Il Viaggio in Italia di Pietro Scarnera
“Non puoi veramente capire. Dovresti essere qui”. È quanto scrive Hans Christian Andersen, in una lettera del marzo 1834, quando tenta di descrivere a un lontano interlocutore ciò che vede proprio in quel momento affacciato da un balcone di Napoli: in alto il cielo notturno, con degli alberi di arancio a tal punto piegati dai frutti che sembrano chinati verso l’argento lunare, in basso, sulla strada, dei pentoloni ribollenti con pietanze che forse all’olfatto riesce a riconoscere, ma c’è lì anche un uomo, un “lazzarone seminudo”, occupato a mangiare fichi fritti. In uno sforzo descrittivo che cerca di tenere insieme lo sguardo largo in estensione e quello stretto, che afferra il particolare, lo scrittore Andersen ha svolto il suo compito nei confronti di chi leggerà, ma, allo stesso tempo, nel momento successivo alla scrittura, avverte un moto di delusione: sente che quanto appena descritto non è abbastanza, non riesce davvero a restituire la totalità dell’esperienza che si fa racconto, perché in esso manca l’unico possibile compimento, ossia la compresenza dell’altro che possa osservare con i suoi propri occhi.
Questa non è che una delle immagini offerte da Pietro Scarnera, autore della graphic novel Viaggio in Italia (Coconino Press 2024), che raccoglie i frammenti dei molti viaggi alla scoperta del nostro paese compiuti da grandi artisti del passato, da Goethe a Stendhal, passando per Byron, Keats, Percy e Mary Shelley e tanti altri. A colpire è prima di tutto proprio questo punto in comune tra i tanti spunti di osservazione: non è mai davvero possibile rendere fino in fondo la totalità dell’esperienza di viaggio, sempre appare fallimentare la possibilità di restituzione, se non, forse, quella verso sé stessi, la forma diaristica che in apparenza lascia per un lettore segreto, ignoto anche allo scrittore, quanto vi sarà confidato. Eppure ognuno di questi grandi nomi della cultura mondiale, principalmente europea, tenta in ogni modo questo sforzo che sa impossibile, stendendo lettere dense di appunti tratti dal viaggio che finiranno, per un attento lettore dell’epoca contemporanea che gode di un approccio filologico intensivo, nelle successive opere magari in altra forma, tradotte o diluite nelle storie romanzesche o in versi di poesia.
Ad attrarre questi viaggiatori concorrono storicamente alcuni fattori dominanti. In primo luogo la caratura che riveste la storia d’Italia come laboratorio di sperimentazione politica e fondamento culturale dell’identità europea: fin dal primo Cristianesimo e dalla Roma imperiale, passando per la trasformazione dell’Impero nell’alto e nel basso Medioevo, la nascita dei Comuni come nuova forma di gestione territoriale, la rinnovata passione per il mondo classico del movimento umanista, poi il lustro del Rinascimento e del Barocco che hanno rivestito d’arte le città italiane, fino al crescente interessamento degli artisti per le vicende politiche, dal Risorgimento in avanti, l’Italia ha sempre rappresentato un nucleo di interesse primario per chiunque volesse raccogliere i segni del passaggio tra un’epoca e l’altra della storia europea. Il secondo elemento che fa del nostro paese una meta di assoluto interesse è invece dato da una ricchezza ambientale e dunque paesaggistica molteplice, un territorio esteso per un’ampia latitudine, attraversato da montagne e colline che ospitano molti fiumi e circondato per due terzi dal mare. Ma se c’è un elemento che ricorre nei pensieri degli intellettuali e artisti apparsi nelle pagine disegnate da Scarnera è una sorta di ibridazione tra la storia e il paesaggio, quella forma di ricerca intima sviluppata dalla sensibilità di ognuno che muta in modo concreto la vita interiore, insinuata dal turbamento ma allo stesso tempo arricchita da una maggiore coscienza di sé. Johann Wolfgang Goethe, forse il maggiore tra gli “esploratori” d’Italia, che non a caso appare per primo nel racconto di Scarnera, fa della contemplazione il primo impulso di ricerca, lasciando al silenzio il compito di accogliere le riflessioni suggerite dallo sguardo; nello scrittore capofila del romanticismo tedesco, cui si deve un volume omonimo pubblicato nel 1816-17, emergono gli elementi che attraversano molti dei viaggiatori qui raccolti: lo stupore dell’estensione che certe vedute panoramiche sanno stimolare, l’effetto singolare che dall’immagine statica produce un dinamismo accelerato del pensiero, infine la ricerca di una meccanica epifanica, quella disponibilità ad accogliere i segni dell’osservazione ogni volta come una sorprendente apparizione. Questa continua e complessa tensione tra sguardo osservante e spazio osservato incarna uno degli aspetti più interessanti del libro di Scarnera, il cui disegno naturalistico, di pochi ma significativi tratti, attraversa costumi e ambientazioni di varie epoche, scegliendo una nettezza cromatica a tinta tenue che maggiormente permette di apprezzare la vastità paesaggistica.
