Una cartografia / Artivismo: arte & politica
Tre altalene rosa infilate tra le sbarre della palizzata metallica che costituisce il muro tra il Texas e il Messico, coi bambini che, da una parte e dall'altra, vanno su e giù per venti minuti nel luglio 2019.
Un archivio che raccoglie le “impronte acustiche” dei primordi dell'evoluzione, cioè i suoni delle grandi foreste primarie, i luoghi ecologicamente più ricchi, incontaminati e minacciati del mondo.
Un gabinetto a secco, fatto con materiali di recupero, che usa acqua piovana, raccoglie i rifiuti e li trasforma in concime, ideata per essere costruita dagli abitanti di un'enorme baraccopoli di Caracas del tutto priva di servizi e fognature.
Un attacco hacker al sito del Whitney Museum che, per qualche minuto ogni giorno, annerisce lo sfondo e sostituisce le immagini delle opere con assi di legno, per protesta contro le violenze razziali.
Un centro temporaneo di socializzazione nel Bronx, fatto con piattaforme rudimentali, camminamenti e baracche di legno piene di citazioni (in inglese) di Gramsci.
Una nave della finanza francese acquistata e dipinta da un famoso street artist, che viene impiegata per operazioni di soccorso nel Mediterraneo.
Un quadrato inciso nel porfido di una piazza; accanto, una scritta in inglese: “Il Quadrato (square in inglese significa sia quadrato che piazza) è un santuario di fiducia e di amore. Entro i suoi confini tutti abbiamo gli stessi diritti e doveri”.
Cos'hanno in comune queste cose? Sono tutte opere d'arte, rappresentative di una tendenza diffusa da tempo per la quale è stato coniato il termine Artivism, ovvero art + activism. L'ultima, in realtà, non esiste: è stata inventata dagli autori di The Square, il film di Östlund vincitore a Cannes nel 2017 che è una caustica satira del mondo dell'arte.
Tutte però sono citate nel libro di Vincenzo Trione, Artivismo. Arte, politica, impegno (Einaudi, 2022), che è un'ampia ricognizione di questa tendenza, ovvero, per usare le suggestive parole dell'autore: una «cartografia mobile» di «un’anarchica e sovversiva costellazione, priva di nessi e di direzioni lineari, fatta di stelle lontane e disperse che, in una simultaneità inattesa, si intensificheranno, per illuminarsi a vicenda e, talvolta, convergere in alcuni punti focali».
La poetica descrizione ben si addice alla sconcertante eterogeneità della tendenza e alla complessità teorica del tema suggerito dal sottotitolo: il rapporto tra arte e politica. Dell'eterogeneità il libro rende ben conto; della complessità teorica, solo in modo implicito e nebuloso.
Secondo Trione, il fenomeno va letto come una reazione al «paradigma contemporaneo», cioè al sistema dell'arte oggi imperante, che egli descrive sintetizzando alcune analisi della sociologa Nathalie Heinich assieme alle solite critiche al sistema dell'arte: gusto per lo scandalo, elitismo, dissolvimento dell'opera in un gioco di discorsi, esasperazione dell'artista-brand; ma anche «miscela di cinismo, di interessi mercantili e di rivalità personali, realtà portata ad assimilare strategie proprie di settori come il marketing e il management». È un'interpretazione che di fatto identifica il paradigma contemporaneo, teorizzato in maniera molto più sofisticata da Heinich nel suo lavoro più recente (Le Paradigme de l’art contemporain, Gallimard, Paris 2014), col mondo dei mercanti d'aura, com'è stato definito da Dal Lago e Giordano.
Più condivisibile è l'idea che l'artivismo sia una reazione a due componenti storico-critiche dell'attuale mondo dell'arte, il postmodernismo e il concettualismo. Gli artivisti sarebbero accomunati dalla «necessità di dire le ragioni dell’impegno e della partecipazione, in polemica con la dilagante superficialità» connaturata all'estetica del postmodernismo; e condividerebbero una propensione per «la trasparenza della comunicazione», in contrasto col concettualismo e la sua idea di arte come «sistema esatto e autonomo, fermo e immune dal “fuori”».
