Conversazione con Linda Dalisi / Latella: chi ha paura di Edward Albee?
Una coppia di mezza età (George e Martha) riceve in casa propria un’altra coppia più giovane (Nick e Honey). Nello spazio di una notte, tra i fumi dell’alcool che si addensano in un claustrofobico salotto, si consuma un gioco al massacro in cui i coniugi padroni di casa danno sfogo ai reciproci rancori, mentre i due ospiti vengono travolti da uno spettacolo che sembra prefigurare il loro stesso destino. È la trama, arcinota, di Chi ha paura di Virginia Woolf?, un classico della drammaturgia americana scritto da Edward Albee nel 1962, il testo più conosciuto del drammaturgo statunitense. Autore di oltre trenta testi e vincitore di tre premi Pulitzer e di due Tony per il teatro, Albee ha diviso fino alla fine la critica, mancando l’obiettivo (che forse neppure si era mai posto) di sedere comodamente sugli scranni del canone novecentesco. Nel caso specifico dell’Italia di questa sbiadita tradizione è testimone, peraltro, una certa disattenzione del mondo editoriale. Risale ormai a qualche decennio fa l’ultima edizione Einaudi del suo Teatro (oggi fuori catalogo) e l’unica traduzione di Who’s Afraid of Virginia Woolf? – che invece è stato regolarmente ripubblicato ed allestito – è di Ettore Capriolo, datata 1970. L’unica fino a oggi, perché nella prima data utile Antonio Latella porterà al debutto il suo nuovo lavoro, dedicato proprio al capolavoro di Albee in una nuovissima traduzione, ancora inedita, di Monica Capuani. Allestito a porte chiuse, lo spettacolo – una produzione del Teatro Stabile dell’Umbria con il contributo speciale della Fondazione Brunello e Federica Cucinelli – vede in scena Sonia Bergamasco, Vinicio Marchioni, Ludovico Fededegni e Paola Giannini: un cast “sorprendente” anticipa Latella, che con Albee continua il suo percorso d’indagine nella drammaturgia americana novecentesca. Aspettando il debutto, Linda Dalisi, drammaturga e collaboratrice di lungo corso del regista, ci racconta il suo viaggio nel testo di un autore che la critica ha forse troppo facilmente liquidato come gemello americano di Pinter.
Cosa fa una drammaturga quando non è chiamata a scrivere un nuovo testo, né a curare un adattamento?
Un po’ per scherzo con Antonio Latella parliamo di una specie di gioco del detective. Proprio come nei polizieschi, io ho un oggetto d’indagine, un testo e il suo autore, e stendo su una serie di lavagne tutte le informazioni e i dettagli che trovo. Nella prima fase delle prove condivido le mie scoperte con la compagnia, introduco attori e attrici nel mondo dell’autore che dovranno portare in scena, racconto loro una storia che in qualche modo li metta al lavoro. Poi il mio lavoro di ricerca e restituzione è orientato da quello che succede in prova: il materiale che porto fa partire discussioni tra il regista e gli attori, vengono fuori parole chiave, questioni nuove a cui magari non avevo pensato, e allora torno a pescare nel mio arsenale di letture, ricerche, scoperte e connessioni, per portare ulteriori contributi, magari altre opere dell’autore che chiariscono certi passaggi, oppure testi di altri scrittori che lo hanno conosciuto, o perfino opere del tutto estranee che in qualche modo possono arricchire una questione che ci interessa, farla risuonare diversamente.
Mi pare lei stia descrivendo il lavoro del Dramaturg.
Esatto. In alcuni casi mi è richiesto di scrivere o riscrivere un testo (per esempio la drammaturgia della Valle dell’Eden era un adattamento teatrale del romanzo di Steinbeck), ma in altri casi come in questo si tratta di far emergere un mondo, anche se il testo di partenza esiste già, è compiuto e resterà intatto. Non è mai lo stesso lavoro, di fronte ad autori arcinoti come Shakespeare, per esempio, non conta tanto raccogliere dati biografici, quanto esplorare l’eredità della sua opera. Infatti per Hamlet (spettacolo allestito l’anno scorso e ancora in attesa di debutto, ndr) Antonio mi ha chiesto di fornire alla compagnia una panoramica sulle più importanti regie del Novecento.
Come è entrata nel mondo di Albee?
