Wolfgang Streeck: neoliberalismo, e poi?
“La resistenza delle élite in crisi e delle loro scuole di pensiero prive di senso della realtà sembra non avere limiti. Persino in tempi di crisi, esse insistono nel mantenere la propria rotta, una e un’altra volta, convinte davvero di poter sfondare il muro al prossimo tentativo, con una testa dura come il cemento”. Lo scrive Wolfgang Streeck in questa sua ultima opera tradotta in italiano, Globalismo e democrazia. L’economia politica del tardo neoliberismo (Feltrinelli, 2024, pag. 410). Il cui titolo potrebbe essere in realtà capitalismo e democrazia, posto che da sempre il capitalismo moderno e industriale ha problemi con la democrazia; e che il globalismo – un mercato sempre più grande e soprattutto sempre più integrato – è nel determinismo del capitalismo e non una sua novità contemporanea – e di globalizzazione scrivevano infatti già Marx ed Engels nel 1848, non molto diversa da quella di oggi.
Ma cos’è allora questo capitalismo che governa la nostra vita intera – e che ha colonizzato ormai tutto il globo e che trae profitto oggi anche dalla nostra vita emotiva e relazionale (è sempre alla ricerca di nuovi mercati da sfruttare, oggi anche la psiche umana e la socialità; e ci riesce sempre, noi non vedendo o non volendo più vedere criticamente i processi di accumulazione e di accrescimento del capitale) – capitalismo che è la causa prima della crisi sociale, ambientale/climatica e oggi anche bellica di un mondo che torna in armi per il profitto del complesso militare industriale? Scrive Streeck – che è direttore emerito del Max-Planck-Institut per lo studio della società e professore di Sociologia all’Università di Colonia: “Il capitalismo, come è noto” – in realtà sembra che tutti ce ne siamo ormai dimenticati, accettandolo come un dato di fatto eterno e quindi immodificabile e non come un processo di una certa fase storica e quindi superabile, tanto che neppure la crisi climatica riesce a farcelo mettere in discussione – il capitalismo dunque “consiste nella moltiplicazione infinita di un capitale pronto e disponibile a moltiplicarsi. Una società a gestione economica di tipo capitalistico deve avvalersi di membri disposti a farsi trascinare in tale sistema, seppure il risultato dei loro sforzi e della tensione al miglioramento loro richiesta finisca, secondo la natura del capitalismo, nelle mani di una piccola minoranza in forma di proprietà privata”. E dopo la grande crisi mondiale della prima metà del ‘900, esso è persino riuscito ad avere “il sostegno dei suoi oppositori, grazie ad ampie promesse di sviluppo politico ed economico”. E furono i Trenta gloriosi, come li chiamano i francesi, gli anni dal 1945 agli anni ’70; o il post-war settlement, il consenso postbellico che ha garantito al capitalismo, tra politiche economiche di natura keynesiana e politiche sociali (il welfare state) di continuare i processi di accumulazione illimitata del capitale.
Un processo che si interruppe con gli anni ’70, dando avvio alla rivoluzione (o forse sarebbe meglio dire controrivoluzione) neoliberale, “che prese d’assalto lo stato democratico nazionale quale luogo del compromesso sociale” tra capitale e lavoro “del secondo dopoguerra”. Per questo e sempre per garantire al capitale la continuazione dell’accumulazione con altri mezzi – appunto il neoliberalismo invece del keynesismo in crisi – “si resero necessarie tecniche motivazionali più avanzate”, con l’obiettivo “di costringere chi lavora a maggiori sforzi e a una più docile disponibilità a adattarsi alle mutevoli condizioni di mercato e all’emergere di una mutata forma di governamentalità”. Ed era nell’essenza del neoliberalismo – ad esempio con Walter Lippmann – considerarsi l’unica filosofia capace di far adattare, con le buone o con le cattive, le società alle esigenze dalla rivoluzione industriale e della divisione del lavoro; ovvero: l’uomo non è un soggetto libero, capace di costruire un suo mondo, ma deve semplicemente e docilmente adattarsi (quindi, addio libero arbitrio, addio illuminismo, addio soggettività, addio libertà) alle esigenze del capitale.