Ma anche in questo caso, se si intende “postmodernismo” e “concettualismo” in modi più ampi e complessi, non si può non notare che l'impostazione concettuale (postduchampiana) o certi aspetti del postmodernismo (come la spettacolarità, l'ironia e il Kitsch) si ritrovano in molti degli artisti arruolati nell'artivismo, come ad esempio Weiwei, Haacke, Hirschhorne, Kentridge, Boltanski, Farocki, McCarthy (potrei aggiungere Cattelan, se non avessi qualche dubbio sulla scelta di Trione di inserire Him, l'Hitler bambino inginocchiato, tra le opere degli artivisti).
Queste puntualizzazioni toccano un aspetto più generale dell'approccio di Trione, sul quale torneremo più avanti.
Il pregio del libro è indubbiamente l'ampiezza e la ricchezza della cartografia, piena di artisti, opere, citazioni e commenti ispirati: un'esplorazione vasta e variegata della «rete di consonanze» con cui si manifesta l'artivismo.
Il primo capitolo, intitolato «Discorso sull'arte politica», ne delinea i tratti generali e la sua figura idealtipica con toni da vero e proprio panegirico: l'artivista è l'artista che esalta la potenza della visività con opere che sono «severi esercizi dello sguardo»; che libera «l’arte dalla sua cornice contemplativa per riportarla nelle dinamiche della Storia» e ne fa, come diceva Pasolini, lingua scritta della realtà; che sa coniugare arte e morale perché rinuncia «alle prerogative della soggettività, decretando una sorta di “evacuazione dell’io”, per celebrare la riscoperta dell’ambigua complessità del mondo»; che reagisce «al disincanto tipico della nostra epoca», si fa «cantore dei dannati della terra» e racconta con scritture del disastro i mali del mondo; che si fa interprete «soprattutto del volto piú perturbante della cronaca», riuscendo a superare il filtro dei media grazie a una politica della pietas.
Trione passa poi a descrivere l'artista come intellettuale, indicando in atteggiamenti molto lontani come «il coraggio di dire» di Fabio Mauri e Pasolini, e «la difesa della torre d'avorio» di Panofsky, i modelli che si ritroverebbero negli interventi pubblici di «artisti politici 2.0» come Ai Weiwei, Banksy e Hito Steyerl. Ne emerge una «filosofia» dell'arte politica che Trione sintetizza così: «L’arte. Ha il potere arditamente poetico di svelare lati del presente che noi, da soli, non avremmo né il coraggio né la forza di cogliere. Ed è un modo per prendere posizione. Per assumere un contegno. Per disciplinare una mimica. Per sperimentare un processo insicuro di effrazione. E per suscitare intensità affettive disturbanti: tensioni, gesti, reazioni».
A mitigare lo slancio retorico, segue l'osservazione che questi artisti sarebbero allo stesso tempo apocalittici e integrati perché sono protagonisti dell'art system ma lo criticano dall'interno, ne rivelano trucchi e imbrogli per cercare di cambiarlo. (In realtà, la posizione di Weiwei e Banksy è alquanto ambigua in proposito, come si accenna in altri punti del libro).
Interessanti e ben documentati sono i capitoli in cui la cartografia è ancorata a un tema preciso, i migranti e l'antropocene, o a un medium specifico, l'arte di strada.