Dalla biografia scritta da Mel Gussow. Bellissima, meriterebbe una traduzione in italiano. Albee non scriveva appunti né diari durante il lavoro, quindi non c’è altro modo di entrare nella sua officina creativa se non attraverso le sue opere e i racconti e le testimonianze altrui. Il suo processo di scrittura è quasi tutto interiore. Lui stesso racconta nelle interviste (alcune delle quali raccolte con altri scritti nel volume Stretching my mind apparso nel 2006) che comincia a scrivere solo quando le opere sono già pronte dentro di sé, dopo un lungo periodo in cui le ha covate nell’inconscio e poi nella memoria, e ha messo alla prova personaggi e storie nella sua immaginazione. Peraltro, a proposito della totale assenza di diari e quaderni, Albee ha più volte dichiarato la sua contrarietà a un approccio intellettualistico al lavoro creativo. Quando Gussow tenta di stabilire connessioni tra i testi e alcuni passaggi della sua vicenda biografica, Albee lo ferma subito perché dal suo punto di vista non ha alcun senso cercare queste corrispondenze: la sua vita è in tutte le sue opere – dice – lui è in tutti i suoi personaggi, anche quelli che gli assomigliano meno. In verità alcune consonanze emergono chiaramente, per esempio il rapporto fortissimo con la madre adottiva raccontato nella biografia è fortemente riconoscibile in Three Tall Women, un testo della maturità.
Cosa mi dice dell’enigmatico titolo dell’opera che avete allestito? È un mistero irrisolto del Novecento teatrale: la Virginia Woolf citata nel titolo non c’entra poi niente con l’opera in sé. Almeno apparentemente.
Ognuno ci legge il significato che vuole, non può essere diversamente. Latella ha chiesto a più riprese agli attori chi fosse per loro la Virginia Woolf di Albee, il “lupo” spaventoso della canzoncina che ricorre nel testo. Forse la paura della paura? La paura di essere rivoluzionari? Noi abbiamo inseguito delle piste che ci sembravano interessanti ma senza cercare risposte definitive. Si racconta che Albee avesse letto la frase “Who’s afraid of Virginia Woolf?” in un bar. È un fatto meno noto che l’autore avesse chiesto il permesso di usarla in un’opera teatrale direttamente al marito della scrittrice, che non solo glielo aveva entusiasticamente accordato ma dopo aver assistito allo spettacolo a Londra gli aveva anche scritto una lettera suggerendogli di leggere Lappin e Lapinova, un racconto di Woolf in cui una coppia sposata dà vita a una sorta di finzione in cui sono rispettivamente un re coniglio e una regina lepre, e il matrimonio sopravvive solo finché si rapportano l’uno all’altra all’interno di questa cornice di fantasia. Albee non conosceva questo testo, eppure le risonanze con il rapporto tra Martha e George sono evidenti. È una connessione involontaria, non intellettualistica, ma scoprirla per noi è stato comunque illuminante. In fondo, lo dice lo stesso Albee, il processo creativo è magia nera. È impossibile avvicinarsi troppo, rimane comunque pericolosamente inafferrabile.
Quindi perché cercare simmetrie tra opere e biografie degli artisti?
Perché si scoprono aspetti interessanti del rapporto che gli autori hanno con la scrittura. Fanno capire, almeno in parte, come hanno messo la propria vita in letteratura.
E la regia cosa se ne fa?
Regia e interpreti possono prendere quello che vogliono dalle ricerche che io porto in dote al lavoro. I materiali che consegno non costituiscono un’intelaiatura intellettuale su cui si fonda poi la regia. Non c’è né ricerca di verità né filologia. Nel terzo atto Martha dice che suo figlio (un figlio immaginario) ha arco e frecce sotto al letto: scoprire che Albee da bambino aveva arco e frecce sotto al letto perché aveva paura non cambia niente dal punto di vista della regia, ma per gli attori e le attrici può essere un elemento utile. Rispetto a Virginia Woolf, anche se nella drammaturgia abbiamo evitato accuratamente di istituire collegamenti diretti con lei, abbiamo comunque esplorato in qualche modo il suo mondo. Su richiesta di Antonio, ogni giorno ho portato un frammento da un testo dell’autrice. Ho cercato molto nei suoi diari, là dove si confronta con il suo essere scrittrice, per esempio quando dice “Affronterò il tema della bellezza e l’estasi divamperà in me quando mi difenderai nell’essere sì una cattiva scrittrice, che è proprio ciò che sono, ma una scrittrice onesta, mossa dalla pulsione di una balena che in uno sbuffo si spinge fuori dall’acqua in superficie. Tale è il mio sforzo di trovare una frase. E poi dicono che scrivo divinamente?”. Non sono testi da usare, sono inneschi per attivare l’immaginario, poi con questo carico ognuno ha fatto suo viaggio nel testo.
Anche lei?
Certo, io sono nel gioco. Verso la fine delle prove, proprio guardando lavorare gli attori, mi si è accesa una lampadina del tutto personale rispetto a quest’opera. Secondo me Chi ha paura di Virginia Woolf? è il testamento creativo di Albee, è un testo in cui racconta, senza raccontarlo, il funzionamento del suo processo creativo. Pensiamo ai titoli dei tre atti: Gioco, La notte di Valpurga, Esorcismo. Sembrano le tre stazioni di un atto creativo: l’inizio di un viaggio di fantasia, la fase rituale in cui accadono tutte le cose e la fine del processo, quando si uccidono i fantasmi incontrati per poter tornare a vivere.