E tutti si sono adattati, perché le tecniche motivazionali del neoliberalismo erano decisamente accattivanti – supportate e promosse da tanti intellettuali, organici al Principe neoliberale e alle sue oligarchie industriali e finanziarie e oggi tecnologiche. Tecniche motivazionali – noi preferiamo human engineering – in realtà totalmente false e falsificanti, come libertà individuale, essere imprenditori di se stessi, valorizzare il proprio capitale umano, egoismo e narcisismo e tanto divertimento e godimento e tanta irresponsabilità sociale e politica… – e il modo migliore per imporre l’illibertà è infatti offrirla come libertà, e rinviamo a Günther Anders e oggi a Byung-Chul Han.
Ovvero, “la rivoluzione neoliberale”, tornando a Streeck, “ha sostituito il progresso sociale quale incentivo al lavoro, con sentimenti di paura e insieme di bramosia” e le oligarchie capitalistiche (personalmente preferiamo oligarchia a élite) hanno ottenuto un nuovo consenso delle masse in nome del neoliberalismo, dell’individualismo e della competizione invece della solidarietà e della giustizia sociale keynesiana, producendo in altro modo i rapporti sociali (o meglio: asociali e anti-democratici) di cui necessitava. Ha cioè “trasformato i cittadini dello stato sociale, dotati di propri diritti, in lavoratori impauriti e in consumatori fedeli al contempo, mossi da apprensione per la propria esistenza e trascinati da un’offerta sempre nuova e maggiore di beni di consumo, imposti come obbligo sociale”. Ma questo progetto – come quello, complementare, di sostituire il mercato alla politica e alla democrazia – “si è inceppato”, producendo una distribuzione sempre più diseguale della ricchezza comunque prodotta. E oggi, “nessuno sa come realisticamente porre fine a questa rivoluzione e crollo delle aspettative. E neanche le nuove promesse capitalistiche di progresso riescono più a guadagnarsi la fiducia di nessuno; come la cosiddetta digitalizzazione” – anche se, chiosiamo, l’investimento propagandistico che il capitalismo sta producendo per farci adattare al digitale e all’IA è gigantesco e sembra produrre i frutti desiderati (dal capitale).
E allora forse non è vero, come invece scrive Streeck – e ricordiamo i suoi precedenti libri tradotti in italiano: Tempo guadagnato (2013); Come finirà il capitalismo (2021); Oltre l’austerità. Disputa sull’Europa, in dialogo/confronto con Habermas (2020) – “che l’allargamento dell’economia capitalistica ha raggiunto i suoi limiti […] e c’è da chiedersi fino a quando i costi di uno stile di vita capitalista non giungeranno a scavalcare definitivamente i benefici resi a chi lo serve”. Le proteste che dilagano ovunque sembrerebbero dimostrarlo. In realtà non è vero perché l’illimitato è nel determinismo capitalista; perché dopo la pandemia, che avrebbe potuto generare la ricerca di un sistema diverso, come oggi nel pieno della crisi climatica, appena è stato possibile il capitale e tutti noi con esso ci siamo precipitati a voler tornare a prima della pandemia (consumi, divertimento, godimento) e davanti alla crisi climatica accettiamo con entusiasmo la proposta del capitale di farci resilienti, cioè di adattarci anche al riscaldamento climatico, senza però modificare il capitalismo che lo produce (il capitale non lo vuole). E anche le proteste restano proteste, prive come sono di un progetto alternativo al – o almeno di profonda riforma del – sistema. Confermandosi la tesi di Herbert Marcuse e la sua teoria critica della società industriale avanzata la cui razionalità, strumentale e quindi irrazionale, in realtà nega e riassorbe in sé e per sé qualsiasi opposizione, essendo una società industriale e quindi fondata sulla massima integrazione e sulla massima standardizzazione comportamentale, inglobando e azzerando in sé anche ciò che vorrebbe confutarla.
Il neoliberalismo ha dunque mancato tutte le sue promesse – che erano propaganda – la prosperità non è cresciuta (anzi), ha mandato in crisi la democrazia (il mercato e la competizione uccidono la democrazia) e delegittimato la politica per il trionfo dell’economia capitalistica, ha favorito populismi e democrature e autocrazie, la guerra è tornata infine ad essere una possibilità concreta (anche o soprattutto di business capitalistico). Mentre, scrive Streeck “una democrazia di livello globale semplicemente non esiste, ma solo una sua forma elitaria”. Che fare? Per Streeck – per il quale il capitalismo continuerà a regredire e atrofizzarsi finché, a un certo punto, potrebbe arrivare alla propria fine; ma che ha però fatto anche endorsement per il nuovo partito sovranista-di-sinistra (una evidente contraddizione in termini) Bsw fondato, uscendo dalla Linke, da Sahra Wagenknecht – siamo davanti a due possibilità: proseguire sulla strada di un’ulteriore centralizzazione sovranazionale del potere con una concentrazione delle decisioni nelle élite (nelle oligarchie) globalizzate o europee, perfezionando un sistema incapace di riconoscere le differenze e le pluralità esistenti; oppure, ed è la strada preferita da Streeck, creare una architettura internazionale che rispetti le singole sovranità, l’eterogeneità degli stili di vita e le diversità economiche, e quindi sia pluralista e contrasti la globalizzazione e la iper-globalizzazione.