Scorrendo le diverse occasioni di relazione tra l’essere umano e l’ambiente attorno emerge inoltre una particolare sensibilità dei viaggiatori celebri per i luoghi in cui riposano le spoglie dei grandi di un più antico passato, o in cui solo hanno soggiornato per un periodo o appena per un giorno, evidenziando così come tale postura sia simile a quella di chi dovesse, ora, recarsi nei luoghi dove questi stessi viaggiatori hanno pianto o riso, gioito o sofferto, di autentica emozione. Nella raccolta dei testimoni, la cui provenienza da fuori confine è una ricorrenza assoluta, si manifesta la forza di uno spostamento del punto di vista, come se la descrizione di luoghi noti fosse nitida soltanto attraverso un’osservazione occasionale, passeggera, come se, allontanando lo sguardo, si vedesse meglio. Un contributo al fascino di certe testimonianze è dato anche dagli equivoci e dalle difficoltà della diversa lingua – o, per meglio dire, delle molte lingue italiane – che mutano per i viaggiatori in occasioni impreviste, opportunità di ricreare il senso in una logica rinnovata, spuria, nata da una chimica ibrida tra un suono e l’altro della pronuncia. Ma più ancora ricorre in questi sguardi di tempi difformi la ricerca di un confronto con l’arte o con l’archeologia, la necessità di vedere da vicino quanto nei complementi di ogni epoca è descritto o riprodotto; dunque, ancora una volta, è il richiamo all’esperienza diretta che si fa chiaro dalle intenzioni di Scarnera, come a voler dichiarare a questa nostra epoca contemporanea soverchiata dalla capacità riproduttiva e dall’intelligenza artificiale il primato dell’autentico. Tuttavia, se ci trovassimo di fronte solo alla sequenza di testimonianze, forse il volume avrebbe un interesse di minore spessore. Perché Scarnera intesse tra questi viaggi nel tempo passato alcuni sguardi tratti dalla propria autobiografia, un passato più recente di viaggi familiari verso il mare, svincoli autostradali, basi nucleari dismesse e pericolanti, che permette un confronto efficace con gli effetti del mutamento.
Quale Italia, dunque, vedrebbe un viaggiatore contemporaneo? Da nord a sud, l’incanto paesaggistico che ha affascinato diversi protagonisti del libro lascia il passo al marcio segreto del nostro paese: il disboscamento selvaggio responsabile di frane e alluvioni, l’incuria che ha ridotto coltivazioni secolari come gli ulivi a un deserto di macerie, la speculazione edilizia che ha devastato le coste tra le più belle al mondo, un paesaggio di rovine antiche e moderne concorre a tenere insieme – l’Italia è modello di tale contraddizione – quanto di meraviglioso e terribile a un tempo l’essere umano ha saputo concepire.
Viene in mente allora, tra le maglie del racconto di Scarnera, il viaggiatore principale che il nostro paese abbia mai avuto, quel Marco Polo che Calvino ha preso in prestito affinché osservasse Le città invisibili nel lontano Catai del Kublai Khan, perché nel tanto viaggiare il veneziano mercante ha saputo cercare le immagini note dentro altre immagini ignote, la propria città in altre città sconosciute, passando dunque dallo spaesamento a un possibile agognato ri-appaesamento con cui sperimentare il valore di una sorta di antiarcheologia, che scava dove non sa, per trovare ciò che sa. In una lettera datata febbraio 1820, da Ravenna, Lord Byron a proposito del suo rifiuto a raccontare in un libro i costumi dell’Italia scriveva: “Io non so come farvi comprendere un popolo che è insieme mite e dissoluto, capace di passioni che sono allo stesso tempo improvvise e durevoli”. Quale migliore testimonianza sull’Italia se non quella che ne afferma l’impossibilità? Avrebbe dato ragione ad Andersen, anche Byron: Dovresti essere qui.