Mi pare che l’ontologia dell’atto creativo sia proprio un tema caro a Latella. Quindi forse oltre all’ossessione per la drammaturgia americana novecentesca che racconta l’illusorietà del sogno a stelle e strisce, in questa scelta di portare in scena Albee c’è qualcos’altro.
Sicuramente. Chi ha paura di Virginia Woolf? è un testo generalmente trattato come testo realistico ma sotto la pellicola della verosimiglianza c’è un rapporto fortissimo con l’assurdità. Tra l’altro, da questo punto di vista, Chi ha paura è un testo misurato rispetto agli altri di Albee. In tutta la sua produzione c’è una volontà famelica di sperimentare, di mettere alla prova il linguaggio, sempre in direzione di una accentuata musicalità. La sua punteggiatura è ricercatissima.
Qual è il leit motiv delle sue opere?
Una lucidissima osservazione della rete di convenzioni e illusioni in cui siamo intrappolati. Credo che in ogni testo torni a domandarsi “Chi sono io?”. L’ultimo lavoro, Me, Myself and I del 2007 lo suggerisce già nel titolo, ma fin da The Zoo Story del 1958, il suo primo lavoro, mi sembra di poter rintracciare una disperata ricerca di contatto con la vita. Tra l’altro la ricerca di una voce autentica è stata per lui assai lunga e faticosa. The Zoo Story è arrivato dopo dieci anni di false partenze, di tentativi di scrittura senza sbocco. In un’altra biografia a lui dedicata, a firma di Matthew Roudané, sono raccontati alcuni incontri cruciali, come quello con Thornton Wilder, che una volta, dopo aver letto le poesie del giovane Albee, le fece scivolare una dopo l’altra sull’acqua, dal porticciolo in cui si erano incontrati, invitandolo a scrivere qualcos’altro, qualcosa che gli assomigliasse di più, magari un testo per il teatro. E a un certo punto – racconta Albee – le cose sono andate proprio così: si è letteralmente obbligato a stare seduto a un tavolo, davanti a una macchina da scrivere rubata, a scrivere qualcosa in cui potesse riconoscersi davvero. The Zoo Story appunto: un atto unico che racconta l’incontro a Central Park di due sconosciuti.
Una storia di solitudine e incomunicabilità. In molti autori e autrici della seconda metà del secolo scorso il desiderio estremo di vita sembra essere il rovescio della medaglia di opere che trasudano non-sense, crudeltà, rabbia. Penso a Beckett, a Pinter ma anche a Sarah Kane.
Letto in questa chiave, Chi ha paura di Virginia Woolf? è un testo sulla ricerca d’amore. Sullo sfondo c’è sempre il sogno americano, un sogno bugiardo che dispensa false promesse. Nell’opera precedente, The American Dream, Albee aveva trasformato questo sogno in un personaggio in carne e ossa. Bellissimo, ma sterile, impotente, senza sentimenti. Allora, sembra dire l’autore, tanto vale vivere la vita per quella che è, come arriveranno a fare George e Martha. Non sappiamo che cosa succederà all’alba del giorno che sta nascendo quando il testo si chiude, ma di certo dopo quella nottata alcolica e massacrante l’illusione sembra essere caduta. A me piace pensare che quell’esorcismo notturno sia foriero di una rinascita (peraltro Esorcismo era il primo titolo a cui l’autore aveva pensato per quest’opera). In fondo la concomitanza di morte e rinascita, la morte come opportunità di affrancarsi dalla menzogna e tornare a vivere nella luce, è un altro tema ricorrente nelle opere di Albee e forse anche di Woolf. Nel penultimo giorno di prove è successa una cosa quasi magica. Antonio ha misteriosamente deciso, a montaggio ormai concluso, di aprire a un ultimo momento di dialogo, e a me è venuto da leggere un testo che avevo lasciato da parte, un frammento da Gita al faro in cui la Woolf pone domande che risuonano – almeno per noi – nel finale del testo di Albee: “Di che cosa si trattava, dunque? cosa significava? Potevano le cose spinger fuori le mani e afferrarti; poteva tagliarti quella lama; il pugno stritolarti? Non c’era sicurezza? Nessuna possibilità di imparare a memoria gli usi del mondo? Nessuna guida, nessun rifugio, tutto un miracolo, un salto nel vuoto dal pinnacolo di una torre? Poteva essere questa, anche avanti con gli anni, la vita? – spaventosa, inaspettata, sconosciuta”.
Tutte le fotografie di questa intervista sono di Brunella Giolivo (nell’ultima immagine: Sonia Bergamasco).