Streeck propone quindi – richiamandosi a Keynes e al suo nazionalismo economico capace di resistere all’universalismo del mercato e del capitale (“idee, sapere, scienza, ospitalità, questo è ciò che dovrebbe essere internazionale; le merci invece, nei limiti del possibile, andrebbero prodotte in casa”) – una “uscita verso il basso dall’impasse post-neoliberale, nella prospettiva di una democraticità strutturale della goveramentalità politica, con un’architettura micro-statuale e un ordine intra e interstatuale privo di centro e aperto ai particolarismi dei singoli stati”. Proponendo di scomporre la complessità invece di governarla come complessità e “così migliorando le capacità di autogoverno dei sistemi complessi” – e questo è un punto debole, debolissimo della sua proposta, scomporre la complessità significa non vedere l’insieme complesso e soluzioni parziali non risolvono i problemi globali – anche se crede che oggi la scelta sia appunto tra macro e micro-statualità, tra integrazione e differenziazione dei sistemi statuali, “tra globalismo e democrazia (o la possibilità di una democrazia). L’offerta non comprende entrambi, ma neanche solo la democrazia senza stati nazionali”. E quindi, richiamandosi anche a Karl Polanyi e inventando il modello Keynes-Polanyi sostiene che solo lo stato nazionale (meglio se piccolo) può esercitare il primato della politica democratica sull’economia, anche attraverso il protezionismo. Cosa che ci appare del tutto impossibile se prima lo stato e la società non escono radicalmente dal modello aziendalistico e quindi non democratico di stato imposto dal neoliberalismo/capitalismo. Senza dimenticare che tutti i sovranismi odierni sono comunque neoliberali e capitalisti. Streeck arriva poi a mescolare il patriottismo (valore di destra, come il comunitarismo) all’economia partecipativa (di sinistra e dintorni), ma anche a preferire, davanti alla crisi climatica globale, i piccoli interventi locali (ancora: scomporre la complessità) – e se anche non produrranno effetti globali poco importa, importante è far crescere l’idea di vivere in un mondo (locale) migliore. Meccanismo che ci sembra paradossale.
Senza dimenticare poi che un sistema di micro-statualità non riuscirà mai a contrastare un capitalismo globale e molto più potente (divide et impera) di una pluralità di stati: sovrani quindi su niente, se non sulla finzione populista di essere padroni a casa propria, quando in realtà il mondo è sempre più uniformato e standardizzato via televisione e oggi via rete. E ancora, la proposta di Streeck “vuole essere non tanto sovversiva e anti neoliberale” (cioè anti-capitalista), “ma costruttiva e post-neoliberale” e quindi, chiosiamo di nuovo, ancora neoliberale, anche se post. Certo, uno dei modelli (e un modello per l’Europa) resta la Svizzera, ma anche la Svizzera è in crisi e anche in Svizzera si producono micro-sovranismi e la decentralizzazione genera disuguaglianze crescenti e insieme produce la ricerca crescente di centralismo – e soprattutto è parte funzionalisssima del sistema neoliberale/capitalistico.
Insomma, un libro contraddittorio – ma interessanti sono le riflessioni sull’ideologo neoliberale von Hayek, sul concetto di governance, su Keynes e Polanyi ed è utile per una ricapitolazione della storia degli ultimi quarant’anni. Debolissima è invece la sua proposta sovranista-di-sinistra, ammesso che sia di sinistra – e Streeck ci fa sentire ancora di più la scomparsa della Teoria critica della prima Scuola di Francoforte. Ma soprattutto – e questo è un limite non solo di Streeck – manca totalmente la riflessione sul potere della tecnica e delle Big Tech tecnologiche, che sono capitalistiche, universalistiche e anti-democratiche all’ennesima potenza.