanti militari dopo la resa. Le impiegate e le commesse durante la guerra vengono obbligate a lavorare presso negozi di abbigliamento o fabbriche di munizioni, come nel racconto “L’Orchidea nera” (in Fragranze di morte, Sellerio 2022). Nelle storie si racconta anche la miseria che spinge ad arrangiarsi, come per chi presta o affitta i bambini alle prostitute in strada per distogliere l’occhio indagatore della polizia.
Nei romanzi di Yokomoto sono evidenziate anche le istituzioni portanti del mondo giapponese come la religione. I fatti narrati in “Il Corvo” (Teatro fantasma) si trasferiscono dalla capitale a un paese rurale immerso nel mondo spirituale. L’azione si svolge in un eremo nei pressi di un santuario shintoista in declino, ma pervaso da un’aura di sacralità. Tale tempio è proprietà di una famiglia che attende da tre anni il ritorno del primogenito, scomparso o fuggito dopo aver lasciato una lettera enigmatica. Il mistero che si svolge nello spazio sacro si arricchisce di una dimensione spirituale, fondendo la fede nella divinità del santuario tra gli spazi montani. Una fuga inspiegabile dal perimetro del tempio sacro, una lettera criptica rinvenuta sull’altare, la blasfema uccisione di un corvo messaggero della divinità del tempio fanno penetrare in una vena esoterica. Il detective Kindaichi scopre una verità inaspettata, mentre sullo sfondo gli eventi sono mossi dalle passioni e dalle credenze di un Giappone ancora immobile, lontano dalla frenesia della vita cittadina.
I racconti sono diversi per ambientazione e personaggi, tenuti insieme dal tema del mistero. Emerge la descrizione suggestiva della società giapponese dell’epoca che getta la luce in particolare sui suoi coni d’ombra, sui suoi spazi marginali, sui traumi subiti, come la ferita ancora sanguinante della difficile esperienza bellica. La sua epoca sta svanendo, descritta con uno stile semplice, con dialoghi alimentati dalla “suspense” e sorretti dall’intento di dimostrare che a ingannare sono spesso le apparenze, caratteristiche non secondarie della società giapponese. L’ambiente delle grandi proprietà terriere, del resto, è un habitat ideale per le storie di Yokomizo. Le aree rurali funzionano come “camere chiuse” in cui misteriosi eventi e strani comportamenti dilagano, nascosti alla vista del resto del mondo. Le comunità di campagna funzionano come feudi autonomi, con il capo della comunità e i suoi parenti che agiscono come in una ristretta monarchia che governa la vita dei sudditi. Costui, Sahee, come il capofamiglia degli Hasuike in Il corvo, è l’archetipo del ricco industriale che si è fatto da sé, tipico del Giappone di fine Ottocento, operante in conglomerati industriali e finanziari che si rafforzano negli anni venti del Novecento. Attorno a loro si muovono giovani entrati nella famiglia per adozione o nipoti di rami cadetti e poi servitù d’ogni genere.
L’autore rappresenta la società giapponese con le sue ingiustizie, gli effetti della guerra, la trasformazione degli ambienti e dello stile di vita intrapresa nella seconda metà del Novecento. Non a caso si intercettano luoghi che hanno segnato la storia del Paese, come le ex colonie giapponesi nel continente asiatico, le zone adiacenti i bombardamenti atomici della seconda guerra mondiale, i castelli del periodo feudale cui subentrano le città sempre più sovrappopolate e in cui pullulano bordelli colmi di prostitute e gente di malaffare, nightclub con spogliarelliste e avventori privi di scrupoli. Viene mostrato un Giappone reduce dalla guerra totale che ha generato vittime, perdite finanziarie e traumi emotivi imparagonabili a quelli di precedenti conflitti e il sopravvissuto è costretto a adottare una nuova visione del mondo senza garanzie di stabilità. “Ero intento a scrivere questo romanzo quando avvertii il bisogno di visitare almeno una volta la casa in cui fu consumato quell’orrendo delitto” comincia così Il detective Kindaichi. “Fui evacuato in questo villaggio nella prefettura di Okayama nel maggio del 1945 e, da allora, tutti coloro in cui mi sono imbattuto mi hanno voluto raccontare il caso del koto stregato”.