Il capitolo su «Immaginari migranti» ha in esergo una frase perfetta di Camus: «C’è la bellezza e ci sono gli umiliati. Per quanto difficile sia l’impresa, vorrei non essere mai infedele né all’una né agli altri». Dopo un'introduzione impreziosita da espressioni poetiche e citazioni filosofiche di Agamben e Derrida, troviamo una ricca rassegna di opere e artisti, suddivisi in «cronisti» (con un excursus inaspettato sulla graphic novel africana), «poetici» e «monumentali». Le scelte estetiche degli artisti che si sono dedicati a questa tragedia epocale sono al solito molto varie: si va dal cinema di Amelio (Lamerica) e Crialese (Nuovo Mondo), al lavoro di documentazione del collettivo Multiplicity che nel 2000 presentò, sotto forma di installazione, la sua indagine sui 300 clandestini annegati al largo di Portopalo; dall'epico, lussuoso documentario Human Flow di Ai Weiwei, alla poetica installazione in memoria di Ustica di Christian Boltanski; dalla Map di Mona Hatoum, fatta con biglie di vetro disposte a terra a comporre un planisfero perennemente instabile, alla scaletta di Adrian Paci, dove si ammassano immigrati in attesa di un aereo che non c'è; dai rozzi e drammatici video-reportage in presa diretta di Laura Waddington tra i rifugiati di Calais, a Carne y Arena, il video immersivo in realtà virtuale di Iñárritu.
In modo simile è organizzato il capitolo sulle «poetiche dell'antropocene», punteggiato da varie citazioni di filosofia dell'ecologia. Ci sono le profezie della land art degli anni settanta e la recentissima bioestetica; gli artisti-scienziati e le spettacolari installazioni di Carsten Höller e di Tomas Saraceno; il recycled design e gli artisti-antropologi teorizzati da Bourriaud; la Biofilia di Björk e i cartelli pubblicitari inneggianti all’amore per la Terra di Yoko Ono. Molto suggestivo e originale è il lavoro sull'ecologia acustica di David Monacchi citato all'inizio e quello di Bernie Krause, che traduce visivamente i paesaggi sonori della natura selvaggia.
Ancora più ampio ed entusiasta è il capitolo sulla street art, che si apre all'insegna della Vita Activa di Hannah Arendt e di L'uomo in rivolta di Camus. Le loro riflessioni sono la cornice teorica in cui Trione inserisce questi artivisti, che non si limitano a testimoniare e per i quali l'arte è un modo di «intervenire concretamente nella realtà, contribuendo a modificarne aspetti e lati» e di «fare politica servendosi di altri mezzi». Degli street artist si ripercorre per sommi capi la storia: dalle gang di writers di New York dei primi anni settanta ai tanti artisti oggi attivi in molte parti del mondo, tra i quali spiccano Banksy (autore e finanziatore della nave citata all'inizio) e Blu, che hanno fatto dell'anonimato la loro «più grande creazione», ma con scelte molto diverse: il primo «dissacratore», ma «sensibile alle sirene del mercato»; il secondo «integralista» che rifiuta ogni compromesso col mercato (al punto da cancellare i suoi murali a Bologna, episodio stranamente non commentato nel libro).
La panoramica sugli street artists attuali mostra i tanti modi che questi artivisti inventano per fare «controinformazione visiva», per «risemantizzare gli spazi urbani» e per trasformare in «palestra del pensiero e delle immagini» i quartieri degradati delle città. È una delle zone predilette dal critico, a giudicare dalla lunga serie, quasi una litania, di espressioni poetiche che dedica ai graffiti (l'iterazione variata è uno stile tipico di Trione): «Grida di irritazione. Fulminee apparizioni […] grafi danzanti»; «esercizi imperfetti […] che sfidano il grigiore dei ghetti. […] Cifre violente e rabbiose […] Congelamenti di immagini vive. […] Paleografie in evoluzione […] Narrazioni collettive, rapsodiche e imperfette […] Capitoli di un anti-discorso […] Grafie illeggibili» di «scribi del caos».
Ma nella parte di inquadramento teorico la simpatia per la passione utopica degli street artists rischia di prendere un po' la mano a Trione: davvero gli street artists sono «al vertice di una lunga storia di sperimentazioni iniziate con le neoavanguardie novecentesche» e manifestano «l’essenza dionisiaca della postmodernità»?
