Gian Arturo Ferrari e la politica del bestseller
Le mille possibili storie del libro e dell'editoria
Ci sono molti modi per narrare la storia dell'editoria. L'avventura delle case editrici, le invenzioni degli editori e le loro personalità spesso eccentriche. Oppure l'evoluzione delle collane, come fa Bruno Pischedda raccontando La competizione editoriale. Marchi e collane di vasto pubblico nell'Italia contemporanea (1860-2020) (Carocci, 2022; vedi la recensione di Mauro Novelli su doppiozero). O ancora, tra affetto e confidenza, la strana tribù cui appartengono “gli uomini e le donne di libro”, come ha fatto Ernesto Ferrero raccontando gli editori e gli autori (che spesso lavoravano nelle case editrici) incontrati nella sua lunga carriera in Album di famiglia. Maestri del Novecento ritratti dal vivo (Einaudi, 2022; vedi la recensione di Giuseppe Lupo).
Oppure si può centrare il racconto sui bestseller, come fa Gian Arturo Ferrari nella sua Storia confidenziale dell'editoria (Marsilio, 2022). Del resto Ferrari è un esperto del ramo. Come sussurra nel suo memoir, “nei primi Duemila la Mondadori sforna ogni anno un successo da un milione di copie. Un megalibro o un gigalibro” (p. 238). Qui pudicamente l'autore non ricorda al suo lettore che dal 1997 al 2009 era proprio lui a guidare la Divisione Libri del Gruppo Mondadori: una posizione vantaggiosa, visto che “la Fiat dei libri” (p. 197; ma vedi anche il recente programma Rai) ha sempre avuto come punto di forza “la salda occupazione del centro, dove si colloca il grosso del pubblico, il suo pubblico” (p. 183) e “si fonda sul principio che se in editoria si guadagna vuol dire che si è in sintonia con i gusti del pubblico” (p. 156).
Allora può essere divertente leggere questa Storia (che però è pubblicata in una collana di “Romanzi e racconti”) per rubare al Napoleone dell'editoria italiana la ricetta del bestseller – se mai esiste.
La formula di Gian Arturo Ferrari per catturare i lettori è semplice: “argomenti bassi, trattazioni alte. Dove per 'bassi' intendo temi semplici, di interesse generale, e per 'alte' un modo di guardarli non convenzionale, nuove prospettive” (p. 163). Ma naturalmente non basta.
L'arte invisibile dell'editore
Il fulcro è la natura del lavoro editoriale, ovvero “l’arte di tenere insieme gli autori, le loro opere e il pubblico” (p. 11). Quest'arte deve però risultare invisibile. Proprio questa trasparenza conferisce un enorme potere: “Il testo, finché non viene pubblicato, non è inciso nella pietra come le tavole della legge. È qualcosa di malleabile, (…) lo si può modificare, gli si può dare una curvatura diversa, un’altra risonanza. L’editoria è di natura sua servile, ma proprio perché si nasconde, non si fa vedere, può agire indisturbata o quasi. L’importante è il risultato. Se alla fine il testo sarà migliore, nessuno vorrà negare di esserne l’autore” (p. 113).
Del resto, “un libro non è 'uno', quello che si ha sott’occhio, ma si può fare in molti modi (questo è elegantissimo) e dargli molte arie (aure?) diverse. A volte i libri possono anche essere belli, belli da vedere oltre che da leggere” (p. 57). E a volte un libro diventa un bestseller o un megaseller, se ben vestito... Perché ogni libro ha un titolo, una copertina, un formato, un prezzo. Ne consegue che un libro, nel momento in cui arriva in casa editrice, non è più opera di un singolo autore: il successo avrà molti padri e madri, come raccontano alcune delle case histories di successo in cui Ferrari rende merito al suo staff.
Vestire i libri
Plasmare un libro significa per cominciare trovargli il titolo giusto, che può perfino rendere attraente un libro sgangherato o scialbo. A Ferrari piace Via col vento, perché “il grande titolo non enuncia e non descrive, evoca” (p. 28). Apprezza Il dio delle piccole cose e Ogni cosa è illuminata. Elogia Alberto Bevilacqua per l'efficace binomio donna-titolo, vedi La califfa o La donna delle meraviglie. Preferisce Red Dragon alla traduzione italiana, “un volgarissimo Il delitto della terza luna, degno di un gialletto di terza categoria”. Non gradisce il tono romano e mondano di La sera andavamo in via Veneto, fortemente voluto dall'autore Eugenio Scalfari. E dà un prezioso consiglio: “Sempre, o quasi sempre, gli autori dicono senza pensarci, parlando normalmente, il titolo del loro libro. Senza accorgersene. Sta all’editore, che ha davanti agli occhi il libro come se fosse già pubblicato, isolare quelle parole” (p. 188).
Poi ci sarebbe la copertina, ovvero “il lettering, la scelta, la disposizione, la dimensione dei caratteri”. Con un'avvertenza: “La copertina ideale è fatta di solo lettering, pura grafica. Anche perché l’autore e il titolo sono la prima cosa che il cliente della libreria legge. Ma non la prima che vede, questa è l’immagine, ed è lei che muove l’attenzione e induce a leggere” (p. 281).