Questo romanzo, come peraltro gli altri, mostra anche l’altra faccia del Giappone, cioè l’influsso letterario occidentale in quanto utilizza i meccanismi tipici del giallo europeo. Non li copia riproducendoli senza anima, ma li adatta alla realtà aprendo una finestra su quel mondo. Le uccisioni in famiglia per eliminare i pretendenti ricordano svariati romanzi, come il tema del ritorno dell’erede è diffuso in quello britannico. Altri elementi richiamano il romanzo occidentale: la morte di Wakabayashi, che aveva contattato Kundaichi, ricorda un romanzo di Agatha Christie (Aiuto Poirot) in cui a Poirot viene spedita una lettera in cui un tale lo convoca urgentemente e viene ritrovato morto. Il romanzo, non a caso, fu pubblicato a puntate nella rivista “ShinSeinen” negli anni trenta.
Vi è poi la questione della maschera e del mascheramento dei personaggi, secondo il meccanismo tipico del feuilleton citato in Il detective Kindaichi a p. 114 (Leroux, Mistero della camera gialla). I richiami a questo proposito sono molteplici, da Persone sconosciute di Edgar Wallace a Il visconte di Bragelonne di Dumas con il celebre l’Uomo con la maschera di ferro. Clamoroso poi è il ricorso al modello della camera chiusa. In Il detective Kindaichi l’indagine riguarda un delitto particolare. Gli Ichinayagi sono una famiglia ricca che in una grande dimora ha allestito i festeggiamenti per il matrimonio del figlio primogenito. Gli sposi si trasferiscono per la notte nella dépendance, ma nel primo mattino si sentono urla e lo zio della sposa si precipita sul posto con due uomini. La porta e le finestre sono sbarrate dall’interno, ha nevicato ma non compaiono orme nella neve. La scena all’interno è raccapricciante ed è evidente che l’arma del delitto sia la spada conficcata fuori nella terra accanto ad una lampada di pietra. Nella vicenda compare un personaggio ambiguo che sembra essere il capro espiatorio ideale: costui aveva chiesto indicazioni su come arrivare all’abitazione della famiglia e aveva un aspetto losco anche per una maschera sul volto che nascondeva una vistosa cicatrice e per la mano con tre sole dita. Guarda caso le impronte insanguinate nella dépendance erano di una mano con tre dita. La trama offre la possibilità di entrare in una casa giapponese tradizionale, con pennellate di colore nei luoghi, ma non solo. Il racconto si radica nell’enigma della “camera chiusa”, un classico in cui avviene un delitto in un luogo sigillato dall’interno per cui sul luogo l’assassino non può essere entrato né uscito. Sull’argomento si contano molteplici esempi a partire dal classico Il grande mistero di Bow di Zangwill del 1891, da I delitti della Rue Morgue di Edgar Allan Poe a Avventura del piede del diavolo di Conan Doyle, dal Il fantasma dell’opera e il Il mistero della camera gialla di Leroux, da La canarina assassinata di Van Dine a Le tre bare di Dickson Carr. Il romanzo fornisce a più riprese citazioni e riferimenti a libri o autori gialli d’Occidente. Quando incontra chi lo sta coadiuvando cita poi il romanzo Il problema di Thor Bridge di Conan Doyle (p. 172), indugiando anche sui romanzi di Dickson Carr Il cappellaio matto e Casa stregata (p. 116)
Yokomizo ha occasione di segnalare come la narrativa di genere non sia riuscita ad educare i lettori alla razionalità come strumento di lettura della realtà, per abbracciare una nuova idea di Giappone lontana dalla propaganda bellica. Con questo spirito lancia un appello: “La nostra attuale miseria deriva dal fatto che i giapponesi non leggono romanzi gialli quanto dovrebbero. Lo dico a rischio di sembrare egoista. Ma dobbiamo ammettere di aver trascurato di mettere in pratica il pensiero e l’agire razionale”. Quei romanzi hanno sostenuto il pensiero logico sin dalla loro nascita e quindi attenersi a loro rappresenta “un dovere per tutti coloro che si definiscono scrittori di romanzi polizieschi e dobbiamo scrivere romanzi per illuminare i nostri lettori. Solo quando tali opere si materializzeranno e molti sostenitori saranno disposti a seguire il nostro esempio, potremo iniziare a costruire una nuova cultura giapponese”.