Il lungo capitolo intitolato «Global Activism» riprende, con qualche ridondanza, il compito iniziale di «disegnare i contorni dell’orizzonte teorico dentro cui si situa l’artivismo, tra i piú controversi fenomeni artistici del nostro tempo, che vuole coniugare e collegare ambiti diversi e distanti: arte e attivismo, appunto».
Tanto diversi e distanti che soltanto la solita elasticità topografica consente a Trione di riunirli e delineare una tipologia: ci sono «le mistiche» che si richiamano alle poetiche della body art, come la guatemalteca Regina José Galindo; «i pedagogisti» come Michelangelo Pistoletto o la cubana Tania Bruguera; «gli urbanisti» che inventano «design della sopravvivenza» come il gabinetto (di Marjetica Potrč) citato all'inizio o costruiscono un proprio borgo su misura (Emir Kusturica); «i luddisti» come l'anonimo American Artist che ha hackerato il sito del Withney Museum; infine «i collettivi», che sono arrivati a conquistare uno dei vertici del mondo dell'arte: sarà infatti il gruppo di attivisti thailandesi Ruangrupa a dirigere la prossima edizione di documenta che si aprirà a Kassel in giugno. Nella mappa, un continente a sé merita giustamente Thomas Hirschhorne, i cui paradossali “monumenti” pubblici temporanei realizzati con caotici assemblage, come quello dedicato a Gramsci nel Bronx, ispirano a Trione un'altra delle sue sequenze poetiche.
Anche la parte critico-teorica nel libro tende spesso a seguire la modalità dell'accumulo. In questo capitolo, ad esempio, le idee sembrano cucite in un elegante bricolage di citazioni e parafrasi che puntano più a sedurre che ad analizzare e interpretare. Ci troviamo l'elogio della rivolta di Donatella Di Cesare; le elaborazioni teoriche dell'arte contemporanea come flusso e come «design politico» di Boris Groys; l'arte allo stato gassoso di Yves Michaud; l'opera come energeia di Agamben; l'idea di una communitas estetica di Esposito; l'ominiteismo e la demopraxia di Pistoletto.
In realtà, il vero maître à penser dell'artivismo è un pensatore meno recente e molto meno sofisticato: quel Camus che, all'inizio del capitolo, Trione parafrasa elogiando l'utopia degli artisti autentici che devono: «mettersi al servizio della libertà. Riscoprire il senso della propria missione nell’“ardore della battaglia” [...] intraprendere una lotta contro i disordini del mondo. Uscire dall’indifferenza. Per ricordarci che il futuro è di nostra competenza. Per far ritrovare all’arte “la sua forza e la sua nobiltà”. E favorire l’avvento di una società in cui, secondo la profezia di Nietzsche, regneranno non i giudici ma i creatori».
In fondo, è proprio questa passione utopica che si sente irradiare in quasi tutto il libro (emblematico è l'aneddoto personale al funerale di Berlinguer ricordato nei ringraziamenti finali). Una passione che, mettendo in sordina la riflessione critica, tende a dare un'identità fin troppo generica e positiva alla mappa dell'artivismo.
Trione però è ben consapevole della complessità e della polisemia della coppia arte-politica. Per questo nella parte finale del libro inserisce un «Controdiscorso sull'arte politica» che bilancia con un po' di ombre il ritratto tutto in luce delineato finora. Prendendo spunto dalla caustica satira del film The Square, Trione elenca i rischi dell'artivismo: «demagogia, perbenismo pedagogico, puritanesimo gauchiste, impegno prêt-à-porter, furba e strumentale militanza [...], facile moralismo, adesione al politically correct, appello a presupposti etici condivisibili da tutti, una certa indignazione posticcia». Ad essi aggiunge l'anestetizzazione della sensibilità «davanti al dolore degli altri» (come recita il titolo di un libro di Susan Sontag) e la spettacolarizzazione delle tragedie (e qui punta il dito su Salgado e McCurry, e sul kolossal Human Flow di Ai Weiwei).