Il paradosso fondamentale dell'editoria
Ma c'è di più. Non basta trovare un libro vendibile, inventarsi un titolo acchiappa clic e vestirlo come si deve, a seconda del genere e del target. Per fare un bestseller bisogna saperlo vendere, un'arte ancora più difficile. Serve un talento speciale: il peccato mortale in editoria è credere nella qualità di un libro, ma non nel suo successo. Non basta il fiuto, servono convinzione, fiducia (p. 179). O, per usare un sinonimo che per alcuni è una bestemmia, il marketing.
A tenere insieme autori e pubblico, offerta e domanda, è il paradosso fondamentale dell'editoria, il ritornello di questa Storia confidenziale: “L’editoria è un Giano bifronte, da un lato mostra il volto amico della cultura, ma dall’altro il cipiglio dell’economia. I Vangeli dicono che non si possono servire contemporaneamente Dio e Mammona, ma l’editoria purtroppo non segue i Vangeli” (p. 24). Ferrari sbeffeggia irritato gli editori come Giulio Einaudi e Giulio Bollati che puntano tutto sulla cultura, partendo dal presupposto (napoleonico) che l'inténdance suivra. Insomma, se una casa editrice produce buoni libri, Mammona darà all'editore la sua benedizione e qualcuno riuscirà ad aggiustare i conti. Un atto di fede che ha portato al fallimento di numerose imprese editoriali.
Per reggere sul mercato (e superare la casualità del bestseller) serve una competenza manageriale che a Ferrari è arrivata da una specie di master accelerato in business administration che l'amministratore delegato di Mondadori Franco Tatò impose agli inconsapevoli dirigenti della gruppo: “Anch’io, povero classicista di formazione, ho così modo di apprendere cosa sia il Roi, cosa il Roe, e cosa il Cagr, imparo a calcolare la svalutazione e mi impratichisco nell’arte dei misteriosi 'fondi'” (pp. 158-159). Ricordando che per qualunque libro e qualunque editore vale la regola aurea di un genio dell'editoria come Mario Spagnol, che “applica con puntiglio il suo principio di salvare i libri, ciascun libro, nel senso di applicarsi, partendo da previsioni di vendita realistiche, a trovare il modo di far tornare il conto economico. Se non ci si riesce pazienza, si rinuncia al libro: mai pubblicare sapendo in anticipo che ci si perderà” (p. 147). Pur sapendo che buona parte delle novità non ripaga le spese...
Alla ricerca dei lettori perduti
Nel corso della sua storia, l'editoria italiana ha cercato disperatamente di coinvolgere nuovi pubblici, al di fuori della cerchia dei “lettori forti”, ovvero l'élite colta, esigente e modaiola di coloro che leggono almeno 12 libri all'anno (il 9% dei lettori). Anche se sono proprio i lettori forti la spina dorsale del sofisticato e asfittico mercato editoriale italiano: il 59% delle copie vendute sono acquistate dal 23% dei lettori, ovvero quelli che leggono più di 7 libri l’anno (fonte CEPELL e Ufficio Studi AIE, 2021).
Nella storia italiana sono stati numerosi i tentativi di allargare il “popolo dei lettori”, come ricorda Ferrari. Con le sue riviste, Angelo Rizzoli ha avviato alla lettura la gente comune: non il popolo, “che editorialmente parlando non esiste”, ma “le donne invece, le ragazze, i giovanotti, chi vuole letture leggere e divertenti” (pp. 31-32). Gli Oscar hanno stanato il pubblico “delle donne, dei ragazzi, degli italiani che si stanno modernizzando” (pp. 93-94). Gli anni Sessanta hanno coinvolto “un nuovo pubblico, giovanile e baldanzoso, che ai libri non è borghesemente interessato, ma che li cerca, ne ha bisogno (…) Siccome tutto si è capovolto, tutto si può leggere e rileggere nella nuova luce” (pp. 97-98). Negli anni del riflusso, ecco il pubblico della Varia Mondadori di Paolo Caruso e Gabriella Ungarelli, “che si è stufato di predicozzi e meditazioni e vuole onestamente divertirsi” (p.180).
L'editoria di spinta
A queste fasce di pubblico si rivolge, anche con nuove collane economiche e supereconomiche, l'editoria “di spinta” che ha consentito alla Mondadori la sequenza dei mega-seller (oltre che collane come gli Oscar e i Miti). Ma quella è stata una stagione irripetibile, che pare conclusa. Alla fine il bilancio tracciato dal Mourinho dell'editoria italiana non è positivo: “l’esperienza pratica sembra dimostrare che l’editoria di spinta – l’embrione del mass market – ha un carattere occasionale, funziona per casi singoli, ma non giunge né a generalizzarsi né a resistere al tempo. Si accendono molti fuochi, ma non riescono a trasformarsi in un incendio e dunque finiscono per spegnersi” (p. 327).
Dal punto di vista aziendale, il bilancio è un risicato pareggio. Certamente Mondadori ha visto anni di bilanci in positivo, con ulteriori ricadute positive: “L’esperienza dell’editoria di spinta ha rodato la macchina, l’ha portata a un livello di efficienza che lei stessa non sapeva di avere” (p. 327-328). Resta l'editore leader, ma non ha incrementato la sua quota di mercato vendendo più copie dei libri con il suo marchio, ma acquistando altre case editrici, come è accaduto con Rizzoli Libri nel 2015 e con De Agostini Scuola nel 2021 (e Ferrari spiega bene perché i Big Four dell'editoria mondiale hanno, come Mondadori, questa vorace necessità di crescere). Nell'insieme, malgrado le concentrazioni editoriali e le conseguenti economie di scala, in Italia le piccole e medie case editrici mantengono e spesso accrescono le loro quote di mercato, perché sono più agili e curiose (anche se Ferrari le relega in una sorta di appendice-minestrone).
Più in generale, la politica del bestseller non ha aumentato il numero di lettori, che in Italia ristagna da decenni: “la massa amorfa” dei non lettori “si rianima, si contrae e sembra viva fintantoché dura la scossa elettrica che il Frankenstein-editore gli somministra, ma appena questa cessa ripiomba nella sua consueta catatonia” (p. 327). Questa amara riflessione Gian Arturo Ferrari ha dovuto forse farla quando, dopo aver concluso l'esperienza mondadoriana, dal 2010 al 2014 è stato presidente del Centro per il Libro e la Lettura (Cepell), presso il Ministero dei Beni e delle Attività culturali. Nonostante il suo impegno, la maggiore istituzione pubblica che opera per sostenere e diffondere la cultura del libro non è stata in grado di proporre una politica efficace (e il Cepell non ha fatto la differenza nemmeno prima e dopo la gestione Ferrari, purtroppo).
L'ambigua vocazione editoriale
Ci sono interessanti confidenze, in questa Storia confidenziale, a cominciare dal rapporto con il suo editore, ovvero Silvio Berlusconi (quando conquistò la Mondadori, precisa perfido Ferrari, se ne andarono solo Sandro Veronesi e Walter Veltroni), e sull'opportunità di “imbiancare i sepolcri” in occasione della fatwa a Salman Rushdie.
Ma emerge soprattutto una sincera fede nel libro: a questo oggetto (quasi) misterioso lo stesso Ferrari, aveva dedicato una piccola monografia, intitolata proprio Libro (Bollati Boringhieri, 2014).
Una domanda attraversa tutto questo “romanzo editoriale”. Riguarda la misteriosa categoria degli “editoriali”, ovvero la casta di chi lavora nelle case editrici. L'editoriale è “uno che i libri non solo li conosce e li ama, ma li sa fare e li fa” (p. 30), pur senza essere un editore. A un certo punto, in maniera misteriosa, un vorace lettore – come ce ne sono tanti – “varca la soglia, entra nel monastero e prende i voti editoriali”. All'editoriale non basta conoscere i gusti del pubblico, adeguandosi alle mode. Deve essere in grado di anticipare i suoi mutamenti.
Ferrari, nato come storico della scienza e a lungo professore all'Università di Pavia, ha sentito la chiamata (va anche aggiunto che quella editoriale è una vocazione ormai in buona parte femminile, ma questo meriterebbe un altro approfondimento). È una vocazione crudele, precisa, con “aspetti penitenziali”, perché “l'animo si fortifica con gli insuccessi” (p. 271). È un'educazione alla doppiezza, vedi Vittorio Sereni, insieme poeta e manager editoriale: “È lui a educare il mio gusto nella letteratura di evasione, a farmi capire, senza prediche, senza teorie e senza neppure che io sappia di venire ammaestrato, che l’evasione non è per definizione il 'basso', ma che anche lì c’è un basso e un alto” (p. 89). O Mario Spagnol, fautore di un'editoria insieme “progressiva, per l’editoria economica” e “conservatrice, per il libro ben fatto, il libro libro, che non dev’essere necessariamente di lusso” (p. 102). Perché “in editoria, conviene mettersi il cuore in pace, non c’è mai niente di puro, le più nobili intenzioni sono sempre mescolate ai più bassi interessi. È il suo destino e il suo fascino” (p. 208).
Tuttavia per sorreggere questa bislacca vocazione, e la sua doppiezza, serve un'autentica professione di fede, che trascende ogni cinismo bocconiano. Bisogna essere convinti che “i libri appartengono a un ordine superiore di realtà e il loro editore è bene che lo manifesti e si adegui” (p. 23). Serve “l’intima certezza che tutto passa dai libri, il bene e il male, l’effimero e l’eterno. Una specie di immensa radiografia dell’umanità. Ma non statica, in continuo movimento, più un filmato che un’immagine fissa. Il pullulare del nuovo” (p. 106). Insomma, l’editoria è “espressione della cultura mondiale allo stato nascente” (p. 237).
Finché, giunti alla fine di questa guerra corsara nell'editoria, ci si accorge che in queste 363 fitte e istruttive pagine non abbiamo mai incontrato né Amazon (e Kindle) né Google.