Per sfuggire a queste sabbie mobili, Trione propone di guardare all'esempio di alcuni artisti già incontrati e soprattutto alcuni grandi maestri, con cui allestisce il suo museo immaginario di arte politica, tra cui: Anselm Kiefer, Hans Haacke, William Kentridge, Christian Boltanski, Harun Farocki, Shirin Neshat, Kara Walker, Jeff Wall (per il suo Dead Troups Talk). Questi artisti «non trascinano la politica nell’arte, ma guardano alla politica attraverso la lente d’ingrandimento dell’arte». «Si pongono in ascolto dei sussulti del nostro tempo e, insieme, compiono una discesa negli inferi dell’io, attenti a porsi in ascolto di quel che sussurrano i demoni del cuore». La loro pratica non ha una funzione meramente comunicativa», ma si basa sulla «convinzione che la conoscenza di un determinato evento, per essere estetica, debba abdicare a ogni legame immediato con quello stesso evento».
Il museo immaginario di Trione sembra dunque suggerire una scelta critica nella mappa elastica dell'artivismo. Ma l'impressione è che questo controdiscorso sia un modo per arruolare anche questi artisti «impolitici», come li chiama Trione, nella cartografia ecumenica dell'artivismo attuale.
Nell'epilogo, infine, si scopre che perfino fuori della mappa ci sono artisti che fanno politica: la fanno testimoniando in silenzio, che è forse «il senso piú alto dell’esperienza della testimonianza». Perché il loro silenzio «si oppone al rumore, ma non annulla il linguaggio – lo trascende. [...] E svela verità prive di suoni». Non è indifferenza né diserzione, ma «una scelta poetica e, insieme, politica», perché «in alcuni stati di eccezione, l’arte [...] si dà innanzitutto come negazione; e manifesta la propria responsabilità (anche) nell’annunciare l’irrappresentabile».
A supporto, Trione estrapola una bella citazione da un denso testo filosofico di Agamben sulla testimonianza, la cui verità «non dipende da ciò che dice, ma da ciò che tace, dal fatto che essa porta alla parola un ammutolire». E conclude in bellezza con una famosa quartina di Montale: «Non domandarci la formula che mondi possa aprirti | sí qualche storta sillaba e secca come un ramo. | Codesto solo oggi possiamo dirti, | ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
Alla fine, l'ardua questione del rapporto tra arte e politica continua a rimanere nell'ombra. L'arte può fare politica? O, quando si fa politica, diventa comunicazione e propaganda? Si può distinguere – e in che modo – tra arte politicamente impegnata e politica artisticamente comunicata? L'artista che voglia incidere nel mondo deve accantonare i suoi strumenti e rinunciare alla sua forma di vita peculiare? O solo restando fedele alla sua forma di vita può contribuire, nel suo piccolo, a “salvare il mondo”, come dice Borges dei suoi Giusti?
Qui ritroviamo il problema generale del libro accennato all'inizio: la visione ecumenica di Trione lascia in sospeso uno dei compiti della critica, che dovrebbe essere quello di proporre strumenti per capire, distinguere e valutare.
In epigrafe ad Artivismo l'autore ha posto una famosa frase di Baudelaire: «Perché abbia la sua ragion d’essere, la critica deve essere parziale, appassionata, politica, vale a dire condotta da un punto di vista esclusivo, ma tale da aprire il piú ampio degli orizzonti». Se però leggiamo il seguito di quella citazione, scopriamo che per Baudelaire quel «punto di vista più ampio» era «l'individualismo» dell'artista, «l'espressione sincera del suo temperamento, soccorsa da tutti i mezzi che gli vengono dal suo mestiere». La passione del critico, e la qualità poetica della sua scrittura, dovrebbe rispecchiare la passione e l'individualità che il singolo artista sa manifestare con i suoi strumenti. Se è così, allora il senso “politico” della critica non dovrebbe essere confuso con l'impegno politico dell'